Il fumetto del nord-Europa ha una tradizione forse poco conosciuta ma interessante e continuativa, con autori e autrici che vanno dalla leggendaria Tove Jansson fino a Jason e Liv Strömquist, che sono conosciuti e molto apprezzati a livello internazionale. Il paese più dinamico di quest’area è senza dubbio la Svezia, che negli ultimi decenni ha presentato sulla scena mondiale, in fasi discontinue, fumettisti e fumettiste di un certo rilievo.
Non deve stupire quindi che nel corso del 2023 siano usciti in Italia tre fumetti svedesi molto peculiari e interessanti, a cui tra l’altro il Treviso Comic Book Festival ha dedicato una mostra. SPA di Erik Svetoft (Saldapress), Baby Blue di Bim Eriksson e Goblin Girl di Moa Romanova (entrambi Add Editore, che già aveva portato in Italia Disfacimento, la folgorante opera prima della svedese Linnea Sterte), pur partendo da presupposti diversi e sviluppandosi con stili e narrazioni diversi, tracciano un percorso che li fa incontrare, intrecciare e dialogare, trovando punti in comune che raccontano non solo la società svedese contemporanea, le sue inquietudini e paure, ma anche la società occidentale tutta.
Partendo da un’analisi delle singole storie, proveremo qui a seguirne le tracce e unire i punti in comune per raccontare il nuovo fumetto svedese.
Goblin Girl: i dolori di una giovane donna, oggi
Tra desiderio di una relazione stabile e esperienze disastrose su Tinder, la ricerca di stabilità economica attraverso la propria arte e attacchi di panico, tra sedute (piuttosto inutili) dallo psicoterapeuta e serate di sfogo e divertimento con gli amici, Moa Romanova racconta le sue esperienze personali attraverso la protagonista di Goblin Girl, opera di debutto che è valsa all’autrice nientemeno che il premio Eisner come Best U.S. Edition of International Material nel 2021. Le vicende della “ragazza goblin” sono narrate con un misto di dramma e ironia che permettono di entrare nel suo quotidiano così peculiare e al tempo stesso così famigliare, per lo meno per chi è cresciuto dagli anni ’90 in poi.
Romanova rappresenta il suo mondo e quello dei suoi amici, le loro fragilità e la loro ricerca di una identità in maniera diretta, concreta, ma al tempo stesso trasognata e mediata da un filtro a tratti fantastico, a tratti lisergico, che mescola continuamente le carte in tavola. La protagonista, con le sue fattezze del volto leggermente ispirate a un personaggio fantasy, incarna perfettamente l’incertezza di tutta una generazione che è alla ricerca di una immagine in cui potersi finalmente specchiare. Attraverso di lei, Romanova riesce ad affrontare vari temi, in primis la cura di sè stessi e della propria salute mentale, trattando in maniera eccellente, con tatto ma anche con praticità, il tema della depressione, ma anche il rapporto con la celebrità, quello con la tecnologia e quello di genere.
Sebbene alcune di queste tematiche siano ormai ampiamente trattate nel fumetto occidentale (e qui forse Goblin Girl paga il fatto di essere pubblicata in Italia dopo autorə come Tommi Parrish e Lee Lai, sebbene sia arrivata sulla scena internazionale in loro contemporanea), Moa Romanova trova una propria chiave di lettura per rileggerle, soprattutto attraverso un disegno essenziale, che definisce con poche linee i personaggi e con grande precisione il mondo che li circonda.
Al di là di alcuni passaggi appesantiti da dialoghi troppo retorici, in cui si espongono a parole alcuni dei temi dell’opera, l’artista riesce a costruire la propria storia soprattutto attraverso un attento incedere narrativo, supportato da una griglia ordinata che crea molti spazi per indugiare sui volti (spesso poco naturali e molto fantasy) della protagonista e dei suoi amici, sulle loro espressioni e sui loro sentimenti, ma anche sui loro corpi non aggraziati, spesso con teste piccole che si appoggiano su masse troppo grandi e che trasmettono un senso di disagio, quasi di claustrofobia all’interno delle vignette.
Ad aumentare il senso di stratificazione della storia e delle contraddizioni insite nella vita dei personaggi, Romanova alterna momenti di assoluta poesia grafica (la potente rappresentazione degli attacchi d’ansia e della depressione, oppure il finale dolceamaro che lascia la protagonista a metà tra piccoli cambiamenti e un senso di ineluttabile immobilità) con scene calate in un quotidiano spirito punk e underground, arricchendole di un immaginario pop che fa uso di pochi, selezionati colori le cui tonalità riportano agli anni ’80 e i primi ’90 fino a riprendere in maniera consapevole l’iconografia dei meme dall’era dei social internet (impossibile non vederli in tante espressioni della protagonista).
Un fumetto che pur sembrando una autobiografia, è capace di parlare in maniera diretta, comprensibile, tenera e anche ironica dei dubbi e dei problemi di un’intera generazione.
Baby Blue contro la dittatura della felicità
Molto vicino a Goblin Girl per tematiche, ma non per sviluppo, Baby Blue è opera della giovanissima Bim Eriksson. In un mondo in cui le emozioni, soprattutto quelle negative e troppo vistose, devono essere tenute sotto controllo, pena il ricondizionamento forzato, una giornata storta può portare a un ricovero in un istituto psichiatrico. É quello che succede a Betty Pott, che proprio dopo una crisi emotiva in pubblico viene portata alla sua prima sessione di flebo di stabilizzatore emozionale. Ma proprio in questa sessione conosce Berina, che le fa scoprire un mondo completamente nuovo, quello della resistenza.
In questo thriller a bassa tensione tutto al femminile dalle atmosfere distopiche che uniscono Fahrenheit 451 a Arancia Meccanica (con le maschere) e Matrix, Eriksson costruisce un mondo che si sovrappone al nostro e che le permette di costruire una critica a quel capitalismo che vorrebbe incasellare ogni persona in una posizione ben definita e che pretenderebbe la felicità, mettendo al bando ogni debolezza. Per far questo, la narrazione thriller e action viene fatta avanzare per scatti e poi cristallizzata, per favorire l’interazione tra la protagonista e vari altri personaggi, con risultati alterni. In alcuni momenti, infatti, l’autrice si fa prendere la mano dal messaggio che vuole lasciar passare, appesantendo i dialoghi e facendoli diventare dei momenti di pura retorica; d’altra parte, la relazione tra Betty e Berina, il personaggio più affascinante del racconto per via delle sue contraddizioni, si evolve in maniera naturale e realistica, costruendo un rapporto tridimensionale e credibile che rafforza i singoli personaggi,e che parallelamente porta avanti una riflessione sulle fragilità dell’individuo nella società contemporanea, ma anche sui modi con cui può superarle.
Più che la storia, il punto forte del fumetto sono i disegni e l’impostazione narrativa: la classica gabbia a sei, con poche deroghe, costruisce ritmo narrativo che non lascia scampo alla storia e contribuisce al senso di straniamento dato dai disegni e dalle inquadrature. Lo stile di Eriksson, con i suoi bianchi e neri netti, con il suo tratto sicuro e pulito, dettagliato ed essenziale, crea momenti di grande e sottile inquietudine, grazie alla definizione di espressioni che vengono veicolate da occhi bianchi e vuoti che sembrano guardare dentro e attraverso il lettore. La geometria spigolosa dei volti, spesso teste piccole messe su corpi voluminosi e squadrati – simile ai lavori di Tommi Parrish e Lee Lai – e le inquadrature frontali, in scene spesso silenziose, trasmettono efficacemente il turbamento della distopia emotiva.
Un mondo distopico a cui Eriksson infonde un fascino tutto particolare, definito da un pastiche di estetiche che vanno da quelle dall’exploitation movie tutto al femminile al fetish sadomaso, da Qualcuno volò sul nido del cuculo a Grindhouse. Un fumetto non privo di difetti, ma con uno stile narrativo già ben definito e dotato di buona personalità.
