Come i gag manga hanno trasformato la famiglia giapponese (da Keiko #1)

Come i gag manga hanno trasformato la famiglia giapponese (da Keiko #1)

Tratto da Keiko #1 in uscita a febbraio 2025, un articolo sul ruolo del gag manga nel mettere in discussione l'autorità della figura paterna.

Keiko – Bedroom Comics Criticism è una rivista di critica fumettistica autoprodotta fondata da Paolo M. Toti e Matteo Caronna nel 2024 con l’obiettivo di creare uno spazio in cui accogliere modi nuovi, alternativi o anche solo interessanti di parlare di fumetto. La rivista esce due volte l’anno e viene venduta per corrispondenza secondo le istruzioni riportate su keikorivista.it o in alcune fiere di settore quando possibile. Ogni numero di Keiko contiene articoli di approfondimento critico e storico su diverse opere, artisti e tematiche del mondo del fumetto affiancati da illustrazioni inedite realizzate appositamente per la rivista.

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Copertina di Keiko @1, opera di Fabio Malpelo

L’articolo che vi apprestate a leggere viene da Keiko #1 in uscita a febbraio 2025. L’autore è Ali Raffaele Matar mentre l’illustrazione che lo accompagna è di Federico Gaddi. Si tratta di un approfondimento sul ruolo giocato dai gag manga dell’era Shōwa (1926-1989) nel mettere in discussione e sbeffeggiare l’autorità che si associa alla figura paterna. In pieno accordo con questo tema, l’illustrazione che accompagna l’articolo raffigura alcuni dei personaggi adulti più famosi della storia del manga come un unico e grottesco blob di irritabilità e goffaggine.

“Non voglio ereditare i vostri geni!”: come i gag manga hanno trasformato la famiglia giapponese

Ah, la famiglia! Talvolta nido e rifugio, talvolta fardello, talvolta simbolo di un intero popolo. Culturalmente parlando, quando si pensa alla “famiglia giapponese”, vengono spesso in mente ritratti di famiglie rigide, fisse nei loro ruoli, nelle loro pose, nelle loro convenzioni. Eppure, per quanto se ne dica, anche quel modello che tanto pare ancorato a certe anacronistiche consuetudini (in Giappone, per esempio, sono accettati ancora oggi i matrimoni combinati), nell’ultimo secolo ha subito a suo modo una trasformazione graduale, legata agli effetti della guerra e dell’occupazione statunitense. Tanti cambiamenti all’interno della società nipponica sono stati documentati in una lunga sequela di film e strisce a fumetti che sono state un utile mezzo per testimoniare (ma forse anche condizionare) l’evoluzione e la percezione della famiglia come nucleo e costrutto. Grazie alla loro indiscussa potenza espressiva, la settima e la nona arte hanno contribuito a rendere accettabili – o, per meglio dire, digeribili – su larga scala diverse accezioni familiari, agli occhi di una popolazione, quella giapponese, martoriata dalla sconfitta militare, spezzando così un paradigma ipocrita che indicava nella famiglia tradizionale, composta da un uomo “forte e rispettabile” e una donna sottomessa, un modello esemplare, l’unico da imitare e rispettare. Che prerogative dovesse avere, ai tempi, un uomo per essere giudicato “rispettabile”, lo suggerisce l’alto quantitativo di personaggi apparentemente “valorosi” che pullulavano nella narrativa dominante, tra storie di samurai coraggiosi e racconti strappalacrime di genitori e figli devoti che incarnavano lo spirito e la mentalità giapponese, almeno nella prima metà dell’era Showa. Per risultare, dunque, stimabile un uomo doveva possedere una rigorosa educazione, che avrebbe poi dovuto trasmettere ai figli; non avrebbe dovuto creare problemi con il vicinato e, qualora non avesse ereditato un’adeguata posizione sociale, avrebbe dovuto avere un lavoro dignitoso. Inoltre, in qualità di capofamiglia, avrebbe dovuto dimostrare di essere capace di sacrificarsi per il bene degli altri componenti della famiglia. E non solo.

