Il 4 Aprile del 1978 è stato un momento importante per il mondo dell’intrattenimento per ragazzi. Fu in quella data, infatti, che la Rai trasmise Goldrake, la prima serie animata di genere robotico ad essere vista in Italia.
L’effetto sul pubblico dei ragazzi di allora fu dirompente. Il successo di Goldrake aprì le porte a una vasta produzione di cartoni animati giapponesi di ogni genere e target, che ando’ a riempire la programmazione sia della TV pubblica che di quella privata.
Se da una parte il pubblico giovanile accolse con entusiasmo queste nuove proposte, dall’altra ci fu una certa ostilità e diffidenza da parte della cosiddetta cultura ufficiale (diffidenza che ben vedere dopo tanti anni non è stata superata). I cartoni animati giapponesi furono accusati di essere diseducativi, e dal punto di vista tecnico si sosteneva la tesi che venissero totalmente realizzati al computer, senza alcun intervento manuale da parte degli autori.
Anche l’editoria a fumetti si interesso’ alla produzione nipponica. La mole di pubblicazioni fu enorme e si divise tra prodotti tradotti dall’originale, ma riadattati e stravolti, o fumetti realizzati appositamente in Italia. Fra le tante proposte ne cito solo alcune: il Gruppo Editoriale Fabbri pubblico’ la versione originale del Grande Mazinga di Go Nagai e Gosaku Ota. I venticinque numeri, pubblicati a cadenza settimanale, furono censurati e colorati per l’edizione italiana. Stessa sorte tocco’ anche a Lady Oscar di Ryoko Ikeda e a Candy Candy di Kiyoko Mizuki e Yumiko Iragashi, con censure e rielaborazioni tali da stravolgere completamente il senso delle storie. Per Candy Candy, al termine della pubblicazione del manga originale, si diede il via ad una produzione italiana ad imitazione dello stile nipponico.
Nel 1980 le edizioni Flash pubblicarono Atlas Ufo Robot, un settimanale con fumetti disegnati da autori Italiani; in questa rivista furono pubblicate anche storie di Goldrake, Astro Robote Starblazer, sempre di produzione nostrana.
Anche la rivista Eureka diede spazio al manga. Sotto la direzione di Castelli e Silver, fu pubblicato nel n 206 del 1980 “Golgo 13” di Takao Saito e nel novembre 1983, in un numero dedicato interamente al Giappone, fu introdotta in Italia l’opera di Osamo Tezuka con un episodio di Black Jack.
Dopo un iniziale successo, pero’, queste pubblicazioni non aprirono un nuovo mercato per i manga. Bisognerà aspettare i primi anni ’90 per una presenza costante nelle edicole.
Le prime due testate ad essere pubblicate furono Akira edita dalla Glenat Italia nell’Aprile del 1990 e Ken il Guerriero pubblicato nel Novembre 1990 dalla Granata Press, che l’anno seguente pubblico’ Mangazine, la prima rivista antologica dedicata ai manga.
Ma il primo vero grande successo fu Dragonball, pubblicato dalla Star Comics nel 1995 rispettando l’impaginazione originale giapponese senza il ribaltamento delle pagine. Il mensile arrivo’ alle centomila copie di vendita.
Questa diffusione diede vita ad una nuova generazione di lettori. Molti di essi iniziarono a leggere fumetti con i manga e la conseguenza fu che alcuni non si limitarono solo a leggerli ma iniziarono pure a disegnarli.
Questo è un fatto del tutto naturale. Se ci pensiamo bene, anche nei decenni precedenti, sono stati diversi i fumettisti italiani che hanno guardato con attenzione e tratto ispirazione dai maestri del fumetto mondiale. In Italia non è mai esistita una chiusura culturale verso l’esterno e la pubblicazione di fumetti provenienti da ogni parte del mondo ha permesso la formazione di autori con segni grafici assai diversi.
Hugo Pratt si era rifatto alla lezione di Milton Caniff; Milo Manara e Giancarlo Alessandrini hanno rielaborato il segno di Moebius; Vittorio Giardino ha definito, nel corso degli anni il suo segno sino ad arrivare ad una sua personale “Ligne Claire” di chiara ispirazione franco-belga; Fabio Civitelli ha iniziato a disegnare seguendo lo stile grafico di Jack Kirby e John Romita; Claudio Castellini si rifaceva a Neal Adams e Stefano Raffaele agli esordi era considerato il Jim Lee italiano.
Nessuno in fondo aveva da ridire. Chi sceglieva di disegnare seguendo un certa scuola poteva inserirsi nel circuito professionale senza particolari problemi. Si trattava solo di adattarsi alle richieste dell’editore. Il fumetto americano e franco-belga erano ormai di casa tra i lettori di fumetti italiani. Lo stesso non si poteva dire dei Manga.
Oramai è risaputo che Manga è il termine con cui i giapponesi chiamano i fumetti. Così come in Francia li chiamano Bande Dessinée, in argentina Historieta e negli Stati Uniti comics. Il fumetto, nazionalità a parte, è in ogni caso un linguaggio, così come lo è il cinema e la narrativa. Questo è quello che li accomuna al di là dei termini diversi con cui vengono chiamati e del diverso paese d’origine.
Quello che li differenzia è il tipo di simboli e codici che vengono utilizzati. Tralasciando gli aspetti editoriali, che meriterebbero un discorso a parte, le differenze sostanziali sono rappresentate dall’impaginazione e dall’ordine di lettura, dall’uso differente delle onomatopee e dei baloon, dalla resa del movimento attraverso le linee cinetiche e dalla costruzione della figura umana.
Gli aspiranti autori che iniziarono a disegnare manga furono da subito messi davanti ad una scelta: se volevano lavorare dovevano adattare il loro disegno ad uno stile occidentale.
