Un segno esile, sottile, disadorno. Tavole che alla prima vista sembrano quasi abbozzate. È la prima impressione che si ha sfogliando rapidamente Lucille di Ludovic Debeurme. Eppure, come capita spesso per i fumetti più riusciti, la perplessità per un impianto grafico a prima vista così poco accattivante scompare una volta che lentamente, pagina dopo pagina, si è catturati da un fumetto sorprendente per l’estrema coerenza e armonia tra racconto scritto e disegnato, qualità strettamente conseguenziali alle scelte stilistiche dell’autore, che si possono riassumere con un solo concetto: sottrazione.
Sia per l’apparato grafico sia per quello narrativo Debuerme agisce nell’asciugare il più possibile quello che finisce nella tavola, a partire dal tratto così fragile come lo sono i personaggi che muove nel suo racconto. Un tratto che ricorda quello di Chester Brown (l’autore di Non mi sei mai piaciuto, Black Velvet) per l’esilità delle figure, ma anche sotto alcuni aspetti a quello di Giacomo Nanni, tanto per dare un paio di coordinate.
Una fragilità che trasuda anche dalla sceneggiatura, incentrata sull’adolescenza della protagonista, sui mali del vivere, sul desiderio di essere diversi da quello che si è. Colpisce come la profondità degli argomenti trattati – la solitudine, l’anoressia, l’amore – siano raccontati in maniera semplice, con un intreccio logico, naturale, mai forzato, con dialoghi che scorrono via senza inciampi, una messa in scena e un tono narrativo che fanno a meno di retorica e di epicità.
Tutto sembra essere sospeso in un limbo bianco, tanto le tavole sono composte da poche figure su sfondi pressoché vuoti, senza l’ausilio di vignette che ingabbino le sequenze, senza dei balloons veri e propri, essi sostituiti da testi scontornati che riempono lo spazio attorno ai personaggi. Un limbo che tiene quasi in sospeso la sofferenza di Lucille, adolescente che si sente sempre più lontana dalla madre e che all’improvviso perde qualsiasi volontà e capacità di amare sé stessa e la vita che vive. Da qui l’anoressia, guaRda caso una sorta di sottrazione di peso da una vita troppo pesante per essere vissuta, una malattia che accentua il senso di solitudine, di deriva dell’esistenza.
La stessa solitudine di cui è prigioniero anche Arthur, un ragazzo in cerca di un’identità che non sia quella legata alla sua problematica famiglia, alla tragedia dietro l’angolo, a una vita sospesa in un niente da cui è quasi impossibile liberarsi. Il suo incontro con Lucille accende una speranza inaspettata nella vita dei due giovani e per la prima volta la ribellione, l’atto necessariamente di rottura che è la fuga dal vuoto che tiene imbrigliate le loro vite, è il primo passo per la presa di coscienza che sottintende il diventare adulti e impadronirsi del proprio destino.
Non che questo non si riveli poi cinico e baro, tanto che qui e là nel fumetto Debeurme sembra voler dire che non è così facile sottrarsi alla predeterminazione. Pero’, pure in questi frangenti il lavoro di sottrazione all’impeto dei topoi del genere è evidente e assolutamente pregevole. Debeurme pur raccontando fatti estremi o dolori insopportabili non eccede nella loro rappresentazione e non si sofferma mai nel contemplare la sofferenza, la disperazione, la malattia. Gioca col bisturi di una scrittura essenziale, calibrata, ma allo stesso tempo profonda, mai altéra, mai distaccata, mai indifferente, attenta a non essere invadente, a non sovrapporre giudizi, pregiudizi e moralismi.
Debeurme, con maestria tratteggia dei personaggi complessi per mezzo di pochi accenni, nasconde la complessità del mondo, e della sua narrazione, dietro ritratti fatti di poche linee, di paesaggi ridotti all’osso, di una impalpabile ed eterea poesia.
Vincitore del prestigioso Premio Goscinny nel 2006 al Festival di Angoul