Giappone, anni Ottanta: Adachi Mitsuru è uno degli autori più popolari nel fumetto indirizzato all’adolescenza (scuole medie e superiori). Suoi sono titoli come Touch (Tatchi, 1981-1986), Miyuki (1980-1984) e Rough (Rafu, 1987-1989), che uniscono ambientazione scolastica, impegno sportivo dei personaggi e i loro intrecci sentimentali. Apparentemente nulla di diverso dai manga per ragazzi del decennio precedente, ma in realtà molte cose sono cambiate. Tra gli anni Sessanta e Settanta il fumetto giapponese proponeva una drammaticità esasperata, dove la quotidianità dei giovani era trasfigurata in imprese epiche, dove si poteva anche (letteralmente) morire di sport, e la boxe di Rocky Joe (Ashita no Jō, 1968-1973) è solo un esempio, neanche tanto eccessivo. I disegni sono rudi, composti da tratti decisi, scarni.
Adachi privilegia invece una linea morbida, tondeggiante, stesa sopra fondali puliti e curati. Poi ci sono le atmosfere: anche i momenti più tesi e cupi Adachi li illustra con equilibrio, li stempera in un umorismo rasserenante e distaccato. I toni non vanno mai sopra le righe, alla disperazione si preferisce la delicatezza. Qualcosa, pero’, resta immutato, anche se riproposto con formule nuove.
Primeggiare nello sport è ancora fondamentale, per i personaggi di Adachi e, soprattutto, tutto è retto da una grande fiducia nel gruppo scolastico. I fumetti di Adachi sono una celebrazione, a volte ironica, ma sempre sincera, degli anni dell’adolescenza comune, vista quasi sempre dal punto di vista maschile, una celebrazione del cameratismo tra ragazzi, intimistica e priva di troppe turbe.
1. UN BEL GIOCO DURA POCO
Fuori dalle pagine dei fumetti le cose sembrano andare diversamente. Nel 1986 il tredicenne Shikagawa Hirofumi si suicida tramite impiccagione, lasciando un messaggio: “Non voglio morire, ma la mia vita è un inferno“. In poche settimane tutto il Giappone scopre una parola fino ad allora riservata ai circoli dei sociologi: ijime. Hirofumi si è suicidato perché vittima dell’ijime: letteralmente, “persecuzione”, “tormento”. Non servono molte righe per descrivere il fenomeno: nella classe scolastica uno studente viene preso di mira da un gruppo più o meno ampio, che comincia a trattarlo come un essere umano di serie B. Si va da azioni apparentemente leggere: prendere in giro, obbligare a fare delle commissioni, tenere ai margini della classe; ad altre ben più pesanti: distruzione del materiale scolastico, pestaggi (a volte prossimi alla tortura), estorsioni di denaro, minacce di omicidio, e così via. Il resto della classe guarda in silenzio. I professori ignorano o sottovalutano quel che avviene; a volte partecipano, in modo più o meno diretto. è il caso di Hirofumi: dopo la sua morte tre insegnanti, complici dell’ijime, vengono licenziati. Lo Stato avvia una serie di indagini in tutte le scuole giapponesi, per capire quanto sia ampio il fenomeno, e come combatterlo. I suicidi dovuti all’ijime vengono finalmente riconosciuti come tali (prima erano attribuiti a cause generiche), e non sono pochi: almeno una decina l’anno, lungo tutti i gradi scolastici (dalle superiori giù sino alle elementari). L’ijime diventa la grande questione giovanile degli anni Ottanta, un morbo infame che infetta il Giappone, da sradicare a tutti costi.
Le contromisure istituzionali sono molto severe, e sino all’inizio degli anni Novanta gli esiti sembrano positivi: si registrano sempre meno casi di ijime. La battaglia è forse vinta? Nel 1994 il tredicenne Ōkōchi Kiyoteru si suicida tramite impiccagione. Un solo caso, troppo simile a quello di otto anni prima, che riporta a zero il dibattito: tutto da rifare. La violenza subita da Kiyoteru non è poca: in due anni di ijime i suoi persecutori hanno estorto a Kiyoteru, una piccola somma alla volta, più di un milione di yen (ottomila euro al cambio attuale); pochi giorni prima del suicidio l’avevano quasi annegato nel fiume, perché non aveva con sé il denaro richiesto. Kiyoteru, insomma, era diventato lo schiavetto della classe, chiunque poteva fargli quel che voleva, nessuno l’avrebbe mai difeso. La scuola si difende alle accuse dei genitori: non ci eravamo accorti di nulla. I persecutori espongono le loro motivazioni: ci sembrava divertente. Il Ministero dell’Istruzione ammette: “pensavamo l’ijime stesse scomparendo, ci siamo sbagliati, siamo stati troppo ottimisti, i nostri dati non erano accurati“. Sociologici, psicologici, politici, giornalisti ed esperti ricominciano la discussione.