La SPA degli orrori è lo specchio del capitalismo
Se la critica alla società del consumo e dello sfruttamento in Goblin Girl e Baby Blue sono più dirette e meno mediate da uno sguardo metaforico, nonostante le ambientazioni in mondi che attingo a elementi di fantasia o spiccatamente distopici, in SPA Erik Svetoft sceglie di popolare il suo mondo di creature mostruose che non si annidano solo nell’ombra dei meandri di un albergo-spa di fama internazionale, ma emergono improvvisamente in mezzo agli ospiti e ai dipendenti. Nell’indifferenza con cui questi accolgono questi abomini terrificanti, che si concretizza nella differenza stridente tra la rappresentazione dettagliata dei mostri e quella sintetica, fatta di pochi semplici tratti e da una sostanziale uniformità di espressioni e delle presenze umane, sta tutto il cortocircuito dell’opera di Svetoft, che costruisce un horror d’atmosfera che è in realtà un romanzo satirico corale del nostro mondo.
Nella storia si intrecciano le vite di due persone che per sfuggire al mondo esterno, ormai attanagliato da una rovina post-apocalittica, si concedono una vacanza, quelle di un gruppo di colleghi di lavoro che non si sopportano tra loro, quella di un ricco ed esigente ospiti e di un cuoco che lavora sotto la pressione dell’eccellenza a tutti i costi; e poi ancora un massaggiatore che viene escluso e deriso da ogni collega, un giovane dipendente alle prime armi che viene subito vessato, punito e denigrato pubblicamente dal direttore della spa, un uomo fragile e segnato da un’infanzia di abusi del padre (ex-direttore mai andato in pensione) che ne ha minato l’autostima e lo ha per questo spinto a cercare un’eccellenza sterile sul posto di lavoro, la sua assistente che lo venera credendolo un uomo forte, e infine due “funzionari” che riscuotono tangenti con ogni mezzo a loro disposizione.
L’umanità che affolla questa terrificante spa diventa per Svetoft un modellino in scala della società capitalista, con la sua smania performativa, la ricerca di una brillante apparenza che copra debolezze e marciume, la legge del più debole sul più forte, dei mostri che hanno la meglio, del denaro che domina i mostri. L’autore non usa sottigliezze nè nei dialoghi, tanto concreti nel contenuto quanto surreali per il contesto in cui sono pronunciati, nè soprattutto nei disegni. É l’arte di Svetoft infatti a elevare questo racconto a qualcosa di più, nella tradizione dei migliori horror da La notte dei morti viventi in poi, trasformando la realtà in qualcosa di spaventoso, ma che in qualche modo riusciamo ancora a riconoscere. L’uso sapiente di bianchi e di neri, che attinge a piene mani dal fumetto nipponico, crea un’atmosfera lugubre e asfissiante con poche scelte tanto semplici quanto efficaci: l’ambientazione del luogo chiuso pieno di stanzette e corridoi tipiche di una spa creano zone d’ombra dalle quali far spuntare volti orribili e arti disarticolati, mentre l’uso del nero pece per rappresentare l’acqua delle vasche crea fin da subito un’idea di sporco, come un denso petrolio che si attacca alla pelle per non staccarsi più. La perdita di acqua che invade e insozza i locali della spa, con ospiti che se ne lamentano senza convinzione e dipendenti che cercano invano di mettere freno, mentre mostri di ogni tipo (tra cui un carosello di maiali deformi) vengono liberati, suona come una metafora lampante: non si può restare puliti all’interno di un sistema come questo, e non si possono mettere pezze per coprire le sue magagne.
Oltre alla gestione di bianchi e neri, Svetoft guarda a oriente anche nei disegni e nel tratto: come dicevamo prima, l’incontro tra creature mostruose rese con un tratteggio e un livello di dettaglio degni di Junji Ito (a volte inserite nel racconto come illustrazioni un po’ manieristiche, ma sempre disturbanti) e le figure umane che sembrano uscite da un gekiga, con i loro volti resi con poche linee, crea un contrasto visivo e concettuale di grande impatto, che esalta la sensazione di angoscia e di puro orrore. Alla fine del racconto, dopo aver visto il peggio dell’umanità all’opera, nel disperato tentativo di salvarsi e di salvaguardare un sistema impossibile da sostenere, Svetoft sembra dirci che forse le creature che si nascondono nell’ombra non sono ciò di cui avere paura: forse basta guardarsi nello specchio per vedere, in un volto dall’espressione imbelle e indifferente, il vero riflesso della vera mostruosità.
