Seguiamo la nascita di Mimbrenos, l’ultima opera di Stefano Casini, un western pensato per il mercato francese, con una serie di interviste tematiche. Abbiamo parlato con l’autore della sua idea di western e di come nascono i protagonisti della storia, e analizzato il lato tecnico del passaggio dallo spunto iniziale alla sceneggiatura, e nella quarta tappa abbiamo analizzato con l’autore gli strumenti del mestiere.
Stefano Casini è diplomato alla Scuola Superiore di Industrial Design e ha collaborato come grafico prima di approdare alla Sergio Bonelli Editore come disegnatore del primo Nathan Never sulle cui pagine si distingue per il suo tratto dinamico, spigoloso e personalissimo. Negli anni si dedica anche ad altre storie, fuori dal circuito popolare, come la serie Digitus Dei con Michele Medda o la saga in formato francese dedicata a Cuba, Hasta la victoria!. Attualmente ha terminato la realizzazione di un’opera per il mercato francese, un western dal titolo Mimbrenos.
Il Mercato francese: una scelta obbligata o una scelta motivata?
No, assolutamente motivata: di obbligatorio non c’è mai stato niente se non un grande debito per conto del mio immaginario. Tieni presente che essendo stato un grande lettore del “Corrierino dei Piccoli” sono rimasto folgorato dalla narrazione francofona di quegli anni – Blueberry, Bruno Brazil, Bernard Prince, Comanche, Dan Cooper, Ric Roland, Michel Vaillant – che poi ho ritrovato su altri albi, vedi tutta la fantascienza targata Moebius, Bilal, Caza. Per me raccontare su quel formato è stato come una predestinazione, e non ho avuto nessun tipo di difficoltà a passare dalla griglia bonelliana al formato francese. Lo conoscevo.
La mia scelta si è definita alla fine dei ’90 con Il demone nell’anima, pubblicato prima negli USA e poi in Francia: da qui la mia esigenza di essere autore completo mi ha spinto verso quei lidi, su quei formati e verso quegli editori, specialmente quando ho trovato le Editions Mosquito di Michel Jans che mi hanno permesso di esprimermi a 360° come autore. Da lì non mi sono più fermato anzi, ho quasi prediletto quel tipo di produzione trascurando, pur dispiacendomene un po’, quella bonelliana.
Hai proposto tu l’opera all’editore?
Sì, assolutamente sì. Ho sempre fatto così con ogni mia collaborazione francese tranne con Laurent Galandon, quando mi propose di realizzare La venus du Dahomey per Dargaud : era un’occasione troppo ghiotta per rifiutare, anche se in realtà un altro grande rifiuto l’avevo già fatto una volta, pentendomene, perché mi era stato proposto un albo della serie Quintet. Rifiutai perché stavo realizzando un albo cubano e me ne dispiaccio perché avrei legato il mio nome all’amico e talentuoso sceneggiatore Frank Giroud, tra l’altro recentemente scomparso.
C’è differenza nel rapporto con i lettori tra Francia e Italia?
La percezione dei lettori, noi autori l’abbiamo nei festival ai quali partecipiamo, sia in Italia che in Francia e in queste occasioni si ha l’idea effettiva di chi ti apprezza. Per i transalpini la passione è tutta orientata all’autore, più che al personaggio, ed è una caratteristica tutta loro.
Per anni in Italia allo stand Bonelli ho firmato migliaia di fotocopie con miei disegni, tra il plauso e la gratificazione che i lettori sanno darti, ma solo per alcuni il tributo era nei miei confronti. In generale, c’era sicuramente apprezzamento verso di me, ma soprattutto volevano il mio Nathan Never, il personaggio che disegnavo: era lui il vero protagonista.
Questo semplicemente perché il lettore italiano si appassiona al personaggio, è abituato così, non potrebbe essere diversamente visto che lo aspetta con desiderio ogni mese all’edicola, desiderio che puntualmente viene appagato.