Ognuno ha da dire la sua sull’ijime, in venti e passa anni ci si è accapigliati per trovarne la causa, si è tirato in ballo un po’ tutto. Troppo individualismo, o troppo poco; famiglie troppo rigide, o troppo permissive; i giovani non sanno più provare emozioni, o ne sono saturati. Sul banco degli accusati finiscono anche televisione, videogiochi, e anime e manga, in quanto, si sotiene, eccitano i più piccoli con modelli violenti o, in alternativa, ne risucchiano le emozioni, li trasformano in mostri insensibili. Già, i manga: si deve attendere a lungo perché i fumetti giapponesi comincino a parlare di ijime, almeno sino agli anni novanta, perché lo facciano con una certa frequenza. Un periodo in cui ormai l’ijime è stato quasi metabolizzato dalla società giapponese, quasi accettato come inevitabile, e, soprattutto, rinchiuso in una serie di stereotipi spesso poco realistici. C’é da chiedersi se i manga siano più o meno affidabili delle liste di cifre fornite nei documenti ufficiali, delle scuole e del ministero giapponesi. Sicuramente vale la pena darci un’occhiata.
2. DOPPIO LEGAME
Per chi non l’ha letto, Mars di Sōryō Fuyumi (1996-2000, pubblicato in Italia tra il 2000 e il 2003) segue la crescita del complesso e delicato rapporto sentimentale tra la timida Asō Kira e Kashino Rei, ragazzo anticonformista e problematico, lei con la passione della pittura, lui che vive per il motociclismo. Due caratteri distanti ma vicini e una relazione che è quasi una corsa a ostacoli contro una serie di difficoltà, sino alla fine del fumetto. La sfida che compare alla fine del quinto volume si chiama Kirishima Makio: ragazzo all’apparenza fragile e indifeso, con una capacità di manipolare gli altri impensabile e spietata. Kirishima è stato vittima dell’ijime. Così raconta egli stesso: “Avevo un amico, fin dalle elementari, ma poi è diventato un vero e proprio teppista. Io ero ai suoi ordini. Mi faceva paura e se lo contraddicevo, s’infuriava” (VI volume, pag. 111). Poche parole per capire che il legame tra i due, tra la vittima (Kirishima) e il persecutore (Aoki Yūji) è tutt’altro che semplice. Poi viene spiegato che Aoki inizialmente difendeva Kirishima dall’ijime di altri bambini, finché non causo’ accidentalmente la morte di uno di questi. Da allora in poi, sconvolto dal senso di colpa, Aoki cominciò a sfogarsi proprio su Kirishima. Da parte sua Kirishima mostra un rapporto ambiguo verso il suo tiranno, ne parla come se, per certi versi, non potesse fare a meno di un legame basato sulla violenza.
In Mars Kirishima è il frutto malato dell’ijime: giunto alla superiori, il ragazzo è stato svuotato di tutte le possibili emozioni nei confronti degli altri, riesce a concepire i rapporti umani unicamente secondo una logica di dominio e possesso, di chi comanda e chi è comandato. Kirishima è cresciuto schiacciato dall’altrui forza fisica e, essendone privo, ora adopera tortuosi inganni psicologici per manipolare gli altri, trascinandoli perversamente nel suo mondo di disperazione. Il suo persecutore, Aoki Yūji, non fa una fine migliore. Giunto a sedici anni, viene definito “uno sbandato senza speranza”, “specializzato in ricatti, violenze” che “faceva anche uso di droghe” (VI volume, pag. 89). Qui pero’ Mars cade in uno schematismo un po’ stereotipato. è molto facile, infatti, e anche un po’ moralista, immaginare che i figli della violenza finiscano inevitabilmente fuori strada, che si brucino prima del tempo. Emblematica l’entrata in scena di Aoki Yūji e il suo gruppetto di tirapiedi: li vediamo ai tempi delle medie, con la divisa scolastica in disordine, i capelli lunghi, l’orecchino, lo sguardo spavaldo (IV volume, p. 49). Insomma, dei mezzi teppisti, delinquenti in erba, fuori dalle regole, già indirizzati alla propria stessa rovina.