In realtà ci furono dei tentativi da parte di qualche editore di tentare la carta dei cosiddetti “Spaghetti Manga“. Un esempio per tutti fu Pugno, pubblicato dalla Comic Art, che non fece breccia nei lettori di manga.
Era quindi necessario un compromesso tra i due linguaggi. I primi a scommettere sulla possibilità di contaminazione tra fumetto italiano e giapponese furono Medda, Serra e Vigna con Nathan Never e Legs Weaver. La scommessa fu vinta e aprì le porte dell’editore per antonomasia del fumetto italiano, Sergio Bonelli, ad autori come Luca Enoch, che inizio’ a collaborare con Legs e diede vita ad un personaggio come Gea. Sempre in casa Bonelli, Federico Memola diede vita a Jonathan Steele, le cui copertine furono affidate a Teresa Marzia, disegnatrice con evidenti influenze manga.
Al contrario nel settore dell’autoproduzione un manga meno contaminato inizio’ a trovare il suo spazio. Emblematico fu il caso di Elena Dé Grimani con il fumetto Rigel, che raccontava la storia di una vampira e del suo scontro con una nuova sacra inquisizione. Nato più per passione che per scommessa editoriale questo fumetto ebbe un’immediata presa sul pubblico delle librerie specializzate. Il successo fu tale che porto’ Rigel dall’autoproduzione fino ad essere pubblicato dalla Panini Comics. L’autrice ha di recente ripreso in mano il suo personaggio per una nuova storia che sarà pubblicata dalle Edizioni BD.
Ma se un autore occidentale rifiuta la contaminazione è giusto che insista con il volersi esprimere con uno stile di disegno di scuola nipponica?
La mia opinione è che motivazioni contrarie non ne esistano, ma che si tratti solo di un limite culturale da parte degli editori. Questo a patto che l’autore abbia fatto suo un certo tipo di impostazione e che conosca appieno il linguaggio che vuole utilizzare. In caso contrario il risultato sarà solo un pedissequo tentativo di imitazione.
Chi si dichiara contrario afferma che i manga sono il prodotto di una cultura diversa e lontana dalla nostra. Ma se questa obiezione fosse valida bisognerebbe usare lo stesso metro di giudizio, per esempio, anche in ambito musicale. Se così fosse allora il Jazz lo dovrebbero suonare solo i neri. E per arrivare a tempi più recenti potremmo dire lo stesso per la musica hip-hop. Si tratta di un movimento culturale nato in prevalenza nelle comunità afroamericane e latine del Bronx, quartiere di New York, alla fine degli anni settanta. In pochi anni questo fenomeno ha varcato i confini statunitensi per diventare un patrimonio culturale mondiale, e anche in Italia, da metà degli anni ottanta si è sviluppato un movimento di buon livello. Non entrero’ nello specifico, pero’ è indubbio che a livello culturale questa influenza è stata accettata senza particolari difficoltà. Eppure si tratta di una musica lontana anni luce dalla nostra, ma chi sente di esprimersi usando l’hip-hop ha tutto il diritto di farlo.
La realtà è che ormai viviamo nel cosiddetto “villaggio globale”, e non possiamo ignorare quello che accade nel mondo.
Quindi anche per il manga vale lo stesso discorso: i ragazzi che in questi anni sono cresciuti seguendo anime e manga ne hanno assorbito perfettamente il linguaggio. Ormai fa parte della loro formazione culturale. Insomma, secondo me, non bisogna essere giapponesi per creare dei buoni manga.
Nel resto del mondo, rispetto all’Italia, negli ultimi anni, la situazione si è evoluta in maniera diversa. Gli editori hanno creduto nella possibilità di una produzione manga da parte di autori occidentali, che può avere la stessa dignità e valore di analoghi prodotti nipponici.
Anche nello stesso Giappone questo fermento è stato accolto con interesse. Un prestigioso riconoscimento agli OEL o Global Manga, cioé autori di manga non giapponesi (Oel sta per English Language manga), viene dal ministero degli esteri giapponese con gli International Manga Award, un concorso dedicato ai mangaka stranieri.
E il resto dell’Europa non è di certo da meno. In Francia, da qualche anno, gli editori hanno dato il via ad una produzione in stile manga, realizzata da autori europei. Non solo quindi fumetti con alcune contaminazioni manga, ma prodotti con impaginazione, senso di lettura e ritmo narrativo prettamente giapponese.
I più coraggiosi sono stati gli Humanoïdes Associés, che dal settembre 2006 hanno creato Shogun una rivista che ospita autori di tutto il mondo, che hanno fatto della loro per il manga una scelta creativa. Tra di loro ci sono alcuni italiani: due coppie di autori come Riccardo Crosa e Andrea Rossettoe Massimo Dall’Oglio e Andrea Jovinelli. La rivista disponibile in 50.000 copie è composta da 308 pagine di prepubblicazione, accompagnata da alcuni editoriali. Le storie che riscuotono maggior gradimento vengono successivamente stampate in libri rilegati di 192 pagine.
Altri italiani hanno trovato il giusto spazio in Germania e soprattutto negli Stati Uniti. È il caso di Daniela Serri e Daniela Orrù (in arte Dany&Dany), disegnatrici di origine sarda. Da circa due anni collaborano con la casa editrice Yaoi Press, specializzata nel genere Yaoi, ossia manga e anime focalizzati su relazioni sessuali tra protagonisti maschili. Un prestigioso riconoscimento al loro lavoro è stato il recente invito a partecipare all’AnimeCentral, una delle maggiori fiere americane di anime e manga, come ospiti d’onore e rappresentanti del “Global manga“.
Riferimenti:
Anime Central, anime e manga convention: www.acen.org