Dragon Head è un manga di genere catastrofista ideato da Minetaro Mochizuki e serializzato a partire dal 1995 dalla Kodansha, per arrivare in Italia nel 2002 grazie alla Magic Press, che non portò a conclusione la sua pubblicazione (interrotta con il numero 6), ripresa nel 2014 dalla Panini Comics dal primo volume.
Il punto di riferimento più importante per Mochizuchi è sicuramente Il signore delle mosche di William Golding, anche se nello sviluppo dell’opera il fumettista giapponese ha introdotto anche elementi di tensione e mistero tipici dei romanzi dell’orrore.
Il tunnel
I reality alla Grande Fratello rappresentano la spettacolarizzazione dei ben più accademici esperimenti comportamentali, come per esempio quello portato avanti da Golding durante la sua carriera di insegnante alla Bishop Wordsworth di Salisbury1 che ispirò il suo romanzo: rinchiudere in una stanza una serie di soggetti e vedere quello che succede. Nel caso di Golding i soggetti in questione erano adolescenti e le conclusioni pessime: caos incontrollato, prevaricazione, violenza gratuita, creazione di feticci simil religiosi utilizzati come giustificazione per i gesti di violenza, ritenendoli quasi necessari per la sopravvivenza.

Qualcosa del genere avviene anche in Dragon Head: quando lo shinkansen, il treno più veloce del mondo, deraglia improvvisamente, gli unici sopravvissuti sono tre liceali di ritorno da una gita: Ako, Teru e Nobuo2. Circondati dai cadaveri di compagni e insegnanti, devono affrontare l’ulteriore complicazione di trovarsi bloccati in una galleria, senza alcuna informazione dall’esterno, e con pochissimi viveri.
In questa situazione estrema, la mente di Nobuo cede alla paura dell’oscurità e alla follia: prima elegge il loro “guardiano” (l’insegnante preposto alla loro sorveglianza) a oscura divinità del treno, proprio come la testa di un maiale era il feticcio religioso ne Il signore delle mosche, quindi si ricopre, col sangue di quest’ultimo, di segni dal sapore tribale, infine attacca i compagni cercando, con la morte, di farli restare con lui nella galleria, unico luogo sicuro di tutto il Giappone, tra le cui ombre risiederebbe il terribile demone che avrebbe causato il disastro.
La paura del buio e l’irrazionale idea che un disastro come quello che ha colpito lo shinkansen non può essere naturale genera la follia di Nobuo, in netto contrasto prima con i tentativi di Teru di utilizzare razionalmente le risorse a disposizione, poi con la ricerca di una via di fuga dalla galleria.
Quando Ako e Teru riescono finalmente a uscire, ciò che li attende è ancora più devastante.
Ciò che resta del mondo
Questo sottile equilibrio tra razionale e irrazionale fa da filo rosso per tutti i dieci volumi in cui si sviluppa l’opera. Quando, infatti, i due ragazzi si ritrovano all’esterno, devono affrontare da un lato un paesaggio alieno, con l’aria densa e grigia a causa della polvere che non permette ai raggi del sole di filtrare completamente, e dall’altro delle interazioni con i sopravvissuti quanto più complicate possibile.
Tutti i personaggi di contorno proposti da Mochizuki “insegnano” qualcosa ad Ako e Teru: si va dal gruppo di adolescenti che, unitisi insieme per sopravvivere, viaggiano in questa landa desolata, alla gentile signora che vive isolata da quando è iniziato il disastro e che presta loro aiuto.
I personaggi più interessanti, però, sono due militari della protezione civile: il giovane comandante Nimura e il suo elicotterista Iwada. L’incontro con i due avviene in una anonima città devastata dalla catastrofe, quasi una metafora della spersonalizzazione dell’individuo di fronte alla distruzione della società. I due militari sono prima nemici, cacciatori in un inseguimento tra le rovine, quindi alleati dalla necessità di sopravvivere.
Quelli che quindi di fatto sono coprotagonisti del manga hanno poi due caratterizzazioni differenti, che in un certo senso rappresentano due modi distinti di affrontare la catastrofe tra i quali i due liceali devono barcamenarsi. Nimura è una sorta di piccolo Kurtz, protagonista di Cuore di tenebra di Joseph Conrad: come Kurtz è infatti cinico ed egoista, pronto a sfruttare i sottoposti (o chiunque altro) per i suoi scopi, ovvero sopravvivere. Con Nimura, Mochizuchi introduce quindi una filosofia secondo cui, nei momenti di crisi, l’individuo può contare solo su se stesso, senza aspettarsi nulla dagli altri, considerati avversari nella raccolta delle risorse disponibili o, nella migliore delle ipotesi, inferiori da sfruttare.
