Il peso delle parole nel fumetto

Il peso delle parole nel fumetto

Ospitiamo l'intervento del critico fumettistico Giuseppe Pollicelli che prosegue la riflessione sul rapporto tra fumetto e realtà, stavolta ragionando della relazione tra "immagine" e "parola" in "Storia di Cani" di Giuseppe Ferrandino e Giancarlo Caracuzzo, recentemente ripubblicato da Editoriale Cosmo.

Questo testo è la trascrizione, rivista per l’occasione dall’autore, della diciottesima puntata della videorubrica Sono solo nuvolette, curata da Giuseppe Pollicelli per conto di Scuola Internazionale di Comics; la puntata è stata pubblicata il 30 maggio 2018 sia sul canale YouTube della Scuola sia sulla pagina Facebook della sua sede di Roma.


In un mio precedente intervento, anch’esso ospitato su Lo Spazio Bianco, che prendeva le mosse dal graphic novel Salvezza (Ed. Feltrinelli) di Marco Rizzo e Lelio Bonaccorso ho esposto la mia convinzione che, per caratteristiche sue proprie, il fumetto non sia nelle condizioni, a differenza di altre forme di espressione come la letteratura o il cinema, di perseguire il realismo.

Esiste tuttavia un’opera che, a mio avviso, ha saputo battere l’unica strada dal fumetto percorribile per conseguire esiti almeno parzialmente soddisfacenti qualora voglia operare una mimesi del reale. L’opera in questione, apparsa per la prima volta a puntate nel 1993 sulla rivista Nero della Granata Press e attualmente disponibile in due versioni, una più lussuosa e una più economica, nel catalogo dell’Editoriale Cosmo, è Storia di cani di Giuseppe Ferrandino e Giancarlo Caracuzzo.

Quando Storia di cani è uscita, la locuzione “graphic novel”, benché già esistente, non si era ancora diffusa, ma oggi possiamo a buon diritto definire così il fumetto di Ferrandino e Caracuzzo. E si tratta di un graphic novel fortemente anticipatore: per esempio delle tematiche di Gomorra (romanzo, film, serie), narrando una vicenda ambientata a Napoli che vede protagonisti piccoli delinquenti legati però a realtà più grandi che rimandano alla criminalità organizzata, specificamente alla camorra. E nella scrittura (il che va a tutto merito di Ferrandino) Storia di cani anticipa, col suo riuscito mix tra parlato e battute che aspirano ad assumere il valore di sentenze, lo stile di Quentin Tarantino (i cui film basano sulla scrittura molta della loro forza) nonché, in qualche misura, di un altro regista cinematografico che con la pura scrittura ha a sua volta una notevole dimestichezza (è infatti un narratore di talento): Paolo Sorrentino.

Benissimo servito dai disegni di Caracuzzo, che qui si inserisce in modo esemplare nel fondamentale filone – contraddistinto da una sobrietà e un’essenzialità estremamente funzionali a ciò che si racconta – che possiamo chiamare del “realismo stilizzato” (quello che parte da Caniff e prosegue con Robbins, Toth, Kubert ma anche con tanti italiani, da Pratt a Battaglia passando per De Luca, Giovannini, Alessandrini, Torti), Ferrandino concepisce un noir d’azione colmo di violenza in cui a risultare davvero nuova per il fumetto italiano (e non solo) è, giustappunto, la scrittura. Non nel senso della dinamicità “cinematografica” con cui, attraverso sapienti cambi di inquadratura, sono state costruite molte scene (fattore pregevole ma non di particolare originalità), bensì nel senso dei dialoghi.

L’operazione clamorosa e geniale compiuta da Ferrandino con Storia di cani (ed è davvero desolante constatare quanto poco questo lavoro sia stato finora compreso e apprezzato) è consistita nel riprendere ritmo e sintassi del napoletano – non il vocabolario, solo pochi lemmi del quale compaiono sporadicamente in Storia di cani – così facendo in modo che tutto il racconto, per chi lo legga, “suoni” credibilmente (cioè realisticamente) parlato nel dialetto partenopeo. Grazie a questo espediente senza precedenti, e purtroppo senza seguito, Ferrandino è riuscito, nella maniera migliore che io abbia sinora riscontrato in un fumetto, a risultare rispettoso del vero, aderente al reale.


È il caso poi di rimarcare come la centralità, l’incidenza e la straordinarietà dei dialoghi – dunque della parola scritta – in Storia di cani smentiscano la tesi a più riprese sostenuta dallo studioso del fumetto Boris Battaglia in saggi come Corto. Sulle rotte del disincanto prattiano (Ed. Armillaria, 2017) ed E chiamale, se vuoi, graphic novel (Ed. Comicout, 2018), vale a dire che il fumetto – che per Battaglia non è neppure un linguaggio ma una “simmetria contingente” – non si legga mai, bensì si guardi e basta. Nulla più di Storia di cani smonta una simile asserzione. Se Storia di cani riesce ad avvicinare in modo tanto notevole il fumetto alla sfera del realismo lo fa difatti, pur ribadendo la bontà dell’operato di Caracuzzo, esclusivamente in virtù della parola scritta.

I dialoghi di Ferrandino fanno tutta la differenza del mondo e Storia di cani sarebbe stata completamente un’altra opera qualora i suoi dialoghi fossero stati scritti altrimenti: un’opera la cui capacità di avvicinarsi alla realtà e di riprodurla sarebbe stata infinitamente più bassa. Senza dialoghi di quel tipo ancora una volta, e fatalmente, si sarebbe scivolati nell’artificiosità e nel didascalismo.

Il fumetto non è solo immagine: è anche testo, è anche parola e ciò che con esso si fa – a meno di non riferirsi all’eccezione rappresentata dai fumetti “muti” – non è solo guardarlo, ma anche leggerlo. Ed è proprio lo sforzo di sintesi tra il guardare e il leggere che il fumetto richiede al suo fruitore a costituire uno degli elementi fondanti (forse il più importante in assoluto) di questa forma espressiva.

Clicca per commentare

Rispondi

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *