Gianfranco Manfredi, nato nel 1948 a Senigallia (Ancona), è un autore eclettico capace di passare dalla canzone al cinema, dai romanzi al teatro e, non ultimo, al fumetto.
Cantautore di discreto successo, pubblica vari LP tra gli anni ’70 e ’80. Si dedica poi a testi e musiche di opere teatrali, a scrivere sceneggiature cinemato grafiche e a vestire pure i panni dell’attore in vari film. Finora undici suoi romanzi sono stati dati alle stampe. L’ultimo è “Tecniche di resurrezione” (Gargoyle Books) del 2010.
La prima serie a fumetti da lui ideata è Gordon Link (Ed. Dardo, 1991). Per Sergio Bonelli Editore scrive storie di Dylan Dog, Nick Raider e Tex. Nel 1997 compare in edicola il primo episodio di Magico Vento, personaggio western in cui infonde la sua passione per la cultura dei nativi d’America, che proseguirà fino al 2011. Sempre per Bonelli, crea la miniserie Volto Nascosto, e il suo seguito, Shanghai Devil, tutt’ora in corso. Questa miniserie di 18 numeri è ambientata in Cina durante la rivolta dei Boxer, e vede infatti come protagonista Ugo Pastore, già personaggio fondamentale di Volto Nascosto. Manfredi ci racconta in quest’intervista la genesi e le caratteristiche del nuovo progetto, non disdegnando interessanti digressioni riguardo al ruolo dell’“eroe”, ma anche il west di Magico Vento e i suoi futuri lavori bonelliani e non.
Com’è nata l’idea di dare un seguito a Volto Nascosto?
Ero rimasto affezionato al personaggio di Ugo . Mi pareva di aver posto delle premesse per una nuova serie che lo vedesse protagonista e coinvolgerlo nella Rivolta dei Boxer in Cina mi attraeva. Dato che VN era andato bene, non ho avuto difficoltà per rendere operativo questo progetto che pure ha una sua autonomia dal precedente.
Nel finale di Volto Nascosto si osserva una sorta di prologo a questa nuova miniserie (ad es. Enea, il padre di Ugo, che decide di andare in Cina): avevi già tutto in mente o una buona parte è stata cambiata in corso d’opera?
Come ho detto era solo un progetto, ancora tutto da studiare nei dettagli. Quel gancio era una suggestione, ma avrebbe anche potuto restare sulla carta. Non avevo ancora avuto il via libera dall’editore.
Come per altri scrittori, la Cina sembra aver sempre esercitato un certo fascino sul Gianfranco Manfredi autore di fumetti. Già nel 1991 scrivevi “Il fantasma del teatro cinese” (n.3 di Gordon Link), e in seguito “Buio a Chinatown” (n.103 di Nick Raider, 1995) e “Vampiri cinesi” (n.107 di Magico Vento, 2006). Ma perché questa scelta di non proseguire, sulla scia di Volto Nascosto, con storie del primo novecento italiano?
In realtà quello che mi interessava in VN non era l’Italia, ma la nostra esperienza sugli scenari internazionali. Dopo il nostro coinvolgimento in Etiopia, veniva quello ancor meno conosciuto della nostra partecipazione alla spedizione internazionale in Cina, un tipo di scenario che come hai giustamente rilevato mi ha sempre interessato e che qui avevo l’occasione di poter trattare in modo compiuto, e meno sporadico.
Qual è l’ambientazione che preferisci in assoluto, tra quelle che hai avuto modo di utilizzare finora? Quanto è stato difficile dopo quasi 15 anni distaccarsi dal west di Magico Vento?
La cosa veramente difficile è stato portare avanti MV per una quindicina d’anni. L’ho fatto perché MV era un personaggio che si imponeva, anche al di là dei miei desideri. Ma come narratore io sono sempre stato inquieto ed esplorativo. Molto di rado mi sono fermato a lungo sullo stesso tema, scenario, genere. Mi piace cambiare.
Riguardo Magico Vento, cosa pensi quando si paragona questa tua serie a quella indimenticata di Ken Parker?