Suo contraltare è Iwada, che nonostante la tensione della situazione riesce a non perdere il controllo delle proprie azioni. Rappresenta, quindi, quella razionalità che, a causa dell’esperienza interiore di Teru fin qui vissuta, sembrava ormai essersi perduta, ma che è invece necessaria proprio per sopravvivere alla follia che sta pervadendo il mondo dei protagonisti di Dragon Head.
La religione come giustificazione per l’autodistruzione
Così, stabiliti i personaggi principali, la vicenda si sviluppa come un viaggio disperato per raggiungere Tokyo. Durante il percorso i quattro protagonisti si confrontano con personaggi inquietanti e pericolosi, per lo più pervasi da una sorta di misticismo senza fede che per alcuni si declina nel suicidio, possibilmente di massa, per altri in una serie di automutilazioni sull’altare della nuova divinità di questo mondo nuovo: la paura.
In funzione della paura si possono quindi confrontare i tre gruppi principali incontrati da Teru nel corso dei dieci volumi, tutti più o meno una variazione collettiva sulla matrice originale di Nobuo. Di questi tre gruppi il primo è costituito da alcuni adolescenti che vagano per le lande desolate, ben equipaggiati per affrontare ciascun imprevisto; il secondo è un’intera cittadina impazzita in un parossismo suicida; il terzo è un gruppo di apatici, alcuni dei quali erano già stati incontrati durante il viaggio prima di arrivare a Tokyo.
Quest’ultimo gruppo si distingue rispetto agli altri per la presenza di un leader ben definito, per quanto ciò abbia senso in un gruppo di apatici spersonalizzati. Egli sfrutta un bunker sotterraneo ricco di derrate alimentari avvelenate con il doppio scopo di controllare i rifugiati e sviluppare la religione della paura e del suo controllo: è la distorsione ultima dei privilegi politici rappresentati dal bunker segreto, in un certo senso ultimo baluardo del vecchio mondo.
In ultima analisi Dragon Head è soprattutto un viaggio nella paura: degli ultimi volumetti è proprio la discesa dell’elicottero all’interno dell’immenso vulcano emerso che ha devastato il Giappone a costituire la chiave di lettura più esplicita. Le chine estremamente forti, anche più del resto dell’opera, il paesaggio lunare e le proporzioni enormi generano un profondo senso di solitudine, acuito dai ragionamenti intimisti di Teru. Senza questa discesa il finale, pur devastante nell’assenza di un evidente riscatto, sarebbe assolutamente insopportabile. Per ogni scena, poi, Mochizuchi utilizza il ritmo necessario per svilupparla: ora calma per trasmettere l’idea della razionalità, ora concentrata per aumentare claustrofobia e terrore, ora serrata durante le azioni violente.
Il tutto viene reso con uno stile pulito e preciso e con un tratto realistico, ben lontano sia dalla caricatura sia dal tratto muscolare. Le persone e i luoghi sono plausibili nelle varie situazioni proposte e massima è la cura per la rappresentazione degli esterni, con l’idea di rappresentare lo spettacolo della natura che si riprende il Giappone a scapito degli esseri umani.
Abbiamo parlato di:
Dragon Head
Minetaro Mochizuki
Planet Manga/Panini Comics, 10 volumi
224 pagine, brossurato, b/n – € 6.50
Sebbene Golding non scrisse alcun articolo scientifico a riguardo, sembra che lo descrisse nel suo diario. Vedi per esempio questa biografia di Golding o un articolo di Martin Wainwright sul Guardian. Una evoluzione di questo approccio è sicuramente l’esperimento carcerario di Stanford realizzato da Philip Zimbardo nel 1971 ↩
Nonostante nell’edizione Planet Manga i nomi sono stati modificati, per questo articolo ho deciso di mantenere la traduzione dei nomi proposta dalla Magic Press ↩
mei
23 Ottobre 2015 a 13:11
peccato per il finale veramente ridicolo, fino all’ultimo volume (non compreso) è stato un grandissimo manga
Gianluigi Filippelli
23 Ottobre 2015 a 14:18
In effetti anche io mi aspettavo un finale diverso, magari ambientato più avanti nel tempo che mostra anche solo con un paio di immagini come i sopravvissuti si sono adattati alla difficile situazione, ma evidentemente l’idea di Mochizuchi era ben diversa dal finale consolatorio.
mei
23 Ottobre 2015 a 14:58
il problema è che il manga dà l’impressione di un’opera monca (non mi ricordo la storia editoriale) finendo proprio nel momento in cui i “dragonhead” facevano la loro comparsa. Da ricordare inoltre quelle 2-3 pagine di solo testo, soluzione mai usata all’interno di quel manga e che risultano davvero indigeste avendo proprio il sapore del ripiego.