Indice
- Prima parte: struttura e protagonista
- Seconda parte – i comprimari
- Terza parte – disegni e futuro
Nella prima parte di questo approfondimento, abbiamo cercato di conoscere a fondo il protagonista della serie scritta da Gianfranco Manfredi. In questa seconda parte parliamo degli altri personaggi.
Una nutrita galleria, quella dei comprimari di questa serie. Possiamo dividerli in due gruppi, alleati e antagonisti, per quanto il confine fra le due formazioni tenda a rivelarsi piuttoso labile.
Gli alleati
Il conte Narciso
Narciso Molfetta è il primo ad apparire: siamo portati a pensare che sia un “gancio” per il lettore, che rappresenti in sostanza il nostro sguardo calato nel contesto esotico, e sia, quindi, il principale contraltare empatico di Adam.
Ma il conte è più complesso di così: anzitutto è una spalla realistica, sulla falsariga di Poe di Magico Vento o di Kit Carson di Tex.
Non solo. Manfredi sottolinea un suo caratteristico conflitto: Narciso è un aristocratico che fugge dalla noia, e in esso coesistono una prima interfaccia distaccata rispetto alle esperienze della vita e la acuta voglia di buttarcisi a corpo morto. Questa doppia faccia si esplica bene quando si passa all’azione: Narciso è al contempo zavorra per le imprese più audaci e prima linea quando hanno luogo. La stessa cosa si può dire per i rapporti umani: se non fa che borbottare circa la scarsa considerazione che gli altri, soprattutto Adam, hanno per lui, non mette d’altro canto mai in discussione il suo legame con il gruppo.
È proprio questa tensione fra elitarismo e avvicinamento a caratterizzare il conte Molfetta in senso comico: tutte le scene di ingaggio per i “casi” da risolvere includono una contrattazione che vede Narciso valutare male la realtà circostante, e qualcuno, tipicamente Adam, riportarlo, bruscamente, a miti consigli. È uno schema figlio delle necessità procedurali della serie, che come tale ha il difetto di riproporsi senza modifiche.
Se Adam Wild fosse un procedurale puro, probabilmente la riproposizione non stonerebbe: siamo abituati da decenni all’atavica fame di Cico, o ai borbottii di Kit Carson, e sarebbe difficile pensare un numero di Zagor o di Tex senza questi alleggerimenti. La continuity ben presente nella testata di Manfredi, però, introduce una necessità di crescita, nei rapporti e nei personaggi, che per il conte appare al contempo frenata (perché invariabilmente ripete il suo “numero”) o troppo accelerata (perché percepiamo un avvicinamento fra l’esploratore scozzese e l’italiano, ma la dinamica procede a salti, senza permetterci di percepire davvero passaggi intermedi nascosti, persi nella reiterazione della formula).
Insomma: Narciso è un buon contenitore, ma per il primo anno si riempie sempre con gli stessi ingredienti, risultando spesso stucchevole, o peggio, dando l’impressione di non essere necessario.
La principessa Amina
La principessa Amina rappresenta, invece, il personaggio forse più centrato degli alleati.
Ne “Gli schiavi di Zanzibar” la troviamo in catene, e da subito veniamo a conoscenza della sua tragedia. La tribù e gli affetti sterminati, le radici sradicate. Amina ha l’orgoglio di una nobildonna, ed è questo il suo problema: la prima interfaccia che offre è aggressiva, e si risolve in una serie di dialoghi in cui oppone agli interlocutori (Adam in primis) uno status altissimo e inattaccabile.
Con il passare dei volumi, però, si fa sempre più strada l’amore per lo scozzese, e Manfredi gioca bene con questo spiraglio per far crescere il personaggio e non mantenerlo troppo arroccato sulla propria individualità. La ricerca dell’altro e l’incertezza derivante dalla perdita del proprio contesto sono il sottotesto attraverso cui apprezziamo la sua aggressività. Arriviamo anche a provare tenerezza per questa guerriera, quando la vediamo impacchettata in un abito occidentale, pronta ad attraversare il mare e a camminare sui tacchi in una terra lontana per amore del suo uomo.
Amina, in sostanza, è un personaggio che parte con l’essere volontariamente anti empatico, ma lavora sulla propria tragedia personale per assumere colore e complessità.