Illustrazione Gaddi Keiko

Il ruolo dei gag-manga

Non ha pari nella Storia del fumetto, lo sforzo immane compiuto da una manciata di artisti e editori di manga, alla conclusione della Seconda guerra mondiale. La varietà, l’originalità e la quantità ingente di storie prodotte sono state essenziali per rivoluzionare il concetto stesso di fumetto, elevandone di fatto il carattere popolare. Se il merito maggiore è da attribuirsi al leggendario Tezuka Osamu (1928-1989), che ha diffuso in maniera capillare in Giappone e nel mondo lo “story-manga”, l’influenza a cascata di altri autori e autrici dell’epoca, in particolare coloro che hanno fatto parte del gruppo del Tokiwa-so, resta indiscutibile.

In un pezzo intitolato “Pianeta Manga”, pubblicato all’interno di un numero di Limes del 2007, Igor Tuveri (in arte Igort) dissertava di come la catastrofe dell’atomica e la mancata elaborazione della sconfitta dell’esercito imperiale giapponese fossero a tal punto scolpite nell’immaginario collettivo da aver posto le basi per un’infinità di declinazioni narrative. L’angoscia della mutazione – aggiungeva Igort – aveva assunto caratteristiche inquietanti nello sguardo di una moltitudine di mangaka che avevano attraversato generi già esistenti, come il fantastico e l’horror, per creare una nuova miscela di narrazioni. Igort elencava una lunga lista di titoli di manga che avrebbero raccolto, a sua detta, l’eredità della catastrofe mai realmente elaborata dai giapponesi: da Guyver di Takaya al celeberrimo Akira di Otomo, da Kiseiju di Iwaaki a Dragon Head di Mochizuki, fino a Neon Genesis Evangelion. Tutte, insomma, storie post-apocalittiche di stampo sci-fi. Nessuna menzione di altri filoni di manga, come se la “catastrofe” fosse riscontrabile esclusivamente nelle distopie fantascientifiche.

Per osservare, invece, come i postumi della disfatta collettiva abbiano influenzato a livello individuale i giapponesi, è necessario buttare un occhio su un genere di manga da sempre poco considerato dall’editoria extra nipponica: i gag-manga a sfondo familiare, che hanno animato il panorama socioculturale già a partire dal 1946 con Sazae-san, probabilmente l’unica striscia quotidiana realizzata da una donna ad aver goduto di un successo tanto verticale. Uno yonkoma di quattro vignette al giorno, per tre decadi. Anni di cambiamenti sociali radicali, dall’occupazione americana iniziata con la fine della guerra al boom economico e tecnologico degli anni Sessanta e Settanta, portati su carta con candore e ironia dal 1946 al 1974 da Hasegawa Machiko, prima per un giornale locale poi per il quotidiano progressista Asahi Shimbun, sulle buffe vicissitudini di una casalinga dall’eccentrica capigliatura e della sua famiglia allargata. Il suffisso “san” del titolo ricorda ai lettori che la protagonista è una donna sposata, un’adulta rispetto ai suoi due fratellini ancora bambini, decisamente più rilevante non solo dell’anonimo marito ma anche del padre. Nel corso delle migliaia di strisce realizzate, gli uomini, difatti, sono messi in ridicolo dall’autrice con l’obiettivo, probabilmente, di mostrare a lettrici e lettori che è finita l’era in cui la famiglia era capeggiata e rappresentata da uomini, ritenuti incrollabili punti di riferimento solo in quanto uomini. In Sazae-san, ricorrevano spesso strisce in cui il padre della protagonista, Namihei, doveva sforzarsi di apparire particolarmente severo con sé stesso e con gli altri membri della famiglia, pur di rispettare il ruolo assegnatogli dalla gerarchia patriarcale, anche a costo di risultare continuamente ridicolo. Disparate sono le tematiche sviscerate dalla vignettista: il divario generazionale, l’ingenuità tipica dei bambini, le costrizioni socio-normative, l’occorrenza nipponica di ostentare cordialità con conoscenti ed estranei (per poi parlare, poco dopo, alle loro spalle) fino ad arrivare, come già detto, a destrutturare il ruolo stesso dell’uomo e della donna nel Giappone della rinascita post-bellica e far luce sul mutamento della figura femminile tra le mura domestiche. Particolarmente esemplificativa è una striscia in cui Sazae insegue un topo con lo scopa mentre suo marito, temendo l’animale, si rannicchia a terra impaurito, lasciando fare alla moglie. La situazione degenera quando una vicina, passando di fronte alla casa dei coniugi, finisce per credere che Sazae abbia la consuetudine di prendere a botte il marito con la scopa e corre, così, ad informare le donne del vicinato dello “scandalo”. 

Il fatto che Hasegawa Machiko, classe 1920, riuscisse a realizzare strisce di questo tenore, scherzando costantemente sull’intoccabile aura virile degli uomini, dimostra come il ruolo dell’uomo fosse stato socialmente ridimensionato come effetto della sconfitta militare. Sarebbe un’esagerazione ritenere femminista la striscia trentennale di Hasegawa Machiko? Eppure, per aver contribuito a generare in tempi non sospetti un’idea di famiglia non esemplare, a Sazae-san andrebbe concesso un posto nell’Olimpo delle strisce più importanti della Storia. Nel 1966, pur continuando la serializzazione quotidiana di Sazae-san, Hasegawa iniziava a lavorare su un’altra striscia particolarmente degna di analisi: Ijiwaru Baasan (traducibile letteralmente come “La nonna dispettosa”). Con il suo nuovo lavoro, Hasegawa, intrappolata fino ad allora dal buonismo di Sazae-san, era riuscita a portare la sua comicità su un altro livello. Fulcro di questi yonkoma sono le cattiverie di questa vecchina impertinente e vendicativa, irritante e maliziosa, che sembra trarre linfa vitale dai fastidi che provoca a chiunque la circondi. Nessuno si salva, né vecchi coetanei né bambini. Vedova annoiata – e, forse per questo, sempre in cerca di stratagemmi assurdi per tendere una trappola a conoscenti e sconosciuti e farsi, così, due risate alle loro spalle – viene scaricata, di volta in volta, da figli e parenti. Impossibile trovare qualcuno tanto paziente da tenersi in casa una simile approfittatrice indemoniata. Non a caso, in una striscia viene rispedita sulla Terra dal demonio in persona, dopo aver provato sulla sua pelle, nel regno dei morti, cosa significhi avere a che fare con una donna persino più perfida di lui. La vecchina della Hasegawa è forse uno dei personaggi più odiosi del mondo del fumetto. Non ha limiti e non ha una buona parola per nessuno. Nemmeno per i maestri più illustri come Ichikawa Kon, il regista di Tokyo Olympics (1965), anche lui bersaglio della sua meschinità. È finita l’era in cui le donne giapponesi si lasciavano sottomettere – sembra essere, tra le righe, il messaggio di Hasegawa Machiko. La famiglia e la società sono ormai cambiate e così le donne: anche le più anziane.

In un suo saggio sul fumetto giapponese, la prof.ssa Maria Teresa Orsi1 spiega che a delineare la struttura di un gag-manga è l’esilità dell’elemento drammatico, la predominanza della battuta nonché l’assurdità di situazioni e personaggi. Ad aver seguito punto per punto questi indici, guadagnandosi l’appellativo di “re dei gag manga”, è stato Akatsuka Fujio, uno dei membri del gruppo Tokiwa-so, nonché compagno di stanza di Ishinomori Shotaro negli anni Cinquanta. Se si esclude la sua iniziale incursione nel filone dello Shojo manga, il fumetto per ragazze, con tutta la sua restante produzione di stampo comico, Akatsuka Fujio è riuscito a essere talmente incisivo nel panorama al punto che le pose dei suoi personaggi sono entrate nell’immaginario collettivo nipponico e vengono tutt’oggi replicate. Una fra tutte, la posa “Sheeh” di Iyami2, uno dei personaggi ricorrenti di Osomatsu-kun, diventata celebre già a partire dall’inizio della serializzazione nel 1962. Oltre ad aver spianato la strada a schiere di mangaka dotati di verve comica e, per questo, votati alla scrittura di gag manga, ad Akatsuka si deve soprattutto l’ideazione e la diffusione della figura dei “genitori ridicoli” come perno di un’infinità di fumetti umoristici, come Tensai Bakabon. Ideato nel 1966 e considerato dalla critica uno dei titoli più rappresentativi dell’era Showa, “Il genio Bakabon” è stato senza dubbio il manga episodico più rilevante per quel che concerne il filone comico e nonsense. Gran parte della sua comicità scaturiva giocando sulla contrapposizione tra la stupidità degli adulti e l’ingegno dei figli. Bakabon papa, ritenuto non a caso l’uomo più stupido al mondo, nella sua bizzarra quotidianità finisce sempre per chiedere aiuto al figlio minore Hajime, un bambino straordinario. A suo modo, come indica il titolo “Tensai” (genio) ognuno dei protagonisti è un genio a suo modo: mentre il piccolo della famiglia, Hajime, è un vero e proprio pozzo di scienza, da sembrare quasi un alieno, il padre è un genio della stupidità. Resta solo Bakabon, vera e propria spalla comica del genitore che, in mezzo un padre tanto idiota, una madre, invece, più che ragionevole e un fratellino geniale, finisce per sembrare un genio.