Non è questione di essere migliori o peggiori, è solo la morfologia del mercato di riferimento che in Italia ha strutturato il lettore stesso, lo ha fidelizzato verso il personaggio, mentre in Francia si cerca l’autore. Nel secondo caso però è un vantaggio per l’autore, perché si sente più libero di sperimentare anche altre cose, altri personaggi, altri progetti, perché sa che il suo pubblico bene o male lo seguirà.
Ma le cose stanno cambiando moltissimo anche in Italia e negli ultimi anni la sensibilità verso gli autori non solo è aumentata ma è diventata un vero e proprio trend.
Hai avuto riscontri invece dalla critica per Hasta la Victoria!, che impressione hai avuto del suo ruolo nel panorama della BD?
Ti faccio solo un esempio piuttosto chiarificatore.
Due anni fa, il venerdì in cui arrivò la notizia della morte di Fidel Castro, mi trovavo casualmente invitato a Bellegarde, un festival BD in Francia. Se non ricordo male la notizia, benché ne sia venuto a conoscenza il giorno dopo, arrivò la sera del venerdì. Bene, alle 10,30 del sabato, il giorno dopo, una troupe di France 3 era al festival ad intervistarmi. Ora, a parte l’innegabile soddisfazione del riguardo nei miei confronti, quello che mi fece veramente pensare è stata oltre la velocità dell’intervento, anche la messa in relazione notizia-fumetto, cioè l’interesse mostrato verso un connubio evidentemente importante per gli spettatori in genere. E questo ti dà esattamente la misura di quanto il fumetto conti, non solo nell’apparato editorial-industriale francese, ma anche l’importanza che riveste a livello culturale e sociale nell’opinione pubblica.
Altro esempio, per suffragare il tipo di interesse verso il fumetto, è quello di anni prima, nel Gers, quando venni inserito in un programma di librerie nelle quali venivano intervistati personaggi del calibro di Paco Taibo II o il direttore di un famoso Museo Nazionale, per parlare della mia “esperienza cubana”. Che altro vuoi che ti dica?
Per il resto le critiche sono state sempre molto positive, e difficilmente i “miei lettori” francesi non possiedono la tetralogia di Hasta la victoria!, alla quale devo moltissimo.
Nella tua esperienza anche di lettore, quale pensi sia la peculiarità che distingue il western francese a fumetti da quello italiano?
Se penso alla serie di Gino D’Antonio, La storia del West, mi viene da dire poco o niente, se paragono (ma non posso dire di aver letto tutto il western francese, anzi) e lo raffronto al Ken Parker di Berardi e Milazzo, non credo di trovare niente di simile in quanto al trattamento di tematiche sociali e politiche. Se, come invece immagino, il paragone è con l’icona del West italiano Tex, direi assolutamente antitetici.
Io, ma qui mi sposto su un altro piano, e cioè quello estetico e d’impostazione, non posso prediligere che quello francese perché gli spazi, i montaggi delle vignette e il respiro che in quel tipo di formato, più ampio e libero nella griglia, viene concesso alla storia e ne esalta certe caratteristiche.
Il tuo stile credi si discosti dal modello francese, e come?
Ma esiste ancora un modello francese?
Oggi in Francia disegnano tutti, dagli argentini agli spagnoli, gli americani che si cimentino in qualcosa che non sia un supereroe, dai messicani agli austriaci, agli italiani con un segno meno adatto al nostro pubblico o vogliosi di mostrarsi in un mercato che accoglie tutto con paritetica importanza, per cui parlare di modello francese, può sembrare inappropriato.
Se invece di modello francese si pensa alla famosa ligne claire, quella è ancora una caratteristica per qualche autore che vuole rimanere fedele alla tradizione, ma che secondo me non è più assimilabile ad una caratteristica univoca di quel mercato.
Per quanto mi riguarda il mio stile è il mio stile. Non mi sono mai posto, e non mi pongo il problema che vada bene o no: credo che un autore debba rimanere fedele a sé stesso pur cambiando. O meglio, io mi attengo a questo mantra perché, mi sembra di averlo già detto, altrimenti mi annoio. E questo è un problema tutto mio.Per il resto che vuoi che ti dica: chi mi ama mi segua.
Ma alla fine è sempre stato così, o no?
Intervista realizzata via mail nel corso del 2018. Continua…