Quest’intervista a Claudio Chiaverotti (e una di prossima pubblicazione a Lola Airaghi) non è proprio recente e ha avuto una gestazione piuttosto lunga. A causa di un problema all’hard disk, c’é stato il serio rischio di non riuscire più a proporvele. Ma ecco, inaspettatamente, il miracolo celato sotto le sembianze di un amico esperto in informatica (al quale va tutta la mia stima e gratitudine), che ha fatto sì che recuperassi tutti i dati contenuti in questa scatoletta di metallo e silicio, e potessi finalmente mettere on line questa conversazione.
Raccontaci un po’ di te, sia per quanto riguarda gli studi che il tuo esordio da fumettista.
Come dice Gigi Proietti “sono un autodidattico” nel senso che non ho fatto scuole specifiche sul fumetto. Diciamo che ho imparato il mestiere leggendo.
Per quanto riguarda i miei studi, ho un diploma di odontotecnico, sono poi passato a giurisprudenza, facoltà che non ho terminato. Non avevo di certo le idee chiare, o meglio l’unica cosa che mi era chiara è che non avrei mai fatto né il dentista né l’avvocato. Desideravo fare un lavoro creativo, ma non sapendo bene cosa fare mi sono detto “andiamo avanti con gli studi e poi vediamo”. In realtà volevo iscrivermi a lettere, o psicologia, che a Torino non c’era.
Nei tuoi racconti ci sono in effetti un po’ di elementi di psicologia, o meglio di parapsicologia. C’é un’attinenza col soprannaturale che descrivi nei tuoi lavori?
Certo, anche se in realtà non credo moltissimo a queste cose. Cioé, non credo che la psicologia possa risolvere i problemi interiori, ma possa perlomeno intervenire sulle cause patologiche. Scrivo di soprannaturale, ma in fondo non ci credo. Diciamo pure che sono uno scettico convinto, che ha un grossissimo fascino per il soprannaturale perché ti porta lontano dai problemi di tutti i giorni.
Il mio lavoro consiste proprio in questo: essere lontano dalla realtà per far evadere i lettori dalla quotidianità. Per far questo pero’ prima di tutto devo divertirmi. Il mio compito è quello di pensare a ciò che per i lettori sarà poi un memento di svago. Quindi può essere complicato che nello tempo possa esserlo per me, anche se faccio di tutto perché lo sia.
Quindi tendi nella tua vita, differentemente dalla finzione, a razionalizzare gli elementi soprannaturali?
Posso dire che per me raccontare del soprannaturale è stato terapeutico. Puo’ sembrare banale, ma per esempio avevo una certa paura del buio e dopo aver scritto una storia di Dylan Dog intitolata “Il buio”, appunto, ho capito che queste paure sono inventate, e se si possono inventare per una storia, in fondo capisco che non sono reali e che le posso superare. Diciamo che i miei fumetti per me hanno assunto una valenza taumaturgica.
Dicevi che nel frattempo portavi avanti gli studi; in che modo quindi sei arrivato a fare fumetti?
Avevo, come è ovvio pensare, una grande passione per i fumetti. Un giorno ho spedito delle sceneggiature per le Sturmtruppen, che mi piacevano tantissimo, alla redazione di Eureka della mitica editoriale Corno, nell’ultimo periodo della sua vita, quando era diretta da Castelli e Silver. Nel primo numero di questa bellissima gestione avevano allegato alla rivista un piccolo manuale “Come si diventa autori di fumetti”. L’ho letto e così ho provato a scrivere qualcosa per questa serie. Per me Castelli è stato un po’ l’uomo del destino. Infatti gli telefonai e lui mi disse che Bonvi aveva visto le mie sceneggiature ed alcune gli erano piaciute, anche se ancora non funzionavano bene, insomma dovevo lavorarci sopra ancora. Fatto sta che mi mise in contatto con Bonvi, un grandissimo personaggio. Così incominciai a fare qualche lavoro per le Sturmtruppen, ovviamente pubblicate non a nome mio, in quanto non era uso allora firmarle.
