La seduzione degli innocenti (1954) di Frederic Wertham è uno di più celebri libri contro il fumetto, nato nel contesto di una più generale “caccia alle streghe” contro i comics nel clima dell’America maccartista del periodo; una cornice di cui si è parlato in modo ampio qui.
Per questa ragione ci è sembrato utile proporre quest’analisi più dettagliata di un testo molto citato ma spesso poco conosciuto nei dettagli.
Tutti i capitoli sono aperti da citazioni letterarie “alte”, spesso piuttosto gratuite, usate da Wertham chiaramente per nobilitare il proprio discorso con un facile espediente: curiosamente, una sua accusa ricorrente contro i fumetti.
Nel capitolo introduttivo, Wertham entra subito nel vivo con un “caso da manuale” ad effetto, un giovane delinquente giunto in riformatorio e da lui studiato, avido lettore di fumetti. Wertham parla ai colleghi inesperti: cresciuti negli anni ’20, gli operatori psicologici degli anni ’40 pensano ai comic book come quelli della loro infanzia, raccolte di strip domenicali, relativamente innocue, nel contenuto.
Sulla scorta di quest’esperienza, Wertham decide di avviare uno studio sistematico dei fumetti, che porta alle sue note, negative conclusioni: il fumetto è profondamente violento e perverso.
“As our work went on we established the basic ingredients of the most numerous and widely read comic books: violence; sadism and cruelty; the superman philosophy, an offshoot of Nietzsche’s superman who said, <<When you go to women, don’t forget the whip>>.”1
L’idea che il superomismo di Fredric Nietzche possa essere in continuità stringente col sadismo è evidentemente una lettura molto superficiale; per Wertham è invece un leitmotiv centrale. Cerca di farne anche uno slogan poi poco ripreso per l’evidente ingenuità: “How did Nietzsche get into the nursery?”.2
1- I fumetti: dannosi emotivamente, dannosi cognitivamente
Il primo capitolo presenta così l’argomento centrale del lavoro di Wertham, i “Children Crime Comics”, termine allitterante e velenoso3 che egli estende indebitamente in modo vastissimo.
Wertham affronta subito la prima obiezione: “Crime Does Not Pay”, il crimine non paga, i fumetti sono violenti ma legalitari. In effetti, citando proprio la testata CRIME does not pay, Wertham ha buon gioco a mettere in evidenza come CRIME sia a caratteri cubitali, la punizione dello stesso una nota minore.
Non è “solo azione”, è violenza, argomenta Wertham: l’azione sequenziale è rapida nei comics, tranne quando ci si sofferma sulla violenza, che viene rappresentata quasi “al rallentatore”. Né si salva la pseudo-nobilitazione culturale dei Classic Illustrated: Wertham esamina il caso del Macbeth di Shakespeare, che nella trasposizione a fumetti diventa una pura storia di orrore e raccapriccio.
Wertham cita alcuni predecessori nella critica al fumetto, John Mason Brown, che contesta con disgusto tale appropriazione dei classici, e Sterling North, che annota similmente come sia singolare che un libro scandaloso di diecimila copie sia un caso letterario, e pericolosi fumetti da mezzo milione di copie vengano ignorati.
Wertham pone quindi una definizione molto vasta di “Children Crime Comics”: basta che vi sia un qualsiasi elemento di violenza, se non di azione. Con statistiche falsate da questa sua valutazione, egli parla di diciannove Crime Comics dal 1937 al 1947, con un boom nel 1958 con 107 nuove testate.
In verità, la metà sono western, che però per lui coincidono col crime comic tout court. Ci sono così un totale di ottanta milioni di copie vendute al mese, passando dal 10 per cento del mercato a oltre il 50 per cento. Ma, come detto, per Wertham “The vast majority, if not all Western comic books are crime comic books. Jungle, horror and interplanetary comics are also crime comics of a special kind.”4
In parallelo, Wertham ricorre a un altro paralogismo nelle sue argomentazioni, lasciando intendere che il pubblico di tali fumetti sia principalmente composto di “little seven year old boy(s)”, senza porre distinguo tra ciò che potrebbe essere tollerabile per un adolescente ma non per un bambino dei primi anni delle elementari. Anche i fumetti sentimentali, esplosi nel 1949 per cercare di catturare il pubblico femminile, sono avvicinati in qualche modo ai crime comics, tramite il loro diseducativo messaggio sentimentale: la passione giustifica ogni tipo di eccesso.
Nel secondo capitolo Wertham descrive i suoi metodi di indagine, ma anche qui prevale la scelta di un’anedottica e di una retorica di basso livello. Ad esempio, Si consideri questo esordio: se trovo un bambino impiccato, e accanto a lui c’è un fumetto aperto su una scena di impiccagione, l’influenza è evidente.