C’erano punti in comune tra MV e KP, alcuni evidenti: i disegnatori di MV venivano tutti da quella scuderia. Però MV è stata una serie completamente diversa da KP, anche come riferimenti, primo fra tutti quello alla cultura dei lakota che mai era stata portata in fumetto con il giusto rispetto e la necessaria attenzione. Inoltre nel mio modo di narrare c’è una componente visionaria che non fa parte della tradizione di Jack London, ma di una tradizione che da un lato si sviluppa con i romanzi di frontiera alla Fenimore Cooper (L’Ultimo dei Mohicani) dall’altra in autori come Poe e Lovecraft che si distaccavano decisamente dalla narrativa di Frontiera. Ispirandomi ad autori così diversi, era indispensabile trovare un equilibrio e non avevo precedenti di riferimento, dovevo in larga misura crearlo dal nulla o quasi. Il compito era assai più impegnativo e avrebbe potuto dar luogo a un pasticcio. I rischi erano altissimi. Sono dunque molto contento del risultato. Ho voluto completarlo, perché temevo che con il tempo e l’abitudine, potesse diventare una “maniera” e impigrirsi. È quasi fatale che le serie lunghe, a meno di eccezioni storiche (come Tex) finiscano per imboccare una strada di lento e progressivo declino, anche qualitativo. Non volevo che questo accadesse a MV.
Tornando a Shanghai Devil: scrivere delle miniserie, con un numero predefinito di albi, per te è più una libertà o una forzatura? Come è stato scelto il numero totale di albi in cui raccontare la storia?
Dipende tutto dal tipo di progetto. Per me una miniserie è un graphic novel a puntate e va raccontata come un romanzo compiuto. Se invece uno crea un personaggio senza vera biografia, cioè un personaggio che può durare in eterno, in teoria, non capisco perché lo si debba eleggere protagonista di una miniserie, sembra quasi che non si abbia sufficiente fiducia nella forza del personaggio stesso. In una miniserie conta molto il tipo di storia che si racconta e non tutti i romanzi hanno la stessa durata, dipende dall’argomento e dal materiale narrativo. Al principio avevo calcolato che SD dovesse durare una decina di numeri, perché mi intimidiva lo scenario cinese, e dal punto di vista pratico, non sapevo che risultati grafici avrebbe dato. Quando ho visto le prime tavole disegnate, mi sono molto confortato e nel frattempo la narrazione mi aveva preso la mano, così la serie si è sviluppata su diciotto puntate, quasi il doppio di quante non ne avessi previste. E anche così ho dovuto fare uno sforzo di sintesi. La serie non è stata prolungata per sbrodolare, ma per esigenze squisitamente narrative: in meno episodi non ci stava.
Quanto è importante l’accuratezza storica? Fino a che punto puoi arrivare per esser fedele alla documentazione e quanto invece ritieni sia importante mantenere come margine di libertà?
Le due cose non si escludono, anzi io credo che la documentazione fornisca spunti narrativi ricchissimi, a saperli cogliere. Un esempio tratto da un numero che sarà presto in edicola: Ugo partecipa a una trattativa commerciale con dei funzionari delle ferrovie cinesi. Beh, questa trattativa l’ho tratta da un epistolario italiano d’epoca. Era una trattativa realmente avvenuta e nel modo che io racconto. L’apporto creativo è stato che facendola condurre da personaggi di fantasia e nel contesto di una situazione romanzesca più ampia, l’aspetto puramente aneddotico e “coloristico” veniva inglobato nel racconto di fantasia e non restava fine a se stesso.
A parte il materiale per la documentazione, ci sono suggestioni letterarie o cinematografiche (anche casuali) importanti per l’impostazione della serie?
Tutto fa documentazione e, per una narrazione a fumetti, la documentazione visiva (archivi fotografici, film, repertori illustrativi) è fondamentale. Sulla Cina dell’epoca, per mia fortuna, la documentazione (in particolare fotografica) abbondava e dunque ho potuto farne largo uso. Anche perché io, come sceneggiatore, sceneggio meglio se mi baso su delle location esistenti. Sceneggiare significa mettere in scena. Se non si ha precisamente in mente la scena, si sceneggia in modo troppo vago e generico.