Peccato che in realtà le cose siano molto meno semplici, e meno rassicuranti. L’ijime non è sempre opera dei ragazzi ribelli e violenti, quelli guardati con paura dagli insegnanti e timore dai compagni di classe. Molto spesso è opera dell’intero gruppo, di studenti sin troppo normali, né troppo deboli né troppo forti, sedotti dalla forza che ottengono unendosi contro il più debole, sostenuti dalla rete di complicità di chi guarda in silenzio senza far nulla, o facendo finta di non vedere. Non si tratta di due o tre persone che spadroneggiano nel gruppo; piuttosto, è una sorta di guerra di tutti contro uno, dove l’intera classe, in modo attivo o passivo, finisce per supportare l’ijime contro la vittima designata, perché in questo modo si spera di non diventare a propria volta la vittima. Una dimensione collettiva che in Mars non troviamo.
3. DISCESA ALL’INFERNO
Ma è davvero possibile immaginare che siano i ragazzi più normali, proprio quelli che studiano e si divertono senza stravaganze, che siano loro a diventare i “volenterosi carnefici” dell’ijime? Questo è il punto di vista di Vitamin (Bitamin, 2001), fumetto di Suenobu Keiko, pubblicato in Italia nel luglio 2005. Vitamin è non Mars. Mars è costruito con grande abilità, la complessità della sua narrazione e lo scavo psicologico sono spesso ammirevoli; Vitamin, da parte sua, è molto meno raffinato, spesso un po’ grezzo e ingenuo, nel disegno e ancor più nella sceneggiatura. Ma non è un problema: Vitamin vuole e deve essere diretto, privo di troppe sofisticazioni, perché dietro una copertina accattivante c’é una storia di ijime messa in scena senza mezzi termini.
Yarimizu Sawako, III media (che in Giappone significa quindici anni d’età), ragazza normale, voti non troppo alti, e una relazione con un coetaneo della stessa scuola; ma già qui c’é qualcosa che non funziona, perché il ragazzo (che gli insegnanti apprezzano: “un bravo studente”), spesso la usa come oggetto sessuale, senza troppo pensare al parere di lei. Finché i due non vengono scoperti, in un momento poco opportuno, e per di più in un’aula deserta, da un compagno di classe di lei, che prontamente rivela il fattaccio agli altri studenti. Sawako viene bollata come “puttana”, e così ha inizio l’ijime. In prima linea, a perseguitarla, quattro compagne di classe; molte altre si accodano, c’é chi la compatisce ma intanto si volta per non vedere, e i maschi osservano divertiti con battutine stupide. Il ragazzo di Sawako capisce al volo dove tira il vento, e la molla all’istante, tra l’altro accusandola falsamente di averlo tradito.
Le compagne di classe marchiano Sawako come “puttana”, ma il loro è un atteggiamento ambiguo: da una parte invidiano Sawako, anche loro vorrebbero il ragazzo, fare esperienze (senza nemmeno sapere che Sawako, certe esperienze, non le viveva nemmeno bene); dall’altra le danno contro perché diversa da loro, perché non conforme, perché fuori dalle regole, quelle dell’ambiente scolastico e quelle non scritte del gruppo. Si può forse avere qualche dubbio sulla scelta di far partire da qui l’ijime, sospettando magari che le scene di sesso di Sawako e il suo ragazzo l’autrice le abbia usate anche per mostrare qualcosa di forte al lettore sin dalle prime tavole. Molto spesso, difatti, l’ijime parte invece da fatti insignificanti: diventa vittima chi non è in grado di reagire e di imporsi, e i motivi delle persecuzioni sono solamente puri pretesti.
Ma il percorso che Sawako affronta da qui in poi, è quello tipico della vittima dell’ijime, un’escalation, un circolo vizioso in cui la violenza aumenta mentre la capacità di contrattaccare diminuisce sempre più, sino all’annullamento. Non c’é via d’uscita, cercare il sostegno degli insegnanti rischia solo di fare peggiorare la situazione: “Gli altri penseranno che ho fatto la spia. E a quel punto… mi tratteranno ancora peggio!” E quando Sawako si trova costretta ad ammettere a un professore la sua situazione, ecco la risposta: “Di questi tempi si fa un gran parlare di maltrattamenti [ijime] a scuola… ma sappi che in passato ciò era normale. Anch’io sono stato perseguitato dai miei compagni. Forse la colpa è anche tua che ci dai troppa importanza. I giovani d’oggi non hanno carattere. Diventa più forte.” Discorsi ben noti in Giappone, le tipiche risposte di tanti esperti, psicologi, sociologi, tuttologi di fronte all’ijime: la modernità ha rammollito i giovani, sono viziati e capricciosi, non sanno più sopportare le minime sofferenze, chiamano ijime anche i più piccoli scherzi dei compagni; e, in ogni caso, la dura legge del gruppo serve a forgiare il carattere, a insegnare come si vive in società.