La lingua dell’odio e dell’amore: Days of Hate di Ales Kot e Danijel Žeželj

La lingua dell’odio e dell’amore: Days of Hate di Ales Kot e Danijel Žeželj

Negli Stati Uniti dilaniati dalla guerra civile, quattro personaggi si incontrano e si scontrano tra loro. Intrighi, misteri, mistificazione e la dissoluzione dello stato sociale: Ales Kot e Danijel Žeželj parlano del nostro mondo e della rabbia che lo percorre, unendo le loro riflessioni su linguaggio e comunicazione.

Ricordi l’odio online del 2016? Una ‘tempesta di fango’. E poi il 2017? Il 2018 e le elezioni? Nel 2022 non si odia più, siamo tutti catatonici.

In poche vignette e con dialoghi secchi e asciutti, che emergono da un edificio vuoto e decadente, Ales Kot e Danijel Žeželj immergono il lettore in Days of Hate. E ce lo immergono di testa, senza preavviso, con decisione e inesorabilità.

Siamo negli Stati Uniti del 2022, la alt-right e i suprematisti bianchi sono al potere, le minoranze non hanno più diritti, i diversi e i dissidenti possono venire imprigionati in qualsiasi momento. Oppure bruciati vivi in un club queer di Los Angeles attaccato da un gruppo di neo-nazisti.

Inizia qui il viaggio attraverso gli Stati Uniti di Amanda e Arvid, lei lesbica, lui afroamericano, uniti da un piano di vendetta impostato come guerra terroristica contro il sistema.
Voltando pagina, il paesaggio cambia: siamo sulle colline dello stato di New York, una donna fa volare un falco prima di essere portata via da una task force per essere interrogata da un agente dell’antiterrorismo, un “cacciatore dei nemici di stato”. Peter Freeman, questo il suo nome, vuole avere informazioni su Amanda dalla persona a lei più vicina, la ex-moglie Xing, donna di origini asiatiche, donna tradita e desiderosa di vendetta nei confronti dell’amata.

Ma nulla è come sembra in questo thriller distopico fatto di azione sospesa e pathos, in cui le carte vengono continuamente rimescolate da sotterfugi, intrighi e menzogne, mentre il piano dei protagonisti prende forma in una atmosfera di perenne tensione e attesa, rotta solo dall’esplosione dell’azione fulminea e improvvisa. Una esplosione che lascia il lettore in un perenne stato di ansia e sbandamento emotivo, alla ricerca di un appiglio in questo mondo di caos e rabbia.

Tra riflessione politica e esplorazione dell’uomo: le due anime del racconto

Days of Hate è una storia ambientata in un futuro prossimo ma che in realtà parla del nostro presente, un presente fatto di scontri quotidiani e di radicalizzazione del confronto sociale e politico. Ales Kot ci racconta la nostra società in maniera tagliente e brutale, ci fa scoprire i meccanismi che si celano dietro la resistenza armata o l’accettazione di un regime, due facce della stessa medaglia che spesso si mescolano nel mare violento dell’odio e del rancore.

Destra e sinistra, suprematisti e democratici vengono fagocitati da un sistema che rischia di mettere pericolosamente tutti sullo stesso piano, che insinua il dubbio verso ogni ideologia e ogni forma di ribellione, spingendo verso la resa o verso la guerra. In tutto il racconto, i personaggi di entrambi gli schieramenti si scontrano, più o meno apertamente, con queste spinte contrarie e distruttive, si confrontano per affermare sé stessi e per lottare contro il caos della contemporaneità.

Il centro dell’opera, o per lo meno la parte più affascinate, è quello che racconta la storia di uomini e donne divisi tra certezze e dubbi, tra consapevolezza e falsità (quelle che raccontano a sé stessi, prima ancora che agli altri). Un cast ridotto all’essenziale permette a Kot di esplorare a fondo la natura umana, la sua fragilità e fallibilità, la sua dualità divisa tra empatia e rabbia.

