The Walking Dead non mette in scena una semplice apocalisse zombie, ma un vero e proprio dramma umano, di cui gli zombie costituiscono solo un contorno, uno sfondo annebbiato dal predominio del vero fulcro dell’azione: l’uomo.
Al di là dell’elemento surreale, la narrazione è sfruttata dall’autore per scavare nelle viscere dei comportamenti umani, scoprirne i nervi e descriverne le estreme conseguenze in caso di situazioni limite: un disastro ambientale, un naufragio, una guerra o persino un’apocalisse zombie, non importa il pretesto; quest’opera è stata scritta per rispondere alla domanda: cosa farebbero gli uomini in caso di difficoltà, in una situazione in cui il benessere che conosciamo non esiste più, e in cui persino una scatoletta di carne potrebbe permettere di sopravvivere per un attimo in più?
In The Walking Dead gli zombie non sono che gli spettatori impotenti.
Proprio come noi che a casa stiamo seduti su una poltrona a scorrere con gli occhi le vignette e i balloons uno dopo l’altro senza poter interferire, così gli zombie si ammassano immobili dall’altro lato di un recinto a osservare il teatro di ciò che avviene “all’interno”, che esso sia una prigione, una piccola comunità o un’abitazione; quasi fossero due mondi separati, quello del ritmo scandito dalla vita dei protagonisti con il dipanarsi della trama, e il vuoto osservare dei non-morti.
Mantenere costantemente viva l’attenzione e la curiosità, ecco uno dei mantra che Robert Kirkman ripete a se stesso: l’autore
utilizza in continuazione colpi di scena clamorosi che lasciano scosso il lettore.
Tuttavia a dimostrazione di quanto detto sopra, le svolte narrative della trama che spesso si susseguono vorticosamente, non sono provocate da sortite da parte dei vaganti, ma più spesso causate dai personaggi vivi della storia, con i loro colpi di testa, litigi, sospetti, manie, egoismi e brame di potere, che causano più perdite di intere orde di non-morti.
È interessante osservare come Kirkman, all’interno della catastrofe, proponga un relativismo di vedute degli eventi narrati: ognuno di noi si figurerebbe un’apocalisse come un incubo, eppure la storia dimostra come persino un evento tragico possa rappresentare distruzione per alcuni e benedizione per altri.
Un cataclisma può costituire situazione di comodo per quelle persone, quegli ultimi fra gli ultimi, che Will Eisner denominava con enfasi “Gente invisibile”: coloro che in una situazione di normalità vengono ignorati dall’intero consorzio umano e conducono una vita insignificante, che la malattia della società ha portato a vivere in una condizione incolmabilmente distante da quella della comune vita urbana media.
Nel corso del fumetto si osservano infatti famiglie distrutte, ma anche condannati all’ergastolo che, proprio per mezzo di questa apocalisse, riottengono la loro libertà perduta per sempre.
Un luogo così odioso come una prigione si trasforma nell’unico luogo sicuro dove stabilirsi.
I protagonisti lottano per ottenere un posto in questa prigione che costituiva prima luogo simbolo di degrado e repellenza, una sorta di magazzino dove l’umanità ammucchia i suoi scarti come in una vecchia cantina contenente tutti quegli oggetti di cui “non ha bisogno” ma di cui non può sbarazzarsi; e poi un’oasi sicura, con i suoi recinti e le sue fortificazioni, difesa con le unghie e con i denti: un luogo quasi idilliaco in cui ricostruire una copia malriuscita della routine quotidiana.
Risulta facile trasferire questa immagine allegorica sul piano dell’esistenza, lo zombie rappresenta nulla più che l’emblema di un male comune, un pretesto che avrebbe potuto essere incarnato e/o sostituito da un normale dramma quotidiano.
Quello che si legge diviene ben presto realtà: e allora gli zombie esistono nella realtà, sono le difficoltà che accomunano tutti, sono il frutto del compromesso del vivere sociale e dell’alienazione degli ultimi.
È così che si giunge alla conclusione che ogni uomo, pur restando all’interno di un gruppo sociale o una famiglia, si trova in realtà solo con se stesso nella lotta per la sopravvivenza.
Il messaggio che l’autore comunica è che sono i sentimenti e le scelte a fare l’uomo e a renderlo differente dalle bestie; ma che l’uomo risulta altresì schiavo delle sue affezioni, ed esse nulla sarebbero senza il controllo posto da regole certe e confortanti di cui essere piacevolmente servi, e in assenza delle quali sarebbe impossibile ridurre a unità la molteplicità, raggiungere la sintesi a seguito della tesi e dell’antitesi.
Solo, di fronte al mondo e al comportamento imprevedibile degli altri suoi simili, l’uomo si perde nella costante ricerca di una regola e di un leader, di qualcuno che nel bene e nel male sappia compiere delle scelte, democratiche e non, sensate o insensate, giuste o ingiuste, che ispirino sicurezza e garantiscano un’illusione di stabilità indirizzando l’agire del gruppo.
Il singolo si trova ad affrontare una battaglia per la sopravvivenza che premia la sola crescita individuale stroncando i solidarismi: un bellum omnium contra omnes.