Wertham fa inoltre un uso sistematico e strumentale del metodo delle associazioni libere: fornisce al paziente sequenze di parole da completare o spunti da sviluppare in storie. Il punto delicato di questo metodo è il rischio, particolarmente alto nel caso di bambini, di influenzare il paziente, cioè di indirizzare la sua risposta: per diminuire il rischio serve e una preparazione specifica e ben calibrata dei test, che Wertham sembra trascurare.
Si passa quindi al fulcro dell’opera, l’influsso dei crime comics sui bambini: l’autore continua a snocciolare eventi sensazionalistici, senza nessun rimando, nemmeno cronachistico. La scusa è che, riferendo casi che ha studiato come psicologo infantile, egli è tenuto al segreto professionale, rendendo però la sua testimonianza non verificabile.
Nel capitolo “Retooling for illiteracy” analizza come il fumetto ridisegni la mente infantile per l’analfabetismo. Wertham si impegna qui a smontare la tesi della lettura dei comics come propedeutica alla lettura tout court. Egli argomenta invece che la struttura del fumetto vada a scardinare la struttura mentale necessaria a leggere un testo più impegnativo, facendo sì che il lettore compulsivo di fumetti abbia più difficoltà, ad approcciare un testo solo scritto.
2 – L’ossessione per i “children crime comics”: la ripetitiva parte centrale.
Dopo questi due capitoli Wertham ritorna, ripetitivamente, a trattare episodi criminali compiuti da ragazzi. Non ci sono statistiche perché, dice Wertham, “sono difficili da ottenere”; ma comunque egli sostiene che un arrestato su otto, nel 1948 (data di picco dei crime comics), sarebbe un minorenne. Wertham non stabilisce un trend d’aumento fondato su statistiche, ma lo lascia intendere.
Il capitolo successivo ancora, “I want to be a sex maniac”, similmente, tratta della devianza più esplicitamente sessuale. I fumetti per Wertham tendono a diffondere soprattutto l’ossessione per il sadismo: i supereroi in particolare, con le loro muscolature avvolte dal latex, diffonderebbero ossessioni sadomaso omosessuali, soprattutto Batman e Robin.
Nel “Daring Duo”5 Robin è presentato come “boy friend” di Batman, e il suo nome è “Dick” Grayson. La loro comune casa è ricca di fiori, il maggiordomo Alfred è spesso mostrato in grembiule e femminilizzato. Le donne sono tutte negative, come Catwoman, che desidera Batman ma non può competere con Robin. Simmetricamente, Wonder Woman è chiaramente saffica, e quindi “per i ragazzi è terrorizzante“.
Ovviamente, non mancano stimoli verso ogni tipo di perversione, ad esempio verso i tacchi a spillo, che d’altra parte sono in realtà una fissazione della moda anni ’50, ripresa dal fumetto. Anche i Love Comics rivolti alle ragazze, come detto, offrono una visione distorta della sessualità come una passione a cui non si può resistere.
3 – I nemici da distruggere, gli alleati da trovare: la TV e i media tradizionali.
Trattando delle pubblicità dei fumetti, Wertham argomenta che queste sviluppano l’idea di una carenza nel soggetto, fornendogli poi una compensazione tramite il prodotto. Dare una merendina ai tuoi figli ti rende una buona madre, indossare una cravatta ti rende un uomo vincente, e così via.
Per Wertham, le pubblicità sui fumetti giocano in particolare sulle insicurezze degli adolescenti, offrendo loro prodotti che li illudano di diventare popolari presso i coetanei.
Wertham passa quindi ad esaminare il parere degli “esperti della difesa”, in una serie di capitoli che si distinguono per particolare scorrettezza dialettica, francamente squalificante per un saggio. Wertham, per confutare le tesi dei difensori del fumetto, dichiara infatti che esse sono così omologhe che le confuterà in blocco, senza nominare alcun suo singolo avversario. Ciò, ovviamente, toglie ancora una volta ogni possibilità di verifica sulla veridicità delle affermazioni che egli estrapola dai difensori della tesi avversa, e attribuisce a tutti le ipotetiche fallacie di uno.
Il capitolo si collega inoltre a quello successivo sugli editori di fumetti – identificati con l’Upas Tree, la pianta più velenosa al mondo – e a quello sull’analisi critica neutrale, definita “gli alleati del diavolo”. Wertham attacca, soprattutto, i Classici Illustrati come strumento di nobilitazione del fumetto e di giustificazione della violenza, specialmente quando essi usano i grandi autori, come William Shakespeare.
L’altra motivazione dei produttori è quella che giustifica la violenza nei fumetti come escapismo: quindi previene il crimine, facendo sfogare gli istinti del lettore. Si tratta in effetti di un tema psicologicamente dibattuto, e non solo per il fumetto. Wertham sceglie ovviamente la tesi opposta: la visione della violenza rende assuefatti e quindi diviene più facile vederla come normale.
