ATTENZIONE: SPOILER! A dir la verità, nell’articolo non sono presenti veri e propri spoiler, tuttavia si consiglia di vedere la serie prima di leggerlo. Si può comunque proseguire a proprio rischio e pericolo.
“Se qualche re fosse in disprezzo o in odio ai suoi, tanto da non poterli altrimenti tenere a dovere che procedendo tra offese, saccheggi e confische e riducendoli in miseria, meglio varrebbe per lui abdicare che conservare il regno con tali modi di agire, con cui conserverebbe il trono, ma non la maestà di re”.
Queste parole vengono da L’Utopia1 di Thomas More, politico e umanista inglese, vissuto tra il XV e il XVI secolo, condannato a morte da re Enrico VIII e santificato dalla Chiesa cattolica. La critica alla monarchia è feroce e prende in considerazione la confisca dei beni, ossia l’ingerenza soverchiante del sovrano nella proprietà privata del suddito. Proprietà privata che, per More, non trova spazio sull’isola immaginaria di Utopia, dove i cittadini vivono condividendo tutto, come se fossero membri di una grande famiglia.
Il re e l’isola, due elementi che, mutatis mutandis, si trovano anche in Jupiter’s Legacy, fumetto di Mark Millar e Frank Quitely, scritto e disegnato per Image Comics, all’interno dell’etichetta Millarworld, e prima opera dello sceneggiatore scozzese a diventare una serie televisiva per Netflix, dopo l’accordo con la nota piattaforma.
In questo articolo si cerca di prendere in esame la problematizzazione del superuomo nel serial tratto dall’opera cartacea, sapendo di non esaurire l’argomento e con il desiderio di portare il discorso anche su altri binari, in futuro.
Sicuramente definire Utopian, il protagonista del racconto, un monarca sembra un po’ azzardato, ma a pensarci bene il supereroe è a tutti gli effetti un capo e comanda in modo assoluto: sebbene sia tormentato dal dubbio, diventando quasi un personaggio scespiriano, Sheldon Sampson (questo il suo vero nome) detta le regole, il Codice, e pretende che tutti le rispettino; non ammette replica e bolla come “dissenso” qualsiasi pensiero discordante, che soffre tremendamente.
L’Unione, il supergruppo principale del mondo creato da Millar, è una sorta di Justice League, in cui in teoria ogni membro ha le proprie specificità e la propria importanza. È guidata dal leader che segue e vigila sull’applicazione di un dogma in particolare: vietato uccidere.
La squadra viene più volte nominata nelle otto puntate del telefilm (termine démodé, pardon), ma diventa una sorta di chimera, dal momento che gli eroi non agiscono come collettivo, non fanno lavoro di squadra e sono più divisi che uniti. A conti fatti, la si vede riunita solo per pochi istanti, per di più in un flashback, tanto che viene da chiedersi se non sia diventata solo un pallido simulacro di ciò che era (a patto che fosse qualcosa almeno un tempo).
Nel presente narrativo, dell’Unione non c’è traccia: si assiste alle imprese dei singoli che, sì, interagiscono tra loro, ma non sono coordinati e non collaborano. L’associazione supereroica dovrebbe avere l’oligopolio2 della violenza, però nei fatti si tratta di un monopolio. Un monopolio della violenza particolare e ristretto, dato che Utopian pone dei confini netti entro i quali è possibile esercitarlo, ma pur sempre di sistema esclusivo si tratta. Il fatto che alcuni supereroi abbiano dei dubbi sulla regola aurea di non uccidere non lo intacca, dal momento che chi sta in alto non sente ragioni ed esita “soltanto” di fronte al rischio di perdere il proprio figlio. Ma anche in quel caso il protagonista non riesce a uscire dal sistema binario con cui ragiona: per lui è tutto o bianco o nero, il dubbio porta all’inerzia, trasforma l’uomo d’azione in un inetto.
A far riflettere sulla forma mentis di Sheldon è anche il fatto che si rechi in analisi da un suo vecchio nemico, un supercriminale rinchiuso in un carcere di sicurezza che, appeso il costume al chiodo, esercita la professione di psicologo ascoltando l’individuo più forte di tutti. Al centro del colloquio sono il conflitto generazionale, dato che i nuovi eroi e il figlio di Utopian in primis faticano a seguire il dogma, e il Codice stesso. Il personaggio interpretato da Josh Duhamel cerca conforto e parole amiche dal suo analista, ponendosi ancora una volta come il pastore che guida il suo gregge, senza rendersi conto che in questo caso è il pastore a essersi smarrito o a non capire le sue pecorelle.
Per restare nell’ambito del cristianesimo, si può pensare che questa versione attempata di Superman (innegabili i rimandi a Kingdom Come di Mark Waid e Alex Ross) abbia fatto proprio il passo della Seconda lettera a Timoteo, quella in cui San Paolo scrive: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede”. Il problema, in questo caso, è che Sampson è ben lontano dalla linea del traguardo, non può permettersi di raggiungerla, perché manca un suo erede: i giovani non riescono a combattere la “buona battaglia”, non vogliono più farlo, non possono più stare a guardare mentre i loro amici e colleghi cadono sotto i colpi di villain partoriti da un mondo che non è più quello della Crisi del ‘29 e degli Anni Trenta (il periodo in cui sono ambientati i flashback).
Il mondo sta cambiando, ma Utopian non lo accetta, preso com’è dalla volontà (necessità?) di controllo e giustizia, che diventa ipocrisia e autoinganno. Anzi, si potrebbe dire che, avendo “la guerra a casa” – dato che la figlia Chloe ha smarrito la via e conduce una vita dissoluta, ribellandosi e sfidando continuamente il genitore, e Brandon, il rampollo noto come Paragon, soffre per non essere considerato “pronto” dal padre –, non abbia il tempo di ragionare lucidamente su quell’umanità che ha giurato di proteggere, sacrificando gli affetti, caricando la prole di eccessive pressioni ed ergendosi al di sopra di donne e uomini, con superpoteri oppure no.
Ma che cosa rende Shel migliore degli altri? Perché si distingue superando persino la posizione di primus inter pares? L’eroe sembra caratterizzarsi per una fiducia cieca in qualcosa, che sia la ricerca dell’isola sulla quale vertono le sue visioni nel passato o il Codice nel presente. Le sue gesta, il suo “cuore” motivano la sua grandezza? La sua forza giustifica la sua egemonia?
Al termine del “primo volume”, così Netflix denomina la prima stagione di Jupiter’s Legacy, gli autori e i produttori non offrono una risposta, piuttosto puntano sulla critica, anche metanarrativa e già mossa da Mark Millar nel fumetto eponimo e in altre sue opere, all’etica con la quale i supereroi affrontano la loro missione, a quella regola di non uccidere che diventa motore e deus ex machina di anni e anni di storie, ma che spesso risulta artificiosa e poco credibile.
Chiaramente il supereroico, categoria fluida che ingloba diversi generi e differenti percorsi, poggia su basi ben definite, stabilite nel Novecento e figlie di quel secolo, come fa notare Alan Moore, quando dice: “[I supereroi] sono stati inventati a fine Anni Trenta per i bambini e sono perfetti come intrattenimento per i bambini. Ma, se cerchi di adattarli al mondo degli adulti, diventano in qualche modo grotteschi”.3
Se il sense of wonder e la sospensione dell’incredulità sono elementi necessari per godere pienamente dell’epica delle “tutine”, è poi importante, come sa bene proprio il Bardo di Northampton poiché l’ha fatto in prima persona, cogliere l’opportunità di problematizzare personaggi e stilemi, di smontarli e rimontarli, di rileggerli alla luce di un determinato momento storico e svilupparli avvalendosi anche di altri media, con i loro ampi bacini di utenza.