Sam e Makibu
Sam e Makibu sono un coro che segue i personaggi principali e sottolinea alcuni momenti delle loro avventure.
Sebbene la loro caratterizzazione parta bene, nel primo numero, dandoci un’impressione di tridimensionalità in pochi tratti, Manfredi preferisce mantenerli a un livello superficiale, evitando di scavare davvero.
Per il mite Makibu il conflitto interno è una vendetta da compiere, quindi una tensione verso un comportamento lontano dalla sua indole. Durante il primo anno di viaggio per l’Africa, nonostante qualche suo timido tentativo di acquisire un’aggressività non propria, non assistiamo a una dinamica personale che ce lo restituisca cambiato. Potremmo pensare che la scelta per lui sia di operare col tempo, e restituirlo maturato a poco a poco, dopo molte avventure. Stona però in tal senso che Manfredi voglia proporci da subito l’opportunità principale di catarsi del personaggio, nell’episodio “Il signore delle iene”. E soprattutto è un peccato che anche in questo momento cruciale il ragazzo si attenga al suo usuale ruolo di contorno, lasciando ad Adam la risoluzione del problema.
Makibu rimane, quindi, un bell’abbozzo, ma un’opportunità sprecata.
Il caso di Sam è simile: se all’inizio lo percepiamo come un ulteriore occhio esterno alle vicende, che mescola curiosità (la nostra) verso l’Africa a una sua spinta interna (il recupero di origini che sente proprie), non c’è attenzione da parte del narratore alla sua figura. Rimane sullo sfondo, pronto a far da sponda alle dinamiche dei protagonisti.
Makibu e Sam, al pari del conte Molfetta, mostrano, ognuno a modo suo, un grado di mancato adattamento al contesto che potrebbe portare, a seconda delle necessità del racconto, a una spinta drammatica o comica. La scarsa attenzione concessa a entrambi smorza però effetti forti sia in un senso che nell’altro, portando a sequenze che, semplicemente, hanno poco mordente (perché l’interesse nella storia è altrove) o appaiono forzate (perché poco sorrette da una costruzione precedente).
Londo
Londo, infine, è esemplare per una gestione analoga di comprimari autoctoni che si aggregano al gruppo: parte come alleato, anzi, come guardia del corpo di Amina, e trova il suo esito catartico e rivelatore in “Fuori dal paradiso”.
Lasciato sullo sfondo, relegato a poche battute scarne, non ci prepara a quello che succede nel volume che lo vede tramutarsi in antagonista, col risultato di privare la sua figura della potenza che sarebbe stata necessaria ad apprezzarne il comportamento. Senza una dovuta costruzione drammaturgica, il crudele voltafaccia di Londo appare privato di tutta l’importanza che avrebbe invece reso l’episodio un punto nodale della prima stagione. Tant’è che nemmeno Amina, che dovrebbe essere colpita da quanto accade, mostra ripercussioni di alcun tipo.
Una costruzione poco incisiva si avverte anche negli altri incontri occasionali per il gruppo: Ashon e Diallo, Pokomo, Baraka, e gli altri africani, Dhaki, Muzaffar e gli altri arabi. In tutti i casi, le figure, calate nello schema degli episodi, trovano a fatica lo spazio per diventare personaggi a tutto tondo, limitandosi a comparse che paiono funzionali alla narrazione, ma poco arricchenti.
Il problema di Londo e degli altri incontri occasionali è una sovrabbondanza di suggestioni: come se Manfredi avesse troppo da raccontare, limitando di fatto le singole comparse a contributi risibili, che impediscono loro di crescere davvero. Interessante notare come a rendere meno pesanti i personaggi concorra un innegabile vantaggio dello stile di Manfredi, ovvero il fatto che il suo modo di raccontare sia raramente didascalico e i dialoghi preferiscano uno stile secco e diretto. Non si perde tempo, ma di conseguenza non si dà, spesso, il tempo agli eventi di sedimentare.
Da questo punto di vista spicca come contro esempio Fhal ne l’”Incubo della giraffa”, forse l’episodio più centrato del primo anno. L’aiutante del cacciatore Herbert attraversa in maniera interessante il range che va da alleato a sospetto antagonista, fino alla risoluzione e disvelamento finale. E questo grazie a una storia che è più asciutta delle altre: si concentra su un obiettivo specifico e su un numero limitato di personaggi.