Peter Freeman (un nome parlante ed emblematico) è un cinico e brutale agente, capace di commettere le peggiori efferatezze nel suo ruolo pubblico, di tradire la moglie e al tempo stesso di presentarsi come buon padre di famiglia. Il suo fare ambiguo e le sue apparenti sicurezze si sgretolano nel corso della storia, sotto i colpi degli eventi e del confronto con i propri nemici.
Xing è una donna forte e coraggiosa, Amanda una donna risoluta e pronta a tutto, insieme cercano superare le proprie fragilità, ma la loro ricerca di vendetta mascherata da senso di giustizia le porta a macchiarsi di crimini feroci e a smarrire poco a poco quella differenza per cui lottare che ancora resta loro. Un mondo senza eroi, quindi, che porta ognuno al proprio limite e oltre, allo scontro con ogni mezzo possibile, al sacrificio estremo che non redime e non salva.

Ma non c’è solo oscurità in questa storia, perché Days of Hate è anche, paradossalmente, un racconto che mette al centro di tutto l’amore. Un amore appassionato e totale, quello di Amanda e Xing, un sentimento che diventa dittatura assoluta e totalizzante e che contro una dittatura si scontra senza sosta. Un amore che sopravvive e brucia nonostante le aggressioni, che si macchia ma non si estingue fino alla fine del racconto.

E amore è quello di Arvid per la sua famiglia, che cerca di proteggere e salvare a tutti i costi, un amore profondo e puro, che porta a sacrificare tutto per il bene dell’altro. Due amori diversi e uniti dalla stessa battaglia, una battaglia che ha come proprio simbolo quello delle mani in copertina, che cercano di ricongiungersi nonostante un filo spinato che le blocca e le ferisce.

La parola come arma, la parola come ancora di salvezza

Intrecciando due linee del racconto, che pian piano convergono verso un evento di non ritorno, Ales Kot costruisce un thriller coinvolgente grazie ad una gestione ottimale del ritmo narrativo: il lento scorrere degli eventi crea un senso di perenne tensione e oppressione, con situazioni che si sovrappongono pian piano fino a giungere al momento topico, in cui l’azione si consuma in maniera repentina, colpendo come un pugno diretto al petto.

Grazie a questo espediente narrativo, l’autore ha il tempo di soffermarsi sui personaggi e soprattutto di curarne i dialoghi, i pensieri e i silenzi. Come già fatto in altre opere, quali Wolf e Zero (uno dei migliori fumetti statunitensi degli ultimi anni, ingiustamente non ancora tradotto nel nostro paese), Kot si concentra sul significato e il valore sia delle parole, che possono essere al tempo stesso veleno e antidoto.

Oltre alla guerriglia fisica, gran parte dello scontro tra le due fazioni si gioca nei dialoghi tra Freeman e Xing, che in più di una occasione si trovano direttamente contrapposti. Freeman è la personificazione del potere dittatoriale che ha nella parola la sua prima e più grande arma: dietro ad una battuta e un sorriso falsamente rassicurante, l’agente pronuncia minacce e dispensa condanne a morte, afferma con forza le sue idee e il suo disprezzo nei confronti dei diversi, i deboli, gli sconfitti, mascherando tutto dietro il dovere di servire il potere. A queste parole, Xing risponde con una strategia fatta di menzogne, di depistaggi ma anche di brutali verità e di sfida aperta al sistema. La donna usa il suo corpo, ma soprattutto la sua mente e la sua parola per fiaccare la tronfia resistenza di Freeman.

Uno scontro retorico che raggiunge il suo apice nel penultimo capitolo, quando Xing pronuncia una accusa e una condanna secche, senza possibilità di replica, verso una dittatura che esemplifica tutti i regimi autoritari mai esistiti.

Ma la parola è anche salvezza, capace di ristabilire l’equilibrio e di rendere liberi: le conversazioni tra Amanda e Arvid aprono una finestra su un mondo diverso e passato, un mondo fatto di affetti e amori, così la parola diventa resistenza al presente e difesa della propria umanità. In particolare, il racconto di Amanda si trasforma piano piano in flusso continuo di pensieri: passando dai baloon a didascalie prive di punteggiatura (altro strumento tipico della poetica di Kot), il fiume di parole diventa ponte tra Amanda e Xing, diventa strada che riporta a giorni migliori, a giorni di dolcezze e passione, privi di odio.

Tra luci ed ombre, decadenza e tensione

Stando ad alcune interviste, Ales Kot aveva già provato a contattare Danijel Žeželj prima di questo progetto, ma solo dopo molti anni i due hanno avuto modo di lavorare insieme, dopo che l’artista croato aveva avuto modo di leggere alcune opere dello scrittore ceco. Ed è un bene che la collaborazione sia andata a buon fine, perché dopo aver letto e riletto con attenzione i dodici numeri di Days of Hate (ma anche solo il primo capitolo) si capisce quanto la visione dei due autori coincida e che la serie non sarebbe stata la stessa senza i disegni di Žeželj.

Il tratto sporco e denso del disegnatore croato crea un mondo cupo e oscuro, i tratti taglienti dei volti si fanno spazio grazie a chiaroscuri netti e decisi, che tagliano lo spazio delle vignette uscendo fuori dalla pagina. L’artista usa per la maggior parte della storia inquadrature strette, che convergono sui volti dei personaggi e in particolare sui loro occhi, unico spazio bianco in mezzo al nero di linee spesse e grezze. La densità di linee ed elementi, il focus stretto dell’obiettivo e i dialoghi verbosi di Kot riempiono la pagina, creando un senso di claustrofobia. I protagonisti sono come intrappolati nelle gabbie che essi stessi costruiscono, le loro espressioni sono come intagliate nella notte e nell’abisso di odio e violenza da cui vengono risucchiati.

L’evocazione della tensione guida ogni scelta registica, come ben dimostrato dal terzo capitolo, in cui Arvid e Amanda incontrano una famiglia di escursionisti (pp. 71-74): l’inquadratura si apre improvvisamente sul gruppo, per poi spostarsi sullo sguardo sospettoso di Amanda, che sfodera un sorriso tirato per salutare. Si passa poi a delle vignette verticali che si concentrano sempre di più sui volti dei personaggi, inquadrati leggermente dal basso. Quando la famiglia si sta per accomiatare, l’inquadratura si allarga nuovamente, con gli escursionisti in controluce che diventano semplicemente ombre senza volto. Infine, mentre il gruppetto si allontana, una serie di vignette orizzontali si affastella l’una sopra l’altra, ancora inquadrando i volti, mentre le domande e le risposte si fanno sempre più misurate e secche.
A questo si aggiungono i colori della sempre eccellente Jordie Bellaire, che sceglie di ambientare la scena in un ambiente assolato, in cui l’arancione (quasi innaturale) del cielo all’imbrunire esalta le ombre create dal disegnatore e crea un senso ancor più forte di disagio e apprensione.

La serie di quattro vignette strette verticali e la sequenza di vignette orizzontali che si sovrappongono l’una sull’altra dall’alto verso il basso tornano a più riprese nel corso del racconto: la prima soluzione serve a creare un ritmo serrato e angoscioso, la seconda invece a dare un senso di oppressione e di disequilibrio. Un terzo motivo compositivo ricorrente è quello di tre grandi vignette che dividono la pagina e che rappresentano lo svolgimento di tre azioni parallele (l’intero capitolo Chirurgia). Questo espediente fa rallentare il ritmo del racconto, lasciando spazio al silenzio e al linguaggio del corpo, dei movimenti e delle espressioni, e crea un crescendo di tensione strisciante culminante con un colpo di scena, che spesso coincide con un allargamento del punto di vista.

L’uso della griglia a nove vignette è invece riservato spesso al flashback dedicato ai momenti di intimità e di amore, in cui i colori diventano più accesi ma anche più innaturali (i gialli, i blu e i rosa di pagina 157 o 159). Una scelta che potrebbe apparire illogica, vista la rigidità di questa composizione che spesso evoca la sensazione di prigionia, ma che qui acquista un significato ben preciso: il passato è sì una trappola, ma è anche l’unico luogo di libertà rispetto ad una realtà di violenza. I corpi di due donne travalicano i limiti del tempo e dello spazio, attraversano gli spazi bianchi per stringersi le mani, per abbracciarsi e ritrovare quello spazio perduto scaldato dall’amore.

Oltre alla grande consapevolezza di narratore, Danijel Žeželj dimostra tutta la sua bravura nelle illustrazioni a tutta pagina, spesso dedicate alle città in cui si svolgono le vicende: Los Angeles con le sue arterie tentacolari che illuminano il buio della notte, New York con la struttura geometrica delle sue strade e dei suoi palazzi, e poi, ancora, edifici nel bel mezzo del deserto e garage alla periferia di Kansas City. I paesaggi urbani da semplici sfondi diventano protagonisti e specchio della società: le vuote luci della città illuminano l’oscurità in cui vivono gli uomini, generando sinistre ombre di guerra; i palazzi e i grattacieli sono gli scheletri di un mondo fatto di solitudine e decadenza, tutto appare minaccioso e cupo.

I colori di Jordie Bellaire si integrano perfettamente con il lavoro del disegnatore, esaltando queste atmosfere grazie alla scelta di toni plumbei e oscuri che si scontrano con colori accesi che compaiono violentemente nel mezzo delle distese antropiche del Nord America.

Non si può parlare dell’aspetto del volume senza citare il grande lavoro di lettering di Aditya Bidikar (purtroppo perso nell’edizione italiana), che usa un font studiato appositamente per adattarsi al tratto oscuro e ruvido di Žeželj. Altrettanto importante il design elaborato da Tom Muller, che ha curato la stuttura delle copertine e gli interni: la scelta dei colori primari su cui stagliare il titolo e citazioni significative di politici, cantanti, scrittori crea al tempo stesso un contrasto e un senso di continuità con gli interni, legando tra loro i singoli episodi in maniera coerente.

Cosa resta dopo tanto odio e tanto amore

Days of Hate non è un fumetto semplice, anzi sembra proprio fatto per dividere il pubblico. I disegni di Danijel Žeželj non sono concilianti e rilassanti, chiedono all’occhio di tornare più volte su una stessa pagina per cogliere ogni dettaglio. La scrittura di Ales Kot può talvolta essere percepita come pesante: in alcuni frangenti l’autore travolge il lettore con dialoghi fiume e con pensieri sconnessi e in libertà. Una scelta stilistica a doppio taglio: affascinante ma che può diventare noiosa ed ostica se non gestita bene.

Nel caso di Days of Hate, alcuni passaggi appiano didascalici e retorici, più interessati ad esprimere una posizione che a creare una narrazione fluida, comprensibile e al tempo stesso d’impatto. Nonostante questo, l’affresco di Žeželj e Kot conserva una potenza primordiale e paradossalmente senza tempo, nonostante sia ambientata in un tempo e in un luogo ben precisi. Per capirlo, bisogna quindi arrivare fino alla fine del racconto.

Days of Hate è un puzzle, in cui ogni episodio è un pezzetto che compone un’immagine più grande e solo mettendo il pezzo finale (o meglio, i pezzi finali) si può avere una prospettiva completa e unitaria. Eris Edizioni ha per adesso pubblicato il primo volume della storia, mentre il secondo è previsto per l’autunno di quest’anno. Solo arrivati alla fine si potrà a comprendere meglio la natura del racconto, chiuso da due capitoli finali che si intersecano e si contrappongono, in un epilogo di distruzione, resa e sacrificio, di vite segnate da un mondo intollerante e da scelte drammaticamente sbagliate, eppure aperto a un futuro migliore, non fatto di vendetta ma di rinnovata speranza nell’umanità, nonostante guerre e violenze.

Amore, odio, dittatura, democrazia, resistenza e terrorismo, morte e speranza: lo stesso Kot, in risposta ad una recensione del primo numero comparsa sul TCJ, afferma che il suo punto non è quello di parlare del momento, bensì di un momento ricorrente.
In questa ottica, Days of Hate è un’opera più grande e universale degli eventi puntuali di cui narra, che parla di chi siamo e della nostra Storia. Il finale chiude una storia per iniziarne un’altra, in un ciclo continuo in cui conflitto e riconciliazione. Come un cielo rosso al tramonto velato da nubi scure.

Abbiamo parlato di:
Days of Hate – Atto primo (di 2)
Ales Kot, Danijel Žeželj, Jordie Bellaire
Traduzione di Valerio Stivè
Eris Edizioni – 2019
176 pagine, brossurato, a colori – 17,00 €
ISBN: 9788898644612

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