Credi che per il lettore sia facile identificarsi in un personaggio come Ugo Pastore?
Il discorso dell’identificazione è molto complicato. In genere in un racconto d’avventura il lettore si identifica più volentieri con Eroi totalmente diversi da lui, cioè dei Risolutori, Uomini della Provvidenza, Giustizieri, Raddrizzatorti di tutti i tipi. Cioè meno sei capace di risolvere i problemi che incontri nella vita concreta, più sogni qualcuno che li risolva al posto tuo. Non sempre ci si identifica con un personaggio che combina un sacco di casini ed è sempre esposto al fallimento come tutti noi uomini comuni. Dunque di solito, almeno nel campo dell’avventura, l’identificazione avviene al contrario: ci identifichiamo nei personaggi che noi non siamo. Con Ugo mi sono esposto consapevolmente a un rischio: quello di raccontare un eroe in formazione, esposto a fallimenti e delusioni come tutti noi. Da quanto posso vedere, al momento, più che identificazione, il personaggio di Ugo crea affetto. Il lettore non si sente protetto da lui, ma protettivo nei suoi confronti: teme che possa accadergli qualcosa di veramente brutto.
Ugo sarà il protagonista di tutti i numeri di Shanghai Devil o, come per Volto Nascosto, si seguirà più il filo generale delle vicende, con eventuali episodi in cui il nostro appare solo marginalmente? Insomma, ci sarà spazio per personaggi che gli “rubino la scena”?
Nessuno ruberà la scena a Ugo che resterà fino alla fine protagonista centrale e indiscusso, anche se molti compagni incroceranno il suo cammino e con ruoli da co-protagonisti. Che ruolo avrà il coinvolgimento sentimentale dei personaggi in questa miniserie? È una serie altamente epica, ma al contempo MOLTO sentimentale, proprio perché i suoi protagonisti non sono uomini tutti d’un pezzo ma attraversano tutti, come Ugo, dubbi, fallimenti e crisi personali. Quelli tutti d’un pezzo che non hanno mai dubbi nemmeno quando sbagliano, sono in SD i cattivi.
Avendo esperienze cinematografiche e televisive alle spalle, credi di imprimere un taglio diverso alle storie rispetto a chi non ha dimestichezza in questi altri ambiti?
Imprimo un taglio più visivo, sicuramente. E il mio ritmo di montaggio delle scene risente molto dell’esperienza cinematografica. Non capita mai, nelle mie serie, di vedere delle lunghe scene di dialogo nello stesso ambiente. Al massimo dopo quattro tavole, cambio ambiente. E anche all’interno dello stesso ambiente, mi piace muovere i personaggi, farli recitare, per cercare di ridurre al minimo gli inevitabili momenti di staticità. In fumetto il movimento non si vede, ma va sempre suggerito. Altrimenti va a finire che il lettore legge soltanto i balloon e non guarda più il disegno.
Quali sono per te i criteri per ritenerti soddisfatto di come un disegnatore ha reso graficamente una tua sceneggiatura?
Il movimento, come ho detto. Ma la cosa veramente ardua è conferire espressività ai primi piani. Il volto umano è sempre il paesaggio più difficile da dipingere. Capita spesso che un personaggio dica cosa importanti, con una faccia da fesso. Se lo facesse un attore, la sala scoppierebbe in pernacchie, se lo fa un personaggio disegnato la cosa viene tollerata, ma resta un difetto. I primi piani per me devono essere pochi, ma quei pochi devono risultare altamente espressivi.
Hai sempre badato molto all’evoluzione dei personaggi, al loro non rimanere rinchiusi nei propri schemi. Nonostante ciò, come ti trovi a scrivere storie di Tex, in cui è improbabile sostenere una continuity (di 600 e passa episodi) né tanto meno mutare più di tanto le caratteristiche base della serie e dei personaggi?
Tex è un classico e va affrontato come tale. Il lettore non deve essere condotto a conoscere il personaggio, ma a ri-conoscerlo. Un’esecuzione piatta e standardizzata di Tex, conduce i suoi lettori più affezionati a non riconoscerlo, perché Tex non può permettersi di essere un personaggio piatto. Rispettarlo significa anzitutto rispettare le sue caratteristiche uniche, non quelle che potrebbero essere applicate a qualsiasi altro eroe al suo posto. E capire quale sia l’unicità di Tex è molto più difficile di quanto non si creda. Quando finisco una sua storia in genere sono stremato. Non posso fargli fare quello che voglio io, devo scrivere quello che vuole lui, cioè ideare situazioni adatte a lui, predisposte per fargli dare il massimo di sé. Ogni storia di Tex è di Tex e senza Tex sarebbe una storia completamente diversa. Una battuta detta da Tex ha per i lettori un’importanza e un’autorità che non avrebbe in bocca a un altro personaggio. Dunque non può permettersi di dire delle cavolate o di ripetere sempre le stesse cose come un disco rotto. Tex, quando agisce e quando parla, dev’essere sempre decisivo e rimarcare di continuo il suo protagonismo, senza però diventare mai antipatico o troppo saccente. Un personaggio così è difficilissimo da scrivere.
Per chiudere: circola voce in rete che tu abbia in programma un’altra miniserie per la Bonelli. Puoi darci delucidazioni riguardo questo o altri tuoi progetti fumettistici per il post-Shanghai Devil? E riguardo l’ambito extra-fumettistico?
Sto finendo di scrivere un graphic novel ambientato negli anni 20. Il mese prossimo inizierò a scrivere una nuova serie che al momento è un progetto lungo, cioè non una miniserie, senza una durata predeterminata. È forse il progetto più classicamente avventuroso che io abbia mai pensato, ma è prematuro parlarne in quanto i tempi di lavorazione saranno più lunghi del solito, considerata la natura del progetto. Posso però dire che il personaggio sarà nuovo, non si tratterà di una nuova trasferta esotica di Ugo Pastore. Il periodo storico sarà il mio favorito: l’età di passaggio tra ottocento e novecento. Ma intanto non vorrei distogliere l’attenzione da SD. È una serie che riserverà molte sorprese ai lettori. Sui progetti extra-fumettistici posso invece annunciare ufficialmente che nel 2013 uscirà da Mondadori il mio nuovo romanzo, ambientato nell’Inghilterra di Elisabetta I. Ho già finito di scriverlo, devo solo dare gli ultimi ritocchi. Non è un horror come i miei ultimi, ma un gotico d’avventura, genere molto poco frequentato in Italia. Perché non l’ho raccontato in fumetto? Mah… non riuscivo a vedere disegnati personaggi con i collettoni tipici dell’epoca di Shakespeare, temevo sarebbero sembrate delle teste su un piatto. E poi il romanzo è così visionario che è meglio immaginarselo. Tradurlo in immagini definite, avrebbe rischiato di tradirlo. Certe storie devono mettere in moto la fantasia del lettore. I protagonisti e gli scenari di un romanzo anche quando sono descritti minutamente, ciascun lettore è libero di forgiarseli a sua misura. C’è più interattività in un romanzo che in una narrazione visiva: in letteratura il lettore collabora al romanzo. Ecco perché capita che quando vediamo la trasposizione cinematografica di un romanzo, spesso usciamo dal cinema delusi: noi lo avevamo immaginato diversamente. Questa libertà dell’immaginazione, il cinema e spesso anche il fumetto, tendono a limitarla, perché ci servono un prodotto già tradotto in immagine e in una misura e un tempo (un format) dati. Io sono molto legato al fumetto (e al cinema) perché adoro raccontare per immagini, tuttavia trovo che in un romanzo puramente letterario ci sia una libertà maggiore, sia per chi scrive, che per chi legge.
Marco Caprio
17 Febbraio 2012 a 17:05
Grande Manfredi. Penso però che un’altra serie con il giovane Pastore sarebbe la benvenuta.
Debris
22 Febbraio 2012 a 19:57
Non è necessario per ora un’altra opera su Pastore [ sarebbe bello qualche One Shot ambientato in scenari africani e o asiatici ]. Peccato i pochi dettagli sulla nuova opera – ovviamente – Sarà anche lui al festival di Bologna, spero possa dare qualche dettaglio in più…