Questa sequela di tre capitoli è è spezzata da uno, “Murder in Dawson Creek”, che parte da un titolo puramente cronachistico e scandalistico, l’ennesimo caso di omicidio attribuito ai fumetto. Appare plausibile una necessità retorica, ovvero di instillare di nuovo nel lettore una connessione stretta omicidio-fumetto, a scapito della logica della trattazione, tanto più che qui Wertham si occupa poi dei vari casi legati al fumetto fuori dell’America.
Si parla anche del caso italiano, citando – in modo errato, non so se per disonestà o ignoranza – L’Osservatore Romano come importante giornale italiano con posizioni molto critiche sul fumetto, senza spiegare che si tratta del quotidiano della Santa Sede, caratterizzato da posizioni pedagogiche molto specifiche.
Un capitolo dedicato alla TV valorizza invece questo nuovo medium come più educativo, meno innaturale del fumetto nella percezione e sottoposto a un maggior controllo censorio. Interessante il fatto che, per Wertham, una prova evidente della dignità degli altri mass-media – cinema, televisione e teatro – è l’esistenza di una critica riconosciuta sui giornali, assente per il fumetto. Per Wertham il fumetto non offre alcuna spunto per una analisi critica, poiché troppo grezzo.
La TV deve guardarsi però dalle contaminazioni dal fumetto, in primis Superman, adattato a cartoni e telefilm, e portatore per Wertham di un superomismo nicciano. Appare evidente il timore di Wertham di non scegliersi un nemico troppo forte: se una certa autorevolezza gli permette di poter “sfidare il fumetto”, facendosi bello di una battaglia che presenta titanica, appare evidente il timore nel mettersi contro la carta stampata nel suo insieme o la potentissima, nascente televisione.
Conclusioni
Con il ritorno al tema dei fumetti sadico-nazisti, carissimo a Wertham, si giunge all’ultimo capitolo, dedicato al futuro del fumetto, “Il trionfo del dottor Payne”. Il dottor Payne del titolo è il classico mad doctor sadico che Wertham ha trovato in un fumetto: Payne è un probabile gioco di parole su “pain” chiaramente ricalcato su Hyde. Come al solito, Wertham attribuisce al fumetto la creazione di un archetipo che il fumetto riprende, stabilendo che il fumetto, dopo aver introdotto l’orrore, va spostandolo sulle “professioni rispettabili”. L’artista, il poliziotto, il politico sono tutti mostrati nel loro lato oscuro: addirittura si instilla il sospetto che lo stato americano possa creare armi batteriologiche, testandole sui cittadini, diffondendo una diffidenza complottistica contro ogni autorità.
Qualsiasi storico stiate seguendo, non potete non concordare che una società che avvelena i propri figli volge verso il declino, sostiene Wertham, citando alla rinfusa una miscela di vari pensatori, da un economista come Engels – troppo pericoloso citare direttamente Marx – al filosofo idealista italiano Benedetto Croce.
Con toni melodrammatici, Wertham chiede una legge censoria per i ragazzi sotto i quindici anni. Nel finale, la retorica accelera: quello che sta avvenendo è un sacrificio di infanti come quello di Cartagine, o il lavoro minorile nell’Ottocento. “L’idea che la democrazia debba dare le stesse possibilità espressive al Bene e al Male” è per Wertham l’errore di fondo da estirpare; ovviamente, senza porsi il dubbio avviato da Giovenale nelle sue satire: “Qui custodiet custodes?”6 e ripreso da Alan Moore in Watchmen.
Insomma, l’opera di Wertham appare frammentaria, anedottica e intrisa di paralogismi, orientata al sensazionalismo e poco interessata alla comprensione del problema, squalificando persino le considerazioni che potrebbero avere un loro circoscritto interesse. Resta comunque un’ottima testimonianza di un periodo, quello della caccia alle streghe del maccartismo, che estese le sue striscianti persecuzioni anche al fumetto, con ossessioni censorie verso le quali è meglio essere vigilanti, e che potrebbero sempre tornare.
Man mano che il nostro lavoro procedeva, abbiamo scoperto gli ingredienti base della maggior parte dei fumetti e di quelli più letti: violenza, sadismo e crudeltà; la filosofia del superuomo, una derivazione del superuomo di Nietzche, che disse: ” Quando hai a che fare con una donna, non dimenticarti la frusta”. ↩
Come ha fatto Nietzche ad entrare nella nursery? ↩
“fumetti criminali per bambini” ↩
La gran parte, se non tutti i fumetti western sono crime comics. Fumetti horror, di fantascienza e ambientati nella giungla sono anch’essi crime comics di un tipo particolare. ↩
in nota: il “duo audace”, con possibile doppio senso ↩
“Chi controlla i controllori?” Chi decide, cioé, Bene e Male? ↩