Reinventarsi per sopravvivere: intervista a Fabio Visintin

Reinventarsi per sopravvivere: intervista a Fabio Visintin

Fabio Visintin, un illustratore con una traiettoria eterogenea e ricchissima: da Linus al Corriere dei Piccoli, da Frigidaire alla rivista AnimalS, e poi illustratore copertinista e autore unico come con "Natali neri", suo ultimo fumetto.

Fabio Visintin, un illustratore con una traiettoria eterogenea e ricchissima: da Linus al Corriere dei Piccoli, da Frigidaire alla rivista AnimalS, e poi illustratore copertinista e autore unico di pubblicazioni come Natali Neri pubblicato a Ottobre da Comicout.

Una traiettoria eterogenea e ricchissima la tua, Fabio.
cover-Visintin-RGBEffettivamente, sì. Il mio lavoro è principalmente quello dell’illustratore e una delle cose più visibili sono le copertine dei libri. Da molti anni collaboro con la casa editrice Marsilio, nello specifico il mio contributo va alle copertine della collana Le Farfalle, la collana di “gialli”- anche se sia autori che editori si arrabbiano un po’ a sentirli chiamar così- quindi in questo momento, lavoro principalmente per autori del nord Europa, come Henrick Mankell o Camilla Lackberg. Vivo d’illustrazione e quindi sono molto adattabile; del resto vengo da uno studio grafico e sono da sempre abituato ai lavori a commissione. D’altro canto in questo lavoro o ti abitui a reinventarti o è difficile sopravvivere. Ho avuto la fortuna di lavorare in tempi in cui si poteva vivere di fumetto. Quella con Il Corriere dei Piccoli, che era un settimanale, è stata una collaborazione proficua, c’è stato un periodo che lavoravo esclusivamente per loro. È stato uno choc vederlo chiudere improvvisamente.

In che veste si sente più comodo il Fabio Visintin autore?
Ho sempre mantenuto degli spazi personali e Natali Neri è uno di questi. Già all’alba dei tempi mi ero occupato di fumetto adulto su Frigidaire e per riviste sperimentali, però era sempre un campo alternativo, che non ti consentiva di sopravvivere ed era piuttosto divertente lavorare per Frigidaire e allo stesso tempo dedicarsi ai camioncini pieni di orsacchiotti de I Cuccioli la serie che disegnavo per il Corriere. A me piace molto far fumetti, ma non riesco a farlo a tempo pieno perché è meno redditizio. L’occasione si è presentata con AnimalS: la rivista mi dava spazio e libertà per raccontare ciò che volevo. Per me il fumetto è una questione d’autore, li amo tutti, ma è un mezzo, una tecnica di racconto. Non credo molto nei generi, ma nel mezzo. Nel mio libro questo è evidente: la mia caratteristica è a commistione dei generi, è divertente il fatto di poter entrare in una narrazione e ribaltare un genere. Amo moltissimo la letteratura e i libri, il rapporto è costante e in un certo senso reciproco…per esempio, quando faccio una copertina cerco di parlare prima con gli autori.

Nelle storie contenute in Natali Neri giochi spesso con diversi livelli di narrazione. C’è una storia in particolare nella raccolta, “Mare Nostrum”, che intreccia per lo meno tre trame diverse. Qual’è il fine ultimo di questa scelta?
Quella storia in particolare è profetica, visto cosa sta succedendo in questi giorni (il governo ha appena approvato Triton il nuovo programma di pattugliamento delle coste mediterranee). La storia nasce dal mare, ad un certo punto ho pensato al Mediterraneo come a un grande cimitero e ai migranti come persone che hanno perso tutto, incluso la terra dove morire….e noi qui a valutare se lasciarli entrare nel paese! E quindi, accanto alla loro rappresentazione, ho inserito un riccaccione, ispirato al sindaco leghista di Treviso. Poi c’è una cornice, con una citazione. La storia degli uccelli, che migrano, arrivano in un altro luogo e vengono uccisi.

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Ecco, una cornice a mio avviso che insiste sull’insensatezza della morte inflitta da un essere vivente all’altro…
Infatti non c’è un senso, anche se è una visione un po’ nichilista. In questo momento ci manca anche una mente malvagia contro la quale sollevarci. La cosa spaventosa e sconvolgente è che non sappiamo nemmeno con chi prendercela, non sappiamo chi sia il responsabile di questo meccanismo che ci tritura, nel quale ci muoviamo per inerzia. In “Mare nostrum”, per esempio, c’è un personaggio ispirato ai leghisti che vuole anche trasmettere quell’ingenuità, quella noncuranza e ignoranza che porta al razzismo: quando in un paese si accolgono dei migranti cambiano gli odori e gli accenti e la gente si chiude, soprattutto nelle regioni che sono state povere in passato, dove il ricordo della miseria è ancora così vivo da far paura. È il timore di tornare a quella condizione a renderci più diffidenti verso il nuovo arrivato.

Una chiave di emancipazione per contrastare il razzismo potrebbe essere la cultura, come quella che si respira nelle tue storie, sia nelle citazioni letterarie che come elemento di riscatto nella trama: “So this is Xtmas”, la seconda storia dell’albo, finisce con quest’imperativo, “studia!”rivolto alla giovane protagonista da un personaggio adulto.
Infatti: io ho dei figli e, seguendoli nella crescita, ho avuto spesso la sensazione che nel tempo siano state sottovalutate alcune idee. Per esempio, non è vero che studiare non è importante. Studiando si aumenta la capacità di decifrare le situazioni. La storia che citi è una commistione di storie vere che ho ascoltato da conoscenti ed è ispirata a fatti reali. Anche per superare certi stigma, come suggerito in questo racconto, bisogna studiare!

C’è sempre una qualche lotta che anima i tuoi racconti: sono lotte e battaglie intime, oppure grandi conflitti storici, come quella del racconto che da il titolo al libro ma, per esempio, c’è anche una bella lettura della teogonia di Gea e Chronos: quello che racconti è in fondo la lotta per la vita?
Sì, esatto. Fondamentalmente quando scrivo una storia prendo essere umani e li pongo in situazioni particolari. Dopo mi rendo conto che in genere si tratta di situazioni di isolamento, in cui si crea come una specie di varco spazio/tempo, una dimensione nella quale contano solo i rapporti che si vengono a creare. È un aspetto costante che, sebbene involontario, noto riemerge continuamente nelle mie storie. Credo succeda perché alla fine quello che uno cerca è l’umanità che a volte perdiamo completamente. Nella guerra per esempio, circostanza priva di umanità per antonomasia, si è paradossalmente più inclini a queste scintille, perché l’eccezionalità dell’evento ti porta a ritrovare quelle tracce che sono un segno di salvezza, un barlume che può salvare l’equilibrio delle cose.

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È quasi sempre una ricerca all’indietro: attingi spesso al mondo classico. Quest’umanità in grado di salvarci spesso affiora nei tuoi testi come citazione da qualche opera classica. Da cosa viene quest’ispirazione?
Qualche anno fa mi sono imbattuto nel lavoro di una studiosa ebrea, poi morta suicida, che all’alba del periodo neonazista, prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, ha iniziato a fare una ricerca comparativa tra la Bibbia e L’Iliade. Mi è sembrato straordinario che in quella circostanza storica di grande tensione, questa studiosa trovasse una specie di ancoraggio per decifrare quello che stava succedendo in quei tre o quattro libri sapienziali dove tuttoè  già scritto si fonda sempre su una profonda comprensione dell’essere umano. Mi piace riportare quest’idea della storia. Grazie alla figura del Professore la citazione classica attraversa il racconto“Natali Neri”, ambientato durante la Prima Guerra, ovvero il conflitto che sancisce la fine della guerra intesa come duello, ma che si allarga e si trasforma nell’odio tra popoli, tanto si è fomentata l’idea del nemico. Non a caso a un certo punto i soldati mostrano apertamente la loro indifferenza verso “l’altro”, e l’odio diventa cieco, svuotando il conflitto di ogni senso.

La cultura come redenzione, quindi?
Certo, non essendo religioso, per me la cultura rappresenta quello che ci può salvare. A volte può essere che questo confini con la religione. Io credo nella cultura dell’umano, nella consapevolezza delle tracce che ogni cultura mescola, che si incrociano, convivono e si rispettano.

E per quanto riguarda la diffusione della cultura, non credi che la chiusura di riviste importanti sia stato un brutto colpo per il nostro paese?
Sì, anche se io ho lavorato scegliendo i progetti che mi entusiasmavano di più. Quando scrivo una storia mi pongo io per primo come lettore. Invece nei lavori a commissione, quelli costruiti a tavolino, dove magari lavoro come illustratore, mi concentro sull’obiettivo richiesto. Le riviste avevano poco peso nel nostro paese, vuoi perché come lettori siamo molto più legati alla serialità, che è molto tranquillizzante, vuoi perché paradossalmente, nel paese più ricco di opere d’arte, la cultura visiva è molto bassa. Certo che l’idea di alto e di basso impedisce la mescolanza, e questo, culturalmente parlando, è un grosso limite. Cerco di far convivere istanze diversi nei miei fumetti, di dar spazio a diverse ispirazioni: per esempio non mi sento autore di fumetto civile, sebbene mi piaccia parlare di storia, di realtà, estrapolo dal sociale le linee poetiche, ho bisogno di legarmi a un espediente fittizio. Per questo forse ho amato molto Maus di Spiegelmann.

Intervista rilasciata via mail a novembre 2014.

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