Gli antagonisti
Se passiamo al secondo schieramento, quello degli antagonisti ricorrenti, il gruppo si riduce a due individualità: l’americano Frankie Frost e l’inglese Lady Gertrude Winter.
Frankie Frost
Se Wild è un nomen omen per il protagonista della serie, non dissimile è la sorte che tocca al cacciatore americano: un uomo glaciale, che affronta la realtà in cui è calato con il massimo distacco, che tratta gli indigeni alla stregua di animali o strumenti di cui disfarsi al minimo accenno di malfunzionamento. Si potrebbe definirlo un Adam Wild privato dei suoi ideali, con il risultato di rendere la figura estrema, troppo cristallizzata su un modello bidimensionale e a senso unico. Senza alcuno spiraglio o conflitto, o crepa su cui lavorare per farlo crescere.
Anche qui, come per Adam, la mancanza di spiegazioni porta alle illazioni sulla genesi del personaggio. La prima ipotesi è che Frost sia una necessaria “ombra” di Adam, il suo gemello opposto, il nemico nato per dare una sfida coerente con il personaggio: si inserisce, insomma, nella più classica definizione di antagonista e appare, quindi un corollario del vincolo di classicità sotto cui appare nata la serie. Ovvio che non basti una necessità di simmetria narrativa a definire un personaggio valido.
Viene di conseguenza in mente una seconda ipotesi: che Frost identifichi, con le sue azioni, un’esemplificazione dell’”approccio straniero” all’Africa: l’atteggiamento da dominatori che molti occidentali hanno assunto nei confronti di una terra vissuta come scenario di caccia e di conquista.
Non osserviamo una simile deriva solo nell’americano, ma praticamente in tutti gli europei che popolano la serie, e che mostrano personalità estremizzate, come se, sulla falsariga degli spietati capi villaggio che Adam incontra, avessero abbandonato le normali sovrastrutture che regolano i rapporti umani.
È un modello questo a cui non sfuggono né Narciso, né Lady Winter, e nemmeno Dufour e Lecoq ne “La terza luna” o, in parte, Patterson in “Giovani Leoni”, senza contare il portabandiera del gruppo, lo stesso Adam. Se anche si vuole dare per buona questa seconda ipotesi, non è tuttavia sufficiente a giustificare la bidimensionalità di Frost, che rimane uno dei personaggi meno convincenti della serie finora.
Lady Gertrude Winter
Discorso diverso per Lady Gertrude Winter.
La nobildonna parte apparentemente male: nelle prime apparizioni sembra una copia in femminile di Frost, tanto per il nome, quanto per affinità elettive. Anche lei sembra porsi al di sopra del contesto africano, anche nel suo caso i rapporti umani hanno un’importanza secondaria e la sua volontà pare una legge inderogabile.
Con un’unica e fondamentale differenza rispetto all’americano: il rapporto con Adam Wild, con cui ha avuto una relazione in passato.
Tanto basta per garantire al personaggio una mobilità ben diversa: in “Giovani leoni” Manfredi gioca bene sull’amore passato (di cui permane uno strascico), e ci serve due dialoghi (e un sogno) che rispettano le spigolosità di Gertrude ed Adam, ma al contempo evidenziano, per la donna, ma di riflesso anche per Adam, una benvenutissima componente umana.
Tirando le somme sui comprimari
A convincere, in questo primo anno di pubblicazione, sono quindi soprattutto l’alleata principale e la principale antagonista, perché riescono a rispettare gli elementi cardine della serie (l’estremizzazione dei personaggi, la minimizzazione dei tempi di scelta) ma al contempo danno un certo spazio per l’introspezione, per la verticalità, e aiutano lo stesso Adam ad apparirci meno monolitico di quanto sembri.
Gli altri comprimari e quasi tutte le comparse rimangono in un limbo che deriva da una combinazione di scelte: il protagonista poco “umano”, la struttura procedurale con la necessaria riproposizione di uno schema, la quantità di carne al fuoco che finisce con il pregiudicare un sufficiente dettaglio per il singolo, la narrazione non didascalica che, paradossalmente, pur apprezzabile, priva di un ulteriore strumento di sedimentazione per le tematiche.
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- Prima parte: struttura e protagonista
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