Dopo un po’ di tempo provai a fare dei soggetti per Martyn Mystere, e mi misi a tampinare Castelli per un anno e mezzo telefonandogli, credo,una volta la settimana. La prima storia che feci, dopo varie prove, fu “Il cuore di Christopher” (n. 90 del settembre 1989, ndr.). E così entrai alla Bonelli. Anche se la mia prima storia che uscì in edicola fu appunto “Il buio” (n. 34 del luglio 1989, ndr.) su Dylan Dog.
Tu sei passato quindi da un mondo “normale” e po’ grigio come quello degli studi universitari, ad un mondo più colorato e creativo come quello dei fumetti. Questo passaggio è stato determinante per poi capire che poteva essere la tua professione ?
In realtà ciò che mi ha fatto capire che dovevo continuare a scrivere fumetti è stato il fatto che non riuscivo a non farlo, cioé mi piaceva così tanto raccontare che se non l’avessi fatto di professione oggi probabilmente starei riempiendo ancora quaderni di storie solo per me stesso.
Questo desiderio di raccontare l’avevi anche prima di fare fumetti.
L’ho sempre avuto.
Eri un po’ un racconta frottole da ragazzo?
Sì, nel senso che mi piaceva ingigantire i fatti, per divertire me e i miei amici. Di contro non mi sono mai piaciute le bugie, le menzogne quelle cattive, quelle fatte per fare male. Tutt’oggi non mi piace mentire, anche perché è molto faticoso poi sostenere nel tempo le bugie; bisogna avere buona memoria, e io la utilizzo tutta per i fumetti che ho in mente di scrivere. Che tra l’altro, se vuoi, sono pieni di frottole…
Parliamo del tuo arrivo a Dylan Dog; è stato duro affiancarsi a Sclavi nel momento in cui era all’apice della popolarità e della creatività e nel periodo di suo maggiore successo?
Devo dire che quando ho cominciato a collaborare a Dylan Dog i dati di vendita erano molto alti e hanno continuato a salire anche dopo il mio arrivo. La cosa che più mi preoccupava era la consapevolezza di sapere che Dylan Dog era Slavi (come Martin Mystere è Castelli, simpatico, ironico e coltissimo), e che quindi avrei potuto avere delle difficoltà nell’immedesimarmi nel personaggio. Sclavi ha dovuto inevitabilmente mettere se stesso, il suo carattere, le sue nevrosi, i suoi amori nella sua creatura per renderla il più possibile credibile e coerente per il discorso narrativo che voleva intraprendere. Quindi è facile pensare che chiunque possa non avere la stessa sensibilità nel rapportarsi a questo character. Pero’ per puro caso mi sono ritrovato, senza conoscere personalmente Sclavi, ad essere in sintonia e d’accordo con lui su tantissime cose.
Cosa ti piaceva e cosa ti piace di più di Sclavi?
Soprattutto il suo modo di raccontare le storie che avuto il merito di svecchiare i moduli narrativi allora correnti. Tenendo conto, tra l’altro, dell’imponente mole di episodi che ha prodotto nei primi 5 o 6 anni di vita di Dylan Dog, riuscendo, nel contempo, a mantenere un livello qualitativo stratosferico.
Quindi, se Sclavi è Dylan Dog, Castelli è Martin Mystere, allora Chiaverotti è Brendon?
Direi di sì, anche se io non sono un cavaliere di ventura!
La gestazione di questo personaggio è stata lunga?
Visto che nel frattempo mi occupavo ancora di Dylan Dog posso dire che è stata lunghissima. Il problema più grosso è stato quello dell’ambientazione e della sua resa grafica, in quanto doveva essere una novità per la tradizione di casa Bonelli. Quello che avevo in mente era una sorte di medio-evo prossimo venturo (definizione usurpata da un libro di Roberto Vacca); un fantasy realistico, cioé dove non troviamo maghi e dove non ci sono le case a cono di gelato, come, tra l’altro, ricordo sempre ai disegnatori.
