“Cos’é un ricordo? Qualcosa che hai o qualcosa che hai perso per sempre?”
Si apre così, con questa frase di Woody Allen, il libro della tedesca Line Hoven, suo primo lavoro ad essere pubblicato nel 2008 e vincitore, nello stesso anno, del premio ICOM come miglior fumetto indipendente al XIII Internationalen Comic-Salon di Erlangen.
Sono proprio i ricordi dell’autrice, infatti, che si dipanano lungo le pagine nere del volume, come foto di famiglia ingiallite ritrovate in soffitta e incollate su di un vecchio album, del quale il libro riprende anche l’orientamento orizzontale. La Hoven, figlia di un tedesco e di un’americana, comincia a raccogliere e ordinare i frammenti del suo passato fin dalla seconda guerra mondiale: da una parte, i nonni paterni si conoscono in un campo estivo della gioventù hitleriana (momento significativamente rappresentato come una foto mancante dall’album), mentre dall’altra il nonno materno tenta di arruolarsi nell’esercito statunitense con orgogliosi sentimenti anti-nazisti, solo per essere poi scartato per motivi di salute. La storia e le vite dei protagonisti, quindi, proseguono e si intrecciano, lasciando su uno sfondo lontano gli avvenimenti storici e passando alla generazione dei genitori di Line, che troviamo bambini dopo la fine della guerra e seguiamo poi fino al loro matrimonio e oltre, sempre oppressi dall’ombra lunga dei loro retaggi, dalla diffidenza delle famiglie e dalle difficoltà linguistiche. Interessante sottolineare la riuscita intuizione grafica con cui è stato realizzato lo stacco generazionale (e narrativo) nonni-genitori: una doppia pagina, completamente nera a sinistra e con la scansione della ricevuta di acquisto di una lavatrice automatica a destra, come a voler simbolizzare un cambiamento d’epoca e di prospettiva, quando non anche una sorta di bisogno di lavare la coscienza collettiva.
Tutto il libro, del resto, è concepito in questo modo, fissando cioé sulla carta momenti ed immagini apparentemente poco significativi ma che invece rivelano, ad una più attenta analisi, gli aspetti più intimi e nascosti dei protagonisti. I dialoghi rarefatti, uniti ad uno stile grafico estremamente semplificato e poco espressivo, che spesso mette in evidenza gli oggetti e gli ambienti, sembrano voler lasciare più spazio al pensiero e alla rielaborazione, piuttosto che a quelle emozioni confuse che spesso accompagnano i ricordi. L’autrice, infatti, pare volersi concentrare soprattutto sui silenzi e sugli spazi vuoti, allontanandosi un poco dalle tecniche narrative tradizionali del fumetto per esplorare territori che forse sono più familiari al cinema e alla fotografia.
Sebbene perfettamente funzionale al progetto, il segno della Hoven, che ricorda un po’ la Giandelli e deve molto alla Feuchtenberger (sua insegnante) e a Thomas Ott (di cui riprende la tecnica ad incisione dello “scratchboard”), risulta forse l’elemento più debole di tutto il lavoro, poiché appare ancora un po’ acerbo e con qualche incertezza di troppo nelle prospettive e nelle proporzioni.
Infelice l’adattamento della Coconino, che rinuncia al bilinguismo originale (i dialoghi dei personaggi americani erano in inglese) a favore di un appiattimento monocolore in cui le differenze di lingua e di cultura dovrebbero essere rese dalla sola, impercettibile variazione del carattere tipografico.
Riferimenti:
Coconino Press: http://coconinopress.com/mainebase.htm
Il blog dell’autrice: http://www.linehoven.de