La Sardegna narrata da Otto Gabos

La Sardegna narrata da Otto Gabos

Otto Gabos ha incontrato i suoi lettori in un giro di appuntamenti in terra sarda, suo luogo di origine scelto come ambientazione del suo ultimo romanzo

Sabato 24 ottobre 2015, presso i locali della Libreria Koinè di Sassari, si è svolto un incontro con Otto Gabos.  L’evento rientrava nelle iniziative promosse da Entula, il festival diffuso di Liberos in collaborazione con il circuito delle librerie indipendenti di Sassari.

Otto Gabos, al secolo Mario Rivelli, è sardo, essendo nato a Cagliari nel 1962, e proprio in Sardegna è ambientato il suo ultimo romanzo, L’illusione della terraferma, uscito per Rizzoli Lizard.
La storia si svolge durante il periodo fascista nella terra sarda mineraria e proletaria sud occidentale.
Protagonista è il commissario Ettore Marmo, spedito per punizione a Carbonia, nel Sulcis. Marmo si annoia e detesta il mare, tanto che per illudersi di stare sulla terraferma, spesso va a contemplare dal molo la vicina isola di San Pietro, mentre il questurino Mallus ne approfitta per raccogliere qualche patella. Ed è proprio lì, tra gli scogli, che il ritrovamento di un cadavere senza testa dà inizio a un’indagine rocambolesca che costringe il protagonista a scoprire gli anfratti più oscuri di quella terra e dei suoi abitanti.

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Da sinistra: Emiliano Longobardi – moderatore dell’incontro – e Otto Gabos

Gabos ha fatto tappa a Sassari chiudendo una serie di appuntamenti con i lettori avvenuti in vari luoghi dell’isola dove ha presentato il suo libro. A moderare l’incontro era Emiliano Longobardi, libraio e sceneggiatore di fumetti che subito ha chiesto all’autore da dove e come è nato L’illusione della terraferma:

“Questo libro è un po’ il mio attraversamento di un passato storico che mi attrae particolarmente, quello del Ventennio fascista e della Seconda Guerra Mondiale.
In casa un po’ tutti, a cominciare dai nonni, raccontavano di quel periodo, dei bombardamenti, degli sfondamenti, dei tedeschi, dell’odore del sangue e delle privazioni: per me bambino era una cosa al contempo terrificante e affascinante.
A questo si era l’aggiunta la visione di uno sceneggiato televisivo sul Diario di Anna Frank, che mi aveva colpito profondamente. Tant’è che per l’esame di maturità avevo anche scritto – seppur non richiesta – una tesina su fascismo e mass media.
Fra i tanti posti in cui avrei potuto ambientare la storia, ho scelto quello più ovvio, cioè la mia Sardegna e in particolare il Sulcis, questo per via di mia madre, maestra elementare che per tanti anni ha lavorato nelle scuole sulcitane, per poi insegnare per quindici anni a Iglesias, terra di miniere.
Quindi storie di minatori e storie di guerra si avvicendavano a casa mia!
In questi ultimi anni poi, da lettore, ho seguito da vicino la situazione del Sulcis, la zona più depressa d’Italia e quello che sta succedendo alle miniere.
Siccome non è nelle mie corde fare romanzi d’ inchiesta ho deciso allora di ambientare la storia nel passato, raccontando anche  fatti che in un certo senso possono essere il rovescio della medaglia di quello che sta accadendo oggi.”

Gabos continua dicendo che l’altra molla che è scattata in lui è stata quella di misurarsi come autore unico nel genere giallo/noir che aveva già attraversato nelle vesti di disegnatore, collaborando con Pino Cacucci e con Loriano Machiavelli, di fatto l’inventore del giallo contemporaneo. Il progetto nel tempo ha comunque subito una serie di evoluzioni:

“All’inizio, per la verità, volevo affidare i disegni a un altro fumettista, a un disegnatore con un segno più realistico; poi la cosa non è decollata e il progetto si è un po’ arenato.
Dentro di me però restava grande la voglia di raccontare questa storia e alla fine ho deciso di disegnarla io.
La prima idea è stata quella di farlo in bianco e nero, poi sono passato alla bicromia, aggiungendo il color ruggine e alla fine, parlando con il mio editore Simone Romano, è arrivata la decisione di farlo a colori. Sono partito dall’idea di usare tinte piatte e poi sono finito a fare un lavoro ultrastratificato, per esempio mettendo sotto le immagini un fondo campionato dalla carta che si usa per avvolgere il pesce al mercato. Questo perché avevo l’esigenza di fare qualcosa di molto materico.
A tutto ciò ho aggiunto un modo di raccontare un po’ emotivo che avevo già sperimentato in altri libri: a seconda di quello che voglio trasmettere, cambio registro narrativo in maniera anche brusca, cosa non frequente nel fumetto. Passo così dalla matita ai pastelli colorati, all’acquerello e così via.
Sono arrivato alla realizzazione di un’opera antitetica rispetto a quella che avevo pensato all’inizio, mettendomi in una sorta di condizione dialettica con me stesso e lasciandomi andare.”

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All’autore viene poi chiesto che metodo di lavoro è solito adottare quando realizza un libro e, specificatamente, come si è mosso nel caso di questa sua ultima fatica e quanto tempo le ha dedicato:

“Spesso molte cose sono nate in maniera estemporanea. Rispetto ai bravi autori che si fanno prima lo storyboard preciso e dettagliato dalla prima all’ultima pagina, io sono andato a scaglioni.
Dopo avere pianificato una trentina di pagine mi sono un po’ stufato e volevo disegnare. Disegnando entro in una relazione sempre più assidua con la materia fino a essere catturato dalla storia: l’ultimo periodo in casa ero odiato da tutti perché non parlavo d’altro!
Alla fine era tanta la confidenza che avevo preso con i personaggi e viceversa, che loro si muovevano per i fatti loro: infatti, ho aggiunto varie sequenze strada facendo a cui non avevo pensato.
La cosa che invece adoro fare è il trattamento, la scaletta della storia, che per me è scrivere ciò che mi viene in mente senza pormi il problema che sto scrivendo un testo definitivo. Mischio così insieme parti di soggetto puro, parti che diventano racconto letterario, pezzi di sceneggiatura e di storyboard. Questa versione resta per me, è privata: all’editore poi mando una scaletta pulita.
Alla fine, a disegnare la storia ho impiegato circa un anno, ma il periodo di gestazione è stato molto più ampio, con abbandoni, riprese e tempo dedicato al recupero del materiale. Quando ho fatto un sopralluogo a Carbonia e a Iglesias, avevo già realizzato una quarantina di pagine di storyboard, lasciando dei buchi per le cose che dovevo inserire dopo quella visita (le miniere, etc.).”

Gabos ha affermato dunque che i ricordi personali della propria infanzia, la passione per il periodo storico e l’amore per la ricerca documentale sono state le fonti di ispirazione da cui ha attinto per la creazione della storia. Interessante è il modo in cui tutto ciò si è trasformato in materia narrativa:

“Da una parte c’era l’idea di confrontarsi con il giallo e con il noir, genere che poi con l’andare avanti della storia ho ampiamente decostruito e tradito con piacere, confortato anche dalla lettura dei libri di Fred Vargas, scrittrice che spesso mette da parte la componente della detection per concentrarsi sui personaggi.
Cosa che ho fatto anche io poiché adoro lavorare su di essi, mi piace entrare in confidenza con loro. Di primo acchito, li inserisco dentro una stanza tutti insieme per osservare le relazioni che si vengono a creare: in questo caso ero curioso di osservare il rapporto che si sarebbe instaurato tra Marmo e il deportato politico Sangiorgi, o con il brigadiere Mallus. È una sorta di lavoro quasi teatrale, nel quale io mi pongo come ascoltatore.
Dall’altra, nell’attraversamento di vari generi letterari, dal noir al romanzo storico fino a passare per la commedia, c’era l’idea di creare una storia con diversi registri narrativi.
Come riferimenti, mentre componevo il libro avevo più in mente la letteratura che il cinema e a questo sono dovute le parti più lente, quelle ricche di dialogo contrapposte alle sequenze mute.
All’inizio invece l’ispirazione cinematografica c’è stata per il protagonista e precisamente il Pietro Germi di Un maledetto imbroglio, tratto dal romanzo di Gadda. Ma Marmo con i capelli bianchi non funzionava e dunque andando avanti è finito per assomigliare a Mauricio Pinilla, ex attaccante del mio amato Cagliari; però non ero ancora convinto, fino a quando non ho preso la decisione di spezzargli il naso.
In quel momento mi è venuto anche in mente un breve racconto, ancora inedito, su come gli fosse accaduto tale incidente, quando giovane soldato viene mandato nel Montefeltro.”

Germi Pinilla Marmo
Da sinistra: l’attore e regista Pietro Germi, il calciatore Mauricio Pinilla ed Ettore Marmo

Come Gabos spiega anche nella postfazione del suo libro, proprio il naso del protagonista è stato uno dei nodi principali da sciogliere per far decollare il personaggio, perché nell’universo somatico del fumetto il naso e anche i baffi sono elementi  fondamentali:

“Nella caratterizzazione dei personaggi a fumetti si lavora su più piani. Uno è quello che dicevo prima, dell’ispirazione a una persona reale, un attore, un calciatore, etc.
Un altro è tutto il pantheon del fumetto stesso da cui attingere. Essendo io un lettore onnivoro che ha iniziato a tenere in mano albi a fumetti prima ancora di sapere leggere, ogni volta che devo creare un personaggio mi sento “bombardato”.
Io ho una profonda invidia per gli autori che fanno fumetti ma non li leggono e hanno in mente fin dal principio la loro idea purissima e perfetta di dove andare a parare. Per chi come me è invece autore e lettore onnivoro è un dramma, perché gli spunti che vengono in mente sono così tanti che uno può passare giornate intere a sfogliare fumetti per cogliere spunti o ispirazioni.
E, alla fine, scava scava le influenze vengono fuori, non c’è niente da fare.
Da un punto di vista espressivo, questi baffi di Marmo che gli coprono la bocca mi hanno creato più di una difficoltà, ovviate lavorando molto sulle sopracciglia, sullo sguardo, sulla sigaretta che ha sempre in bocca. Per altri versi, però, quei baffi lo caratterizzano molto, determinandone i tratti somatici: alla fine, con quel naso storto e a punta che si ritrova, tutto sommato è stato più facile disegnarlo con i baffi che senza.”

Il discorso poi è continuato sui binari dedicati al commissario e su come sia diventato il protagonista del libro:

“Fisicamente, Marmo è un prestante uomo di circa 35 anni, toscano di Siena, alto, elegante, con un paio di baffi che ha giurato di non tagliarsi fino a quando non lascerà la Sardegna.
Volevo fare di lui un commissario riluttante: leggendo il libro si capisce che Marmo non ha molta voglia di condurre le indagini. Prima di tutto perché lui continua a sentirsi molto più soldato che poliziotto, e poi per la condizione in cui lo troviamo all’inizio del libro, sbattuto in Sardegna contro la sua volontà. È costretto a mettersi in gioco con il primo omicidio che gli capita tra le mani.
Avevo in testa un personaggio che fosse riluttante, disgustato, con lunghi momenti di dialogo interiore e con l’abitudine di parlare da solo, esternando a voce alta i propri pensieri: mania che ha preso in Africa, quando si trova da solo in pieno deserto etiopico e vaga disperato alla ricerca dei propri commilitoni.
Altra sua caratteristica è di attrarre le donne, pur non facendo granché: non è un corteggiatore, non è galante, non è romantico ma ha successo ed è proprio a causa di una donna che viene mandato in Sardegna.
A un certo punto della storia poi compare un bambino: Pietro, figlio di Bonaria, governante nella cui casa Marmo è a pensione, che ha un problema alla vista: la malattia nel libro non viene mai citata ma si tratta del tracoma, all’epoca molto diffuso. Pietro diventa la chiave di volta per avere un rapporto del protagonista più stretto sia con Bonaria che con l’isola stessa.
È un protagonista in divenire, che relazionandosi con gli altri personaggi del libro scopre altri lati di se stesso che pensava di non avere. Non mi sono posto il dubbio di sapere se sia fascista o meno: lui è un soldato, fa quello che gli viene ordinato.
Quando diventa commissario, si capisce abbastanza chiaramente che è scettico, soprattutto nei confronti della milizia, per la quale non prova nessuna stima.
C’è insomma tutto un processo di spogliarsi e di rivestirsi di un nuovo abito da parte del protagonista del quale lui stesso non si rende conto.”

 Ma nel libro ci sono anche altri personaggi a cui Gabos tiene molto:

“Sono molto affezionato a Bonaria, espressione della società matriarcale sarda: donna di poche parole – lascia che a parlare siano i suoi silenzi – e molto polso. Anche quando si concede a Marmo, lo fa sempre in maniera molto austera e anche nei momenti di commozione trattiene la sua reazione.
Un altro personaggio che potrebbe avere uno sviluppo futuro interessante è il confinato politico, il professor Quinto Sangiorgi: viene da Bologna, è comunista e omosessuale:  essendo già anziano, anziché essere spedito direttamente in miniera, lo hanno soltanto “confinato” a Iglesias. Lui è un personaggio che potrebbe avere ampi margini di autonomia in un prossimo avvenire, non fosse altro per raccontare il suo passato.”

Bonaria Pietro
Bonaria e suo figlio Pietro

Si è poi passati a parlare dell’evoluzione del segno grafico dell’autore dopo molti anni di carriera e di quali siano state le tappe fondamentali di quell’evoluzione. E anche in questo, il suo ultimo romanzo è stato rivelatore:

“Giunto all’età di 53 anni non dico di sentirmi arrivato, ma certamente mi sento di non dovere dimostrare più niente come autore, non sento più l’obbligo di seguire determinate mode: faccio ciò che mi piace fare.
La cosa bella in tutto ciò è che vedo, anche in questa ultima opera, che tutti i miei “periodi stilistici” stanno riaffiorando insieme sulle pagine. Per esempio, la sequenza “metafisica” di questo libro, quella ambientata nella piazza Roma di Carbonia, l’ho disegnata con i pastelli colorati che usavo nei fumetti che ho fatto all’inizio della mia carriera.
È tornata poi la matita già usata in La Giustizia siamo noi, la china classica degli inizi, alcune sequenze disegnate partendo dal nero delle masse, come facevano autori come Milton Caniff e soprattutto Josè Munoz, da me frequentato tantissimo come lettore e anche mio insegnante tanti anni fa.
Dunque, riguardando il libro ora, assomiglia molto a un compendio della mia evoluzione stilistica e rappresenta trent’anni della mia carriera, anche se tutto ciò non è venuto fuori in maniera programmatica ma è un risultato di cui mi sono reso conto a posteriori.”

Altra peculiarità rivelata da Gabos è il rapporto che ha con i libri da lui realizzati:

“Ogni volta che concludo un libro ho una sensazione di sollievo e liberazione. Quando poi mi arriva la copia cartacea, l’unica cosa che guardo è la stampa, che non ci siano fuori registro, dopo di che lo ripongo perché se mi metto a sfogliarlo, trovo subito errori e cose che non mi piacciono più. Lo rileggo solo nel caso venga fatta qualche riedizione, altrimenti cerco di ricordarmelo e basta.
Torno in effetti alla condizione iniziale di quando devo cominciare un libro: immagino di aggirarmi tra gli scaffali di una libreria, trovo lì il mio libro già finito e inizio a sfogliarlo. In questo modo inizio a materializzare l’idea di cosa sarà quel libro come oggetto, idea che inseguo per tutto l’iter lavorativo.
Per me, da lettore incallito, è importante l’idea di libro come oggetto materiale, da sfogliare, da annusare, da trattare con i guanti.”

Le copertine meritano poi un discorso a parte:

“Altra cosa fondamentale è la copertina: quella de L’illusione della terraferma è stata una sorta di parto. Le prime due ipotesi disegnate – che ho inserito nella postfazione – non mi convincevano pienamente. Alla fine ho optato per una copertina molto iconica, con da una parte una citazione al Montalbano di Camilleri – nella copertina del suo primo libro ci sono due carabinieri che camminano sulla Sicilia – e che dall’altra richiamasse cromaticamente i vari regimi totalitari del Novecento, con il rosso, il nero e il carattere tipografico di stampo fascista.
Invece il titolo l’ho deciso da subito: se fin dall’inizio non definisco titolo e personaggi di un libro, io sto male.”

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Da sinistra: la prima copertina disegnata da Gabos e la copertina definitiva del volume

Gabos negli anni ha avuto la possibilità di lavorare come autore completo, come disegnatore su storie scritte da altre e come sceneggiatore su disegni altrui. Gli è stato allora chiesto quale delle tre condizioni preferisce:

“Sicuramente la condizione che mi piace meno è quando sono solo disegnatore, perché sono irrequieto. Per questo preferisco lavorare solo con persone amiche con cui posso avere un rapporto dialettico, come è stato con Bepi Vigna, con Pino Cacucci e con Loriano Machiavelli.
Mi piace molto di più lavorare come sceneggiatore con altri disegnatori: la prima cosa che chiedo loro è che cosa vorrebbero disegnare, perché credo sia importante metterli a proprio agio.
Per esempio, in Apartments, avevo realizzato dei minisoggetti per ogni storia che compone il volume e poi le avevo fatte scegliere ai disegnatori in base alla loro inclinazione e versatilità.”

Si è passati poi ad approfondire i temi portanti che hanno attraversato varie delle opere di Gabos. Uno sicuramente è lo spazio urbano, reale come quello di Carbonia nell’ultimo libro o di Bologna ne I Camminatori, ma anche immaginari come la città distopica di Esperanto:

“Io sono tendenzialmente un animale di città che non riuscirebbe mai a vivere in campagna: ho quasi sempre vissuto nel centro cittadino, ho passato vari periodi in città metropolitane.
Quando avevo letto Città di vetro di Paul Auster, prima ancora dell’uscita del bell’adattamento a fumetti da parte di Karasik e Mazucchelli, mi ero ritrovato completamente in quel romanzo.
In Terraferma lo spazio urbano è presente con Carbonia e in parte con Iglesias, ma ci sono anche questi spazi rurali molto vuoti e silenziosi che per me sono stati una novità. I personaggi più umani che ho disegnato in questi spazi sono stati gli ulivi, alberi dotati di una personalità fortissima dovuta alle contorsioni dei loro fusti.
In Esperanto, invece, ero partito da Baku, città sul Caspio. Avevo da poco letto il libro Alì e Nina di Kurban Said, best seller negli anni ’30 e ’40 e poi completamente dimenticato, ambientato proprio a Baku nel periodo del boom dei pozzi petroliferi.”

La riflessione dell’autore porta automaticamente a un’altra domanda: quali sono gli aspetti più stimolanti nel tradurre in finzione una città esistente e invece rendere credibile una città inventata:

“Il risultato alla fine è sempre lo stesso, a me piace sconfinare in una sorta di realismo magico. Un luogo reale come la Bologna de I camminatori lo trasfiguro, e c’è da dire che Bologna si presta in maniera particolare per questo lavoro: nel sottosuolo è completamente navigabile grazie a una rete di canali, mentre sopra è tutta ricoperta dai portici. È una città assurda e claustrofobica al contempo, pare quasi uscita da un racconto di Italo Calvino.
In Esperanto invece ho cercato di rendere la città in modo più naturale possibile per la vita dei personaggi: ho rovesciato i due elementi rispetto a I Camminatori ma l’aspetto magico è sempre presente.
Mentre in Terraferma devo dire che, forse per la prima volta, il sogno e la magia sono completamente assenti.”

Esperanto_I camminatori

Avviandosi verso la conclusione dell’incontro, è stato chiesto a Gabos se la storia iniziata su L’illusione della terraferma proseguirà:

“Ci dovrebbe essere, anche se non nell’immediato futuro, una continuazione della storia ambientata nel 1943 a Cagliari, nel corso dei bombardamenti. Ci sarà ancora Marmo che fa il commissario – che evidentemente alla fine la Sardegna non l’ha lasciata -, ci sarà un’indagine che riguarda i tombaroli delle necropoli. E ci sarà soprattutto la guerra e la mia città natale.
Il titolo l’ho quasi ideato: “Ci sono soltanto le bombe”. O qualcosa del genere.”

Alla fine l’autore si lascia un po’ andare su quali sono i suoi progetti futuri in essere o desiderati. Gabos così rivela che da un po’ di tempo sta pensando a una storia sul Cagliari dello scudetto, perché gli piacerebbe raccontare una storia sul calcio, che è un argomento poco frequentato nel fumetto e soprattutto perché il calcio fa parte del suo immaginario. Certo, se dovesse farla non sarebbe un qualcosa di didascalico, piuttosto una storia raccontata dal punto di vista di suo padre e lui bambino che vanno allo stadio, un modo per parlare di quel periodo storico attraverso un’epopea calcistica.
Gabos ha poi detto che probabilmente riprenderà e finirà Il Viaggiatore distante: vorrebbe fare due volumi a colori con nuove pagine. Ma in questo momento è impegnato con l’adattamento teatrale de I camminatori e con un progetto abbastanza grosso con Bepi Vigna, una storia di avventura ambientata in Argentina ai primi del Novecento.
Nel frattempo spera di fare il secondo ciclo di Tobia su SuperG: l’ha già scritto ed è in attesa di approvazione dalla casa editrice.
E per chiudere l’incontro ritornando alla sua Sardegna e al protagonista del suo ultimo libro:

“La cosa più immediata che farò sarà portare in scena in un reading un racconto scritto di Ettore Marmo, prima a Bilbolbul e poi a Iglesias nel mese di novembre. È una storia che si svolge parallelamente alla vicenda narrata in Terraferma.”

Personaggi Terraferma
Studio dei personaggi de L’illusione della terraferma
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