Al di là delle situazioni narrate dei singoli episodi, è interessante esaminare il personaggio di Bakabon papa nell’ottica del discorso in premessa, circa il mutamento della figura maschile all’interno della famiglia giapponese, nella narrativa del dopoguerra. Un uomo tanto credulone, così poco raccomandabile, dedito esclusivamente al gioco e alla burla, senza un mestiere, senza arte né parte né classe né educazione da trasmettere ai figli, che finisce sui giornali non per aver compiuto qualche impresa ma perché la sua ignoranza abissale desta stupore e diventa notizia, può essere considerato un uomo rispettabile? Piuttosto, è un padre di cui vergognarsi. Ed è anche in buona compagnia perché, nell’universo di Akatsuka Fujio, praticamente ogni altro uomo adulto appare ugualmente inaffidabile e privo di spina dorsale. Restano, dunque, i bambini e le donne, in particolare Bakabon mama, un faro nel buio in un mondo in cui gli uomini sembrano aver perso il lume della ragione. D’altronde, dalla guerra sono gli uomini ad aver subito l’onta maggiore e aver fatto ritorno sconfitti, non le donne. Si potrebbe dire, come si coglie tra le righe, che non è soltanto un gag manga fine a sé stesso ma il manifesto di una nuova epoca in cui parodia e dissacrazione sono sempre più comuni e accettabili, l’alternativa alla disfatta è la pazzia. O, almeno, fingersi matti per riuscire a sopravvivere. Come ha più volte sostenuto Frederik L. Schodt3, il genio di Akatsuka si ravvede nel suo essere riuscito a eliminare, attraverso i suoi manga comici, le barriere sociali e anagrafiche. Tutti, in Giappone, per un motivo o per un altro, leggevano e apprezzavano, in quegli anni, i suoi fumetti: chi per la spiccata satira sociale; chi per le battute divertenti e gli acuti giochi di parole senza escludere, infine, i bambini, attirati dai disegni stilizzati, freschi, accattivanti e diretti. Il testimone di Akatsuka è stato raccolto da innumerevoli mangaka che hanno esordito nel settore con alcune delle commedie a fumetti più venduti della Storia editoriale nipponica. Impossibile, ad esempio, non respirare l’influenza diretta di Akatsuka nei personaggi e nelle situazioni alla base di Dr Slump e Arale di Toriyama Akira, ambientato in un villaggio dove gli adulti sono tutti immaturi e dove ogni figlio non fa che provare imbarazzo per la condotta dei propri genitori. E che dire dell’eterna rivalità tra genitori e figli in tutte le opere di Takahashi Rumiko? È lei stessa ad ammetterlo nelle sue interviste4, non mancando mai di menzionare quanto sia stata profonda l’influenza delle opere di Akatsuka Fujio nell’ideazione dei suoi personaggi e delle loro relazioni familiari, nonché nella scrittura delle sue storie e delle sue gag. La maggior parte degli appassionati ignora che, nei momenti più assurdi, i personaggi della Takahashi si ritrovano a rompere la tensione emulando la celebre posa comica “Sheeh” inventata proprio dall’autore di Bakabon.

