Finalmente, dopo oltre quattro anni, giunge al suo scioglimento la saga de “La Mandiguerre” firmata da Jean David Morvan e Stefano Tamiazzo. Questo quarto volume riparte esattamente dalla scena che concludeva il terzo episodio: avevamo lasciato Tillois di pattuglia sotto attacco durante una missione e qui lo ritroviamo faccia a faccia con un gruppo di ribelli, che scopriremo formato da umani e mandis, la specie contro cui gli umani stanno combattendo una interminabile guerra. Questa è infatti il punto di svolta della vicenda: la comparsa di Dosnon e Cousance (diventati stelle della propaganda governativa) e di Baffo (che fece fruttare l’imprevista fama di Dosnon) riunisce i protagonisti, ma il cuore della storia si sposta dal piano privato/sentimentale a quello politico. é la guerra, con le sue ragioni, il suo impatto sulle vite delle persone, che occupa lo spazio scenico e narrativo: se in precedenza avevamo visto la sua capacità di degradare l’umanità degli individui, grazie al costante stimolo alla paura ed all’odio, ora ne constatiamo il potente ruolo di instrumentum regni. Nel corso del conflitto, alcuni fra gli uomini ed i mandis inviati al fronte per uccidersi, nel nome della reciproca incompatibilità ed alienità, hanno scoperto di essere simili, di condividere sentimenti ed ideali: questo distrugge quell’assioma su cui il conflitto si fonda e del quale si alimenta. Per questo motivo, quei disperati, reietti, disertori diventano obiettivi prioritari dei governi e degli stati maggiori, che sulla guerra fondano il proprio potere. Scopriamo poi che un ruolo importante nel gruppo di combattenti pentiti (o rinsaviti) ha il padre di Tillois, che la propaganda ufficiale dichiarava caduto ed eroe. Il mondo dei tre ragazzi è sconvolto da queste scoperte, sebbene, in effetti, il nuovo scenario riduca le dissonanze che minavano i loro equilibri individuali e che avevano logorato le loro relazioni. I ragazzi si uniscono ai disertori ed insieme a loro sfuggono all’ennesimo attacco, rifugiandosi nello spazio [1].
Come si nota, questo quarto episodio è ben denso di eventi, disvelamenti, colpi di scena; gli autori dipanano la trama con abilità, ma non riescono ad evitare una sorta di squilibrio narrativo.

Uno squilibrio narrativo
Utilizziamo una metafora: pensiamo alla narrazione come ad un ponte costruito fra lo scenario iniziale e quello finale ed immaginiamo un ponte a più campate. Il disegno delle campate, oltre che ad un’estetica, risponde a criteri di stabilità: si cerca la distribuzione delle forze ottimale in funzione delle sollecitazioni previste. Se il ponte è la storia, possiamo immaginare le campate come i suoi episodi (le sue scene), le sollecitazioni come i vari elementi narrativi (eventi, colpi di scena, personaggi, eccetera). Un’architettura non ottimale comporta rischi di stabilità e spreco di materiale: una distribuzione non ottimale degli elementi narrativi all’interno di una storia può rivelarsi o in uno svolgimento forzato, innaturale o nella mancata valorizzazione di quegli elementi, quali personaggi o snodi drammatici non approfonditi.
A nostro parere, La Mandiguerre soffre di un simile squilibrio: troppo peso, troppe sollecitazioni sovraccaricano questo ultimo episodio: l’incontro fra Tillois ed il padre e la storia (epica nell’epica) della fraternizzazione fra umani e mandis avrebbero da soli meritati un intero volume [2]. Così, un più ampio spazio avrebbe certo valorizzato il percorso di Cousance e Dosnon, che riescono ad evadere dalla macchina propagandistica di cui erano parte: la loro storia è ricca di suggestioni e di spunti di riflessione, un groviglio esemplare d i ambizione, talento, casualità ed ideali in uno scenario estremo come quello di una guerra, che poteva essere utilizzato per mettere in scena il problema delle scelte individuali, delle costruzioni mentali che le supportano e delle responsabilità percepite dai vari attori.
Morvan e Tamiazzo, costretti nell’arco del singolo albo, riescono certo a dare organicità e ritmo alla vicenda (la sensibilità diacronica di Tamiazzo è fondamentale a questo risultato), ed evitano lo scivolamento in una frenetica successione di colpi di scena, ma a noi lettori resta l’amaro in bocca per i tanti spunti sacrificati alla ragione editoriale. Da questo rammarico è esente il finale, comunque aperto, che è a nostro parere frutto di una scelta meditata degli autori: premiare la speranza, se non l’utopia, rispetto alla verosimiglianza.

Una speranza necessaria
Il confronto con l’utopia, che nell’ambito della filosofia politica indebolisce il ruolo orientativo e di riconciliazione del pensiero e rischia di innescarne il distacco dalla realtà, è invece fertile momento di riflessione nell’opera artistica in generale e narrativa in particolare. L’utopia è la via di uscita da uno scenario bloccato: l’autore forza le regole ed i vincoli della disciplina ed addirittura viola lo stesso patto implicito sottoscritto con il lettore, che definisce il verosimile ed il possibile all’interno dell’opera. Declinazione ed evoluzione delle psicologie dei personaggi e delle loro relazioni e gli stessi tempi narrativi costituiscono una lingua specifica, che aiuta autore e lettore a comprendersi e che costituisce la fondazione per il gioco di aspettative/risoluzioni che guida scrittura e lettura. Questa rottura è una scelta forte e può scaturire da una necessità comunicativa (motivazione intrinseca all’opera) o editoriale (quindi estrinseca).

Nel caso de La Mandiguerre, lo scioglimento della vicenda, pur scontando l’oggettiva compressione, discende a nostro parere dal desiderio degli autori di concedere spazio alla speranza. Se resta vero che l’esplorazione dei numerosi spunti avrebbe meritato almeno un altro albo, il finale non sarebbe comunque cambiato: i ribelli, reietti delle due specie, riescono a fuggire e decidono di proseguire la loro lotta contro la follia dei padroni della guerra, e tentare di “Distruggere il mito della guerra gloriosa” e “Preparare il dopo Mandiguerre”. Riflettiamo: quale alternativa offriva il racconto? Un finale all’insegna della realpolitik, con gli oppositori alla guerra schiacciati, azzerati, spazzati via dalla violenza coordinata di umani e mandis? Ma questo è il finale che ci offrono storia ed informazione quotidiana, dalla guerra nella ex-Jugoslavia, alla metastasi mediorientale: che cosa, quindi, la narrazione (che è elaborazione del reale) avrebbe offerto di più, rispetto alla cronaca o all’analisi politica?

Della realtà empirica si nutre invece lo scenario della saga: ad esempio, il cuore de La Mandiguerre è nell’ipotesi che esista un’eterogenesi dei fini fra chi si combatte. L’odio è un così efficiente collante sociale che, opportunamente alimentato grazie al controllo o direzione professionale dei mezzi di comunicazione e dell’istruzione, può essere un valido supporto nella gestione delle masse. Se l’obiettivo è il mantenimento/rafforzamento del potere, classi dirigenti di forze nemiche in guerra possono trovare un comune interesse nel rendere cronico quello stato di guerra, che costituisce parte integrante della propria legittimazione. Lo stesso può valere nei vari livelli della società, nella misura in cui si creano rendite di posizione o nicchie speculative favorite dallo stato di guerra (dal contrabbando di generi alimentari alla fornitura di materiali e servizi allo Stato). Cousance e Dosnon vivono esattamente questa esperienza: la tragedia della guerra è la loro occasione di fuggire dal ristretto mondo provinciale della loro infanzia, sofferto come pietra tombale delle loro ambizioni.

In generale, lo stato di guerra è una particolare modalità di esistenza, che può diventare l’unica concepibile, se non ne abbiamo conosciute alternative. Come rompere il circolo vizioso di odio-propaganda-violenza-vendetta-guerra? è certo che la costruzione della via d’uscita passa per l’azione politica (governi, ambasciatori, organizzazioni internazionali), ma all’artista che creda che esista una qualche via d’uscita, o che semplicemente trova troppo assurdo il macello a cui assiste quotidianamente, resta la sfida di ricordare che odio e violenza non sono una condizione necessaria. Esistono sempre una scelta ed una responsabilità e, poiché quelle sono banalmente umane, è potere degli uomini cambiare lo scenario. Il padre di Tillois ed i suoi compagni scelgono di essere fedeli ai loro ideali di fraternità, piuttosto che ai loro governi. è una scelta forse disperata, di cui conoscono ed accettano le conseguenze: questa assunzione di responsabilità è speculare rispetto agli alibi degli “ordini superiori” (il famigerato F

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