Un’ambientazione figlia di un evento scatenante, la grande nebbia, che per forza di cose, essendo totalmente immaginata, non aveva niente a cui rapportarsi. Del resto volevo che il personaggio principale non somigliasse a nessun attore, anche se ciò, bisogna ammetterlo, risulta molto comodo in fase di realizzazione e quando, poi, lo devi fare disegnare ad artisti differenti, che lo devono avere bene in testa e inquadrarlo al meglio.
Volevo creare un eroe maledetto e tormentato, che avesse in sé rabbia, solitudine, tristezza. Mi ha fatto enorme piacere sapere in seguito che questa caratterizzazione è piaciuta a molti lettori.
Sei molto metodico nel tuo lavoro?
Diciamo che la fantasia è come un rubinetto che non riesci ad aprire e chiudere quando vuoi. Del resto il mio non è un lavoro impiegatizio. Non riesco nemmeno a tenere una tabella di marcia precisa, anche perché voglio avere il tempo di scrivere storie di cui sia convinto, che mi soddisfino in pieno.
Per scrivere 94 pagine magari ne sforno 150; poi taglio, butto se mi accorgo che una cosa l’ho già fatta o se sa di già visto. Cerco prima di tutto di essere molto critico ed esigente verso me stesso.
Detto ciò, lavoro tutti i giorni senza l’assillo di seguire una scaletta, altrimenti mi sembrerebbe di lavorare in un ufficio. Invece credo che sia molto importante divertirsi; anzi qualche volta si ha l’alibi che per pensare meglio ad una storia è meglio uscire a fare una passeggiata.
In termini più pratici, per prima cosa scrivo tutto a mano su dei semplici quaderni, di seguito a computer solo i dialoghi e poi le indicazioni tecniche e quindi stampo tutto in brutta. A questo punto tendo a rileggere il tutto molte volte, anche per cercare la sintesi giusta nei dialoghi, cosa che reputo molto importante per riuscire a renderli nel miglior modo naturali.
A chi volesse cimentarsi in questa professione, hai da dare qualche consiglio su come cominciare?
Esistono le scuole dove insegnano le basi rudimentali di questa professione, anche se devo dire che io stesso non le ho frequentate. In effetti quando vengo chiamato in questi istituti per fare delle lezioni, in realtà cerco di raccontare quello che faccio e la passione che mi anima a farlo, più che spiegare come lavoro.
Oppure si può partire dai testi che spiegano come scrivere sceneggiature. Credo pero’ che la cosa più importante, in principio, sia capire se si ha dentro la passione e la determinazione giusta per intraprendere una professione non certo comune.
Tendi a dare indicazioni precise ai disegnatori oppure lasci margini d’interpretazione?
Di solito do indicazioni di massima in quanto i vari disegnatori di Brendon sanno di cosa stiamo parlando; conoscono i personaggi e le ambientazioni. Pero’ cerco di trasmettere loro delle suggestioni che devono poi cercare di fare trasparire dalla pagina.
Leggi molti fumetti?
Principalmente Dylan Dog, Martyn Mystere e un po’ di americani. Devo dire che in realtà più che leggere vedo molti film, uno al giorno, almeno. I registi che preferisco sono Carpenter, Bigelow, Lynch, Burton. Amo il cinema americano in generale, ma anche autori europei come Rohmer. Non mi piacciono i film troppo lenti, ma devono avere un buon ritmo narrativo.
Insomma, mi piace sedermi e vedermi raccontata una storia.
Essendo la nostra una rivista on line la domanda d’obbligo è: che rapporto hai con internet e credi che possa essere utile a sostegno dell’editoria di carta?
Non sono un grande appassionato di internet anche se ne sono un utilizzatore. Diciamo che gironzolo senza esagerare e credo che sia molto importante come mezzo di diffusione del fumetto.
Hai progetti nel cassetto oltre Brendon?
Mi sono divertito molto a realizzarne un cortometraggio e vorrei avere più tempo per farne degli altri.
Ma nel campo fumettistico, oltre a Brendon non ho in mente nient’altro, perché in definitiva a me piace raccontare le storie di questo personaggio.
È un compagno di vita discreto, non invadente, ma presente per tutta la giornata.