Stefano Casini è diplomato alla Scuola Superiore di Industrial Design e ha collaborato come grafico prima di approdare alla Sergio Bonelli Editore come disegnatore del primo Nathan Never sulle cui pagine si distingue per il suo tratto dinamico, spigoloso e personalissimo. Negli anni si dedica anche ad altre storie, fuori dal circuito popolare, come la serie Digitus Dei con Michele Medda o la saga in formato francese dedicata a Cuba, Hasta la victoria!. Attualmente sta terminando la realizzazione di un’opera per il mercato francese, un western dal titolo Mimbrenos. Nella prima di queste interviste abbiamo parlato con l’autore della sua idea di western e di come abbia formato il suo immaginario. Adesso vediamo assieme a lui come nascono invece i protagonisti della storia.
Come nasce un personaggio dei tuoi fumetti? Immagini solo gli elementi funzionali al racconto o per ognuno “conosci” anche il suo passato, le sue motivazioni e i suoi aspetti peculiari anche se questi non appaiono necessariamente nel fumetto finito?
Dipende.
È normale che le caratteristiche dipendano dalla funzionalità del personaggio alla storia, ma con Nero Maccanti (il protagonista di Hasta la victoria! ndr), il suo essere marinaio divenne una componente essenziale, anche perché visto il periodo storico mi affascinò immediatamente costruirlo in modo che la sua esperienza non finisse con quell’avventura, e l’espediente del nomadismo dei marinai mi permetteva di farlo girare nei porti di mezzo mondo e lo collocava in un’area assolutamente funzionale a come l’avevo pensato.
Ma non sempre l’approccio è lo stesso, anche se è inevitabile che per costruirti mentalmente un personaggio con la sua personalità hai bisogno del suo vissuto, ed il suo passato ti aiuta nel descriverne meglio gli atteggiamenti, le scelte, i gusti. Hai bisogno di modellare la sua interiorità perché anche le cose che dice, che pensa, il suo agire devono dipendere da questo con coerenza.
Tutto questo è anche un modo per aiutarti a procedere nella scrittura: se conosci bene il tuo personaggio, sai anche cosa fargli dire, cosa fargli fare e perché. E a volte la storia va avanti “automaticamente”, il personaggio agisce con autonomia e la storia talvolta finisce per “scriversi” da sola.
Cosa identifica un “protagonista”, quali elementi cerchi di evidenziare e valorizzare nei personaggi principali delle tue opere?
Per adesso ho sempre e solo immaginato personaggi solitari e maschili, o almeno che agissero “da solitari”, forse sono un po’ manicheo nella mia visione e in quanto figlio unico ho anche l’attitudine a vedere la vita solo con due occhi e da solista. Nel dittico La guerra dei trent’anni – La lama e la croce (pubblicata per Mondadori Comics) il protagonista (sarebbero due ma la ragazza ha una parte decisamente meno importante), lo accoppio almeno nel primo volume con una “spalla classica”, un compare che ne condivide una parte del percorso, ma anche qui il modus operandi è da solista, e quindi il concetto non cambia.
Gli elementi che contraddistinguono i miei personaggi per adesso sono piuttosto edificanti: l’onestà, la lealtà, il coraggio, la responsabilità sono elementi quasi sempre presenti e che forse, e non a torto, possono far sembrare il tutto un po’ scontato. Per questo mi piace inserire nella loro personalità delle debolezze che li rendano più fragili. D’altra parte le mie letture, così come i personaggi che mi hanno influenzato, hanno quelle caratteristiche e, almeno per il momento, faccio fatica a muovermi da lì, ma non è detto in futuro.
Per le graphic-novel il discorso è diverso.
Ci sono persone realmente esistite che ti sono state modello per i personaggi del fumetto?
Direi di no.
Magari visualizzo un volto, e attraverso un volto immagino la sua personalità, poi posso inserirci aspetti di persone che conosco ma, a essere sinceri, non amo questo tