Igort è uno dei più importanti autori italiani di fumetti. Nel corso degli anni Ottanta collabora con alcune delle principali riviste nazionali e internazionali tra cui “Linus”, “Alter”, “Frigidaire”, “Metal Hurlant”, “L’echo des Savanes”, “Vanity”, “The Face”. Nel 1983 fonda con Brolli, Carpinteri, jori, Kramsky e Mattotti il gruppo Valvoline. Nel 2000 fonda la casa editrice Coconino Press, ed attualmente dirige la casa editrice Oblomov, da lui fondata in collaborazione con La nave di Teseo.
Ha al suo attivo una carriera di musicista, con il gruppo Igort & Lo Ciceros.
Il suo romanzo a fumetti: “5 è il numero perfetto” è pubblicato in 15 paesi ed è in lavorazione per diventare un film. I “Quaderni ucraini” e “Quaderni russi”, editi da Mondadori, nascono dalle sue esperienze di viaggio nell’est Europa, mentre “Quaderni giapponesi”, giunto al secondo capitolo, è un compendio del suo decennale rapporto col Giappone.
La prima Lucca Comics di Oblomov: pur con la lunga esperienza Coconino alle spalle, comunque una sorta di nuovo debutto anche per lei. Cosa si porta via da questa edizione?
Un enorme e inatteso abbraccio dal pubblico dei lettori e un debutto della nuova casa editrice al di là di ogni più rosea aspettativa. È stato meraviglioso constatare che il lavoro seminato in quasi vent’anni di pubblicazioni aveva messo radici ed era apprezzato e seguito.
Oblomov nasce come continuazione del progetto Coconino o dalla voglia di cambiare?
Oblomov è il passo successivo all’esperienza precedente: una rivoluzione nei formati e nelle collane, uno sguardo a 360° per ampliare le possibilità di comunicazione che il linguaggio del fumetto offre.
Per me è importante rendere possibile uno slancio ulteriore: esistono migliaia di piste narrative e lettori avidi. Spero di continuare a dare il mio contributo per creare una scena di nuove narrazioni.
L’alleanza con La Nave di Teseo ha portato dei cambiamenti nel suo ruolo di editore o prospettive diverse?
La Nave nasce dalla voglia di innovare, dalla spinta a creare nuovi paesaggi creativi in editoria; nel momento in cui ti accontenti delle posizioni comode è finita. Con Elisabetta Sgarbi, fondatrice de La Nave di Teseo, c’è una grande stima e sintonia. È bello lavorare con persone così fertili e ricche di idee. La mia autonomia editoriale è rispettata, ma so che per qualunque cosa posso scambiare pareri e avere il suo supporto.
Oblomov è il nome del protagonista del romanzo omonimo di Ivan Aleksandrovič Gončarov. Perché proprio questo nome, cosa l’ha colpita così tanto di questo personaggio?
Del romanzo di Goncarov amo lo sguardo poetico e originale su qualcosa, come la pigrizia, che crediamo di conoscere.
Per me è un simbolo: fare libri, scrivere o pubblicare dei racconti è una pratica che si rinnova sempre; non possiamo dare nulla per scontato, perché ogni libro ha la sua peculiarità, le sue esigenze, la sua tecnica. E il lettore di oggi è più esigente di quello di un tempo: vuole libri belli, stampati bene, curati nella grafica.
Nell’agire di Oblomov c’è della somiglianza con la poetica dell’ozio tipica giapponese, un mondo a cui lei è molto legato.
Per me era anche un manifesto teorico, noi stampiamo una quantità di libri limitata. In questo senso siamo editori “pigri”, perché per fare bene le cose occorre tempo e un lavoro di ricerca anche cartotecnica. Questo i lettori lo percepiscono.
Oblomov viene definita “opera situazionista”: dà l’immagine di una casa editrice che sia essa stessa una sorta di opera, una entità ben definita e capace di esprimere un messaggio.
Si è inoltre detto: “Le officine OBLOMOV lavorano a pieno ritmo per definire il nuovo pop.” Qual è il risultato di queste anime in fibrillazione alla base del progetto editoriale?
Il risultato sono i nostri libri, io ne sono felice, ma sta al lettore giudicare. Per me un editore produce cultura, che ha un enorme valore simbolico. Dunque prima di tutto viene il progetto. Credo che sia importante lanciare in alto il giavellotto della creatività, per creare un percorso ricco e sorprendente. Ogni autore si sta misurando con la sua storia, le sue pagine, nel tentativo di non ripetere ciò che si è già visto, se possibile. Un romanzo grafico è qualcosa che si sta formando in questi anni: siamo in un’epoca di pionieri. Bisogna esserne consapevoli. Ed è bello, emozionante. Io ritengo il graphic novel, la forma contemporanea di romanzo. Con tutto il rispetto.
Nella mostra a lei dedicata emergono due temi: l’evoluzione (dello stile) e il viaggio. Rispetto al primo, cosa significa per un autore fare ricerca sul suo modo di fare fumetti, di disegnare e di narrare?
È una domanda difficile. Per me narrare significa creare un insieme di situazioni dalla quale emerge una voce. Se leggo Gogol o Vonnegut, Cechov o Shteyngart, cosa emerge? Un modo di guardare al mondo che è personale e contagioso. Se leggo questi scrittori imparo a vedere la vita, imparo qualcosa di me stesso che prima non conoscevo. Ecco, io leggo per questo, credo. Il disegno è una forma di racconto potentissima e discreta, penetra in profondità. Mi interessa molto il linguaggio meticcio, rappresentato dall’unione di disegno e parola: credo che sia la massima espressione della contemporaneità, lo Zeitgeist.
Parlando di viaggio, è uscito il secondo dei Quaderni dedicato al Giappone. Rispetto al primo, “Il vagabondo del manga” sembra presentarsi come un viaggio quasi iniziatico, certamente una ricerca più cosciente di un filo conduttore da riportare nel fumetto.
Per me il discorso del racconto è un filo di seta continuo, in cui le cose si collegano l’una all’altra, volume dopo volume. Non saprei se questo sia più iniziatico del primo, nel primo affronto il racconto di una vita lavorativa nel cuore dell’industria dei sogni di carta, il mondo dei manga. Nel secondo un perdersi nella natura, e l’idea della solitudine come chiave per capire se stessi e la cultura giapponese, che di questo perdersi ha fatto il cardine per secoli.
La nostalgia è un sentimento che le appartiene nella vita e nelle sue opere?
La nostalgia è uno strumento per leggere il mondo. Una chiave come altre, che a me è congeniale.
Con Oblomov ha ristampato Ishiki No Kashi, Il letargo dei sentimenti che appartiene al suo primo periodo nipponico.
Le architetture, le macchine, i vestiti: riletta oggi rende l’idea di una affascinante opera retrofuturistica. Quanto è importante la tensione tra la tradizione, l’attaccamento al passato, la ricerca di qualcosa di nuovo, e l’aspettativa per il futuro?
Ogni storia nasce da suggestioni che si accumulano nel tempo. Rileggere oggi Ishiki no kashi, a distanza di tanti anni, mi ha fatto comprendere che con i mio piccolo lavoro ho anticipato probabilmente delle cose che sarebbero venute fuori negli anni successivi.
A quei tempi non si sapeva nulla dei manga e della cultura pop giapponese; perfino Akira non si era mai visto.
Cosa ha rappresentato questa storia nel lungo rapporto con il Giappone e cosa ha provato riprendendola in mano per questa nuova edizione?
Oggi ho finalmente pubblicato la storia come avrei sempre voluto: le nuove tecnologie consentono di riprodurre i colori come un tempo era impossibile. All’epoca ricordo che i tipografi mi chiedevano di scegliere, perché pubblicare il colore turchese e il blu elettrico era impossibile.
Dato che la storia si basa tutta su quei toni. Fu triste vedere cosa ne veniva fuori, ma tant’è, era la sola possibilità. Dare un grande formato (l’edizione deluxe è 27 x 37 cm), restaurare le pagine, regolarle perché la stampa venisse molto vicina alle intenzioni originali è stato un sollievo, un risarcimento.
Lei è stato uno dei punti fermi di Valvoline, certamente uno dei più importanti vanti del fumetto nostrano, a giudicare da chi i suoi membri sono diventati. Quando avete iniziato, dove volevate arrivare?
Quando abbiamo cominciato eravamo dei ragazzi di vent’anni e avevamo l’ambizione di rinnovare il linguaggio. Era una spinta propulsiva che andava di pari passo con la rivoluzione musicale, fumettistica e cinematografica di quegli anni.
Ma a nessuno di noi, credo è mai venuta in mente la domanda “dove voglio arrivare?”.
Eravamo degli autori, correvamo dando libero sfogo alla fantasia, che ci sembrava un territorio fertile e felice.
Se potesse chiacchierare con l’Igort di quel periodo, crede sarebbe felice di ciò che lei e il gruppo, ognuno per la sua strada, avete realizzato, o avrebbe qualche rimpianto?
Rimpianti? Ma no, per carità. Io vivo immerso nei racconti, si pensa sempre a cosa viene ora, libro dopo libro. Non mi volto mai indietro, a guardare cosa ho fatto. Sarà accaduto una volta o due negli ultimi 40 anni.
Il fumetto italiano, nel periodo fra gli anni ’60 e ’70, ha vissuto una vera e propria epoca d’avanguardia, in cui lo studio del mezzo stesso e del vezzo, la rivendicazione della propria importanza, erano stati propulsivi.
Questo fenomeno, se da un lato ha avuto in sé la grande forza di plasmare autori consapevoli, che riuscivano ad innovare non limitandosi solo all’autoriflessione, ma attraverso le storie (penso a Munoz, ma anche allo stesso gruppo Valvoline e a molti altri), dall’altro ha causato un vero e proprio scollamento con un certo tipo di narrazione tradizionale.
Di qui probabilmente il declino di alcune riviste, una sorta di disaffezione del pubblico che ha provocato un vero buco e la scomparsa di molti classici.
Questa cosa della disaffezione dei lettori è falsa, quegli stessi lettori che ci leggevano ai tempi delle riviste oggi ci seguono, e i loro figli e i loro nipoti, nei libri che pubblico oggi.
Le cose hanno un principio e una fine, tutto qui, fa parte della vita.
La stagione delle riviste contenitore era cominciata ai primi anni Sessanta ed è terminata 25 anni più tardi, come l’impero dei giornali che oggi sta sfiorendo, perché le nuove tecnologie hanno portato a una ridefinizione dei codici e degli strumenti.
Oggi io leggo i quotidiani sul tablet, un tempo andavo all’edicola e ne comperavo 5 al giorno.
Nei nostri giorni il libro ha assunto un’importanza che solo pochi anni fa era inimmaginabile.
Nella stagione degli anni Settanta/ottanta si pubblicavano pochissimi libri a fumetti, e dei Maestri Celebrati (Pratt e Crepax, poco altro). La cultura era un club chiuso ai più, oggi anche un nuovo autore può raccontare a lungo respiro, provarci, sbagliare, farsi le ossa.
Voglio dire, era un stagione meravigliosa con i suoi pregi e difetti.
Io amo la stagione che stiamo vivendo, che è un’epoca di grandi esplorazioni e grandi disponibilità da parte dei lettori, lettori curiosi che consentono a un libro come i quaderni giapponesi (un documentario, un saggio, un libro di viaggio, un oggetto difficilmente classificabile, insomma) di essere venduto a decine di migliaia di copie.
Oggi qualcosa sta cambiando e, con un pizzico di ottimismo, potremmo dire che il fumetto italiano ha vissuto un periodo di necessaria distruzione, per poi ripartire, purificato come l’araba fenice.
Il fumetto italiano a mio modesto modo di vedere non si è mai distrutto. Le avanguardie lo hanno smontato e poi rimontato. Ma anche in quella fase si andava fortissimo. Le riviste vendevano decine di migliaia di copie.
Oggi il mercato italiano, stando ai dati dell’AIE è il quarto mercato del mondo. Quello che serve sono le nuove punte, i nuovi assi del racconto. I nuovi Munoz e Sampayo, i nuovi Pazienza, i nuovi Pratt. Che con gli anni arriveranno, credo.
C’è nell’aria un ritorno al gusto e alla gioia consapevole di certa narrazione a fumetti popolare e da edicola e una riproposta di molti grandi classici, come anche Oblomov sta facendo.
Il rapporto con i classici è utile se ci si vuole rinnovare perché quello che oggi ci appare come “classico”, al momento della sua nascità spesso fu dirompente e innovatore. La sintesi di Pratt spiazzava, la narrazione dodecafonica di Crepax era assai ardita, come pure i suoi meravigliosi montaggi che hanno anticipato Chris Ware di decenni.
Breccia e Munoz hanno aperto all’astrazione, all’espressionismo. Una cosa mai vista prima nel fumetto.
Abbiamo visto apprezzamenti da parte sua per un autore giovane come Lorenzo Palloni, che ha già sviluppato una narrazione ben solida. Forse l’impressione è che, sebbene vi sia un vasto talento visionario fra i nuovi autori, la guida di una grande scrittura sia ancora cosa rara o trascurata.
Far crescere un buon narratore è una questione di tempo. Tutto qui. Ci vuole, tempo, caparbia e pazienza. E un buon editor.
A quale patrimonio ci dovremmo riferire per parlare a nuovi giovani lettori con un fumetto popolare di qualità, che sempre più sembra essere snobbato dallo status symbol della graphic novel? In che direzione dovrebbe evolvere il fumetto popolare per renderlo nuovamente protagonista?
Alla fantasia. È ora di smettere di pensare che il fumetto popolare debba essere il ruminare di codici già ampiamente conosciuti. Le serie televisive di oggi non sono più Beautiful, Dinasty o Dallas.
Oggi si guarda the Americans, Game of thrones, Breaking bad, Godless, Narcos. Sono filoni narrativi complessi che si sviluppano in modo originale, spesso NON realistico. (il che pare il CANONE del fumetto popolare, cosa per me ridicola, basti pensare a lavoro di Magnus e Bunker che tutto era tranne che realistico).
Non dimentichiamo che la tradizione narrativa dell’Ottocento vantava tra gli autori popolari di feuilleton nomi come Victor Hugo, Alexandre Dumas, Charles Dickens, Honoré de Balzac. Cioè autori della Storia della letteratura. Che non si accontentavano certo di ripetere cliché abusati.
Quali fumetti legge per puro diletto, al di là del lavoro?
Io non lavoro, gioco. Leggo e frequento le cose che amo. Non c’è differenza tra le cose che leggo per lavoro e quelle per passione. Fare l’autore è un privilegio. A volte molto faticoso, ma non scherziamo, è davvero un “lavoro” meraviglioso.
Cosa si aspetta di trovare da lettore in un’opera, cosa riesce a sorprenderla, cosa la annoia?
Mi annoia leggere storie che so già come si svilupperanno. È ora di uscire dal contesto provinciale nel quale molto fumetto nostrano langue. Come lettore non mi piace essere trattato da babbeo. Pensare che per fare un personaggio popolare devo ispirarmi al volto di un attore è un concetto degli anni Cinquanta, lo trovo francamente ridicolo. Mi sorprende leggere le storie di autori che osano. Una volta a Montpellier, nell’assitere a un reading del mio amico Ben Katchor mi sono ritrovato a ridere e piangere insieme. Allora ho capito che era un amico geniale, quello con cui passavo delle ore a Parigi e New York.
Ringraziamo sentitamente Igor Tuveri per aver preso parte a questo dialogo costruttivo.
Intervista svolta via mail il 14 dicembre 2017