Tutti i colori della Svezia: tra similitudini e differenze
Come spiegato in queste analisi, SPA, Goblin Girl e Baby Blue non potrebbero essere tre opere più diverse, per impostazione, stile narrativo e disegno. É interessante però vedere come tutti e tre i fumetti abbiano un terreno comune, quello della critica alla società contemporanea e alle sue storture, che raccontano in maniera personale e complementare. Tra i tre si potrebbe tracciare un ideale percorso che, partendo da una rappresentazione più aderente alla realtà (in Goblin Girl) si trasforma via via in una distopia (Baby Blue) per poi diventare un vero e proprio horror (SPA), in cui il soprannaturale si mischia a ciò che conosciamo.
Il peso delle aspettative e dell’incasellamento in un ingranaggio che stritola l’individualità è un punto centrale nelle tre opere: in Goblin Girl la protagonista è colpita da attacchi d’ansia e il suo confronto con un uomo di successo crea cortocircuiti e meccanismi di colpevolizzazione; la stessa sensazione di essere fuori posto la prova Betty, indotta dalla società a non provare più nessuna emozione negativa, ma a essere felice nel posto che le spetta nonostante il peso che la schiaccia; lo stesso peso è quello che assedia il direttore della Spa, che a sua volta lo riversa sul proprio dipendente, portandolo di fatto a una follia che lo fa sprofondare nei meandri più reconditi della struttura, prima di farlo diventare capofila dell’ondata di sudiciume che tutto travolge.
Tra le tre opere, Goblin Girl e Baby Blue hanno più caratteristiche in comune: in entrambe la protagonista è una donna, entrambe sono ambientate in un ambiente giovanile fatto di serate di balli, droga e dell’ansia esistenziale, entrambe hanno un’estetica underground e uno stile assimilabile, quello che rappresenta corpi non belli e inarrivabili, ma reali e imperfetti, a volte esagerandone le proporzioni. Al tempo stesso, le espressioni vuote, da bambole rotte, dei personaggi di Baby Blue richiamano l’assenza di emozioni (o meglio, della loro esternazione) dei personaggi di SPA.
In tutti e tre i fumetti, poi, il bianco e nero è modello di elezione per la rappresentazione grafica, con varie modulazioni che vanno dalle poche, precise linee nere immerse in un bianco che domina il disegno di Baby Blue (una scelta che rispecchia anche una certa speranza con cui il racconto si chiude) ai neri che schiacciano il bianco di SPA. Infine, gli elementi di fantasia grottesca, siano essi mostri orripilanti, maschere da animali o immaginazioni a occhi aperti, nascono tutti da un certo immaginario folklorico e fantasy tipicamente mitteleuropeo (benchè declinato con sensibilità molto diverse) e vanno a interloquire con la realtà per metterne ancora più in evidenza gli aspetti più assurdi e tossici, per scavare nel disagio di una società che vive in un modello di cui non controlla più le derive patologiche.
Erik Svetoft, Moa Romanova, Bim Eriksson: tre autor* che mostano quanto il fumetto svedese e, più in generale, scandinavo, abbia un potenziale da esplorare per trovare prospettive molteplici con cui osservare la realtà ma anche con cui interpretare questo medium. E visto che al Treviso Comic Book Festival hanno riportato al centro il fumetto svedese a dieci anni dall’ultima mostra a tema, non resta che chiederci dove saranno nei prossimi dieci anni. E dove si muoverà questo particolare, spesso assurdo ma lucidissimo, fumetto nordeuropeo.
Abbiamo parlato di:
Goblin Girl
Moa Romanova
Traduzione di Alessandro Storti
add editore, 2023
184 pagine, brossurato, colore – 22,00 €
ISBN: 9788867834082
Baby Blue
Bim Eriksson
Traduzione di Alessandro Storti
add editor, 2023
264 pagine, brossurato, colore – 25,00 €
ISBN: 9788867834006
SPA
Erik Svetoft
Traduzione di Anders Frasson
Saldapress, 2023
326 pagine, cartonato, bianco e nero – 29,90 €
ISBN: 9791254611937
SPA: il resort infernale di Erik Svetoft