Non capita tutti i giorni di salvare il mondo.
Con questa frase (ad esser sinceri piuttosto inflazionata visto che non si contano più i film, i libri e i fumetti nei quali salvare il mondo è una simpatica routine), si conclude la prima stagione di Ultimates, una delle collane più amate della linea Ultimate e della Marvel in generale.
Quella che non riesce ancora a scrollarsi di dosso l’etichetta di “risposta Marvel ad Authority”, è una serie piuttosto atipica e comunque originale. Innanzitutto, perché affidata ad una coppia stabile e indiscutibile di autori “cult” come Mark Millar e Brian Hitch, a cui viene perdonata tranquillamente l’abissale lentezza con cui viene terminato ogni episodio – colpa principalmente addossabile al bravissimo ma lentissimo disegnatore. Inoltre, per la visione politically-uncorrect di questa versione para-militarizzata dei Vendicatori, che scava nell’aspetto più “fascista” del mito del supereroe al servizio del governo; una critica a volte celata in maniera sfrontata dietro al suo stesso oggetto, nell’esaltazione del sogno americano, della forza delle armi, dello sfarzo degli “uomini che contano”.
Chi sono gli Ultimates? Soldati supersviluppati, ipertecnologici, al di sopra delle parti, carne per la macchina del business e della propaganda. Uomini e donne che, dietro le proprie tutine colorate, svelano ipocrisie, nevrosi, gelosie, incapacità di giudizio, ed un senso morale spesso discutibile e incentrato in larga parte al proprio tornaconto. L’unico elemento non inquadrato, un Thor pacifista e “new-global”, rappresenta un’eccezione spesso in secondo piano, considerato alla stregua di un pazzo dai poteri eccezionali: un essere potentissimo che non sembra in realtà saper usare i suoi doni per fare quello che proclama, quello in cui dice di credere.Come “scopriamo” da questa storia, anche salvare il mondo da una invasione aliena, non rende i salvatori individui migliori. Non è nemmeno detto che il ruolo di eroe sia una scelta responsabile, quanto piuttosto un gioco di convenienze, di soldi e di fama, una spinta dettata dalla curiosità, dalla noia, o da un militare senso del dovere portato avanti con pochi, troppi pochi dubbi. Un eroe ha paura, grida slogan a caso per alleggerire la tensione, impreca, vomita in missione. Un eroe fragile. Un eroe messo a nudo, che svela l’illusione nascosta dietro le bandiere, il patriottismo, i costumi sgargianti.
In questo albo, che contiene il tredicesimo episodio USA, termina la sfida tra gli Ultimates e la razza aliena dei Chitauri, mutaforma che da secoli minacciano la Terra. Uno scontro finale che scatena lo humour “scozzese” di Millar, che distribuisce battute e situazioni comicamente drammatiche in quantità, e il suo gusto cinematografico per le scene iper-spettacolarizzate e possenti; un impegno grafico che forse solamente un artista realistico e particolareggiato come Hitch può veramente rendere in tutta la sua forza. Questa chiara ispirazione filmografica viene evidenziata anche dall’ampio uso di vignette che si sviluppano orizzontalmente per tutta la larghezza della pagina, quasi a riprodurre uno schermo cinematografico su cui far scorrere gli “effetti speciali” messi in campo dai due autori.
La pecca maggiore di questo fumetto è un forte ed avvertibile autocompiacimento, un ammiccamento forzato al lettore e la ricerca di un linguaggio che sia quanto più possibile “cool”, nonché una sorta di autoincensamento che può risultare fastidioso, e forse anche eccessivo.
In conclusione, l’intento di Ultimates sembra in un certo senso quello di trovare un punto di raccordo tra il gusto supereroistico e quello del colossal holliwoodiano, l’unione cioé tra due delle principali culture di massa degli Stati Uniti, creatrici di miti popolari capaci di sopravvivere per decenni al tipico processo di fagocitamento e oblio di nomi, personaggi e storie della società moderna. Dovremo aspettare la seconda serie, ancora in attesa di pubblicazione in America, per capire se, effettivamente, sia uno sforzo che può portare i suoi frutti.