Un altro personaggio che rientra alla perfezione nell’insieme di uomini “non rispettabili” è il padre della protagonista di Jarinko Chie, serie iniziata nel 1978 da Etsumi Haruki. Arrogante e strafottente, burbero, rissoso e orgoglioso, eppure incapace di mantenere la sua stessa famiglia, tanto che la figlia, pur essendo soltanto una bambina, si ritrova costretta dalle circostanze a portare avanti da sola il locale di frattaglie ereditato dai nonni, considerando la negligenza e l’incapacità del padre a trattare coi clienti. Ogni episodio di questo lungo gag-manga, ambientato ad Osaka, ruota proprio attorno ai continui attriti tra il padre inaffidabile e la disgraziata protagonista spinta a ragionare da adulta per non ritrovarsi a fare la fame. Ancora una volta, ecco l’ennesimo soggetto comico in cui un figlio deve farsi carico dell’immaturità dei suoi genitori, finendo per vergognarsi costantemente di un padre del genere, tanto da pensare ossessivamente alla sfortuna che le è capitata per aver ereditato i geni di un uomo simile. La famiglia di Chie, “spezzata” da questo padre così inadeguato al ruolo, è controbilanciata, tuttavia, dal calore della comunità del suo quartiere. Jariko Chie ricalca, in un certo senso, gli stilemi di un’altra serie di successo di quegli anni. Non una serie a fumetti ma cinematografica: Otoko wa tsurai yo (Quanto è difficile essere un uomo) di Yamada Yoji, la serie di film più lunga della Storia del cinema giapponese5.

Protagonista dell’opera è Tora-san, un uomo profondamente buono ma ritenuto del tutto irresponsabile da parenti e conoscenti, in quanto, nonostante l’età, continua a restare celibe e a rifiutarsi di trovarsi un lavoro dignitoso. Deriso per il fatto di essere un vagabondo e di preferire una vita come venditore ambulante a una vita stabile, in verità, Torajiro, attraverso questo stile di vita, trasmette tutto il suo rigetto per la vita del lavoratore-tipo giapponese. Un’esistenza che giudica inutilmente limitante a causa della dedizione per il lavoro, che non fa che generare insoddisfazione e non consente di godersi le piccole gioie della vita. Pur non avendo figli che possano vergognarsi di lui, Tora-san è la pecora nera della sua famiglia d’origine, da cui fa ritorno a Shibamata appena ha qualche problema serio, sono gli zii, nati e cresciuti durante la guerra, a trovare infattibile questa parentela. Eppure, malgrado l’imbarazzo a suo modo comico nelle interazioni tra i personaggi, il messaggio finale sembra proprio virare verso l’accettazione della diversità e l’importanza di essere sé stessi in quanto “il mondo è bello perché vario”. E così, nei 48 film che compongono la serie, iniziata nel 1969 e proseguita fino al 1995, con un ritmo di 2 film all’anno, interrotta soltanto a causa della morte dell’attore principale, è possibile osservare in qualche modo l’evoluzione graduale della società e della famiglia giapponese a cavallo tra l’era Showa, finita nel 1989, e l’era Heisei (conclusasi nel 2019), iniziata proprio quell’anno. In particolare, negli ultimi 8 film della serie che seguono le vicende del nipote di Tora-san, invaghitosi di una ragazza figlia di genitori divorziati, che incarna la nuova generazione di giapponesi meno coraggiosi dei loro avi, che rientrano nella definizione di soshokukei-danshi, i cosiddetti “uomini erbivori”.

Si potrebbero citare ancora una lunga lista di esempi di commedie giapponesi d’annata che hanno suggellato questa scia di sbeffeggiamento e svirilizzazione dell’uomo tipico giapponese, prendendosi gioco dei loro talloni d’Achille, in seguito all’onta della sconfitta subita in guerra. Eppure, sebbene di tanto in tanto siano continuate ad apparire sporadicamente opere con protagonisti adulti egoisti e svogliati o bizzarri sognatori che antepongono i loro interessi a quelli delle proprie famiglie, come nel caso di Hanaotoko (1991) di Matsumoto Taiyo, dopo la fine dell’era Showa, la tendenza a focalizzarsi su figure genitoriali tutt’altro che esemplari è andata via via dissolvendosi. Il ritorno all’esaltazione dell’uomo forte e virile, da prendere a modello, è una prassi sempre più evidente anche nelle commedie familiari e nei rari gag-manga contemporanei, in una regressione legata, probabilmente, al nazionalismo e al post-fascismo che si stanno facendo strada in tutti i settori e i Paesi.

BIBLIOGRAFIA:
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Amitrano G. (1999). Il mondo di Banana Yoshimoto, Feltrinelli.
Amitrano G. (2018). Iro Iro, De Agostini.
Akatsuka F. (2001). The Genius Bakabon, Kodansha International.
Brolli D. (2002). Postfazione a Enomoto, Magic Press.
Eguchi H. (2019). Stop!! Hibari-kun, Coconino Press.
Fukutani T. (2009). Le vagabond de Tokyo, Résidence Dokudami, Lezard noir
Igort. (2007). Mistero Giappone, Limes.
Haruki Etsumi. (2023). La monella Chie, Toshokan.
Hasegawa M. (1997). The world of Sazae-san, Kodansha International.
Hasegawa M. (2001). Granny Mischief, Kodansha International.
Leblanc C. (2021), Le japon vu par Yamada Yôji, Ilyfunet.
Orsi M. (1998). Storia del Fumetto Giapponese – l’evoluzione dall’era Meiji agli anni
Settanta
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Schodt F. (1983). The World of Japanese Comics, Kodansha International.
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Takahashi R. (1997). Lamù, Star comics.
Takahashi R. (1998). Maison Ikkoku, Star comics.
Takahashi R. (1998). Rumic Theater, Star comics.
Takahashi R. (2001). Rumic Short, Star comics.
Takahashi R. (2006). Il bouquet rosso, Star comics.
Takahashi R. (2011). Rinne, Star comics.
Toriyama A. (1995). Dr. Slump e Arale, Star comics.


  1. Orsi M. (1998). Storia del Fumetto Giapponese – L’evoluzione dall’era Meiji agli anni
    Settanta, Musa Edizioni 

  2. La posa nota come Sheeh (シェー) è stata creata da Akatsuka Fujio nel 1962 all’interno del manga Osomatsu-kun (おそ松くん) e consiste nell’alzare le braccia e le gambe contemporaneamente verso l’alto, in direzione opposta, in modo da mostrare lo shock del personaggio. Sebbene inizialmente fosse una posa assunta esclusivamente dal personaggio di Iyami, si è poi allargata al resto dello star system dell’universo narrativo di Akatsuka Fujio, venendo assunta nelle scene più disparate da ogni altro suo personaggio, diventando così una tendenza nazionale in Giappone a partire dalla prima metà degli anni ’60, apparendo costantemente nella cultura popolare, nei manga e negli anime nei decenni successivi. La posa Sheeh è stata replicata e omaggiata non soltanto dagli autori di gag manga ma anche da innumerevoli personaggi dello spettacolo come gli Yellow Magic Orchestra. 

  3. Schodt F. (1983). The World of Japanese Comics, Kodansha International. 

  4. Intervista a Rumiko Takahashi”, Kappa Magazine n. 5, Star Comics, 01/11/1992; je vis et je respire manga, Rumiko Takahashi”, le Figaro, 28/01/2020. 

  5. Otoko Wa Tsurai Yo (È dura essere un uomo), commedia cinematografica composta da 50 lungometraggi diretti da Yamada Yoji e prodotti da Shochiku, tra il 1969 e il 2019; è entrata nel Guinness World Record per essere la serie cinematografica giapponese più longeva della storia del cinema ad aver vantato lo stesso attore protagonista, Kiyoshi Atsumi (1928-1996) per 48 film originali usciti tra il 1969 e il 1995. Dopo la scomparsa dell’attore, la casa di produzione Shochiku decise di proporre al cinema nel 1997 un riadattamento speciale del 25° film, girato originariamente nel 1980 al quale sono state aggiunte nuove scene iniziali e finali filmate nel 1997. In occasione del 50° anniversario della serie, nel 2019 è stato realizzato il capitolo finale con gli unici 11 attori ancora in vita del cast originale, mentre il personaggio di Tora-san è riapparso nel film grazie al remaster di scene tratte dai 48 film precedenti nei flashback dei personaggi. L’ineguagliabile popolarità della serie di Otoko Wa Tsurai Yo ha permesso alla casa di produzione Shochiku (nota per aver prodotto, tra i tanti, anche i leggendari film di Ozu Yasujiro) di non finire in bancarotta nel corso di innumerevoli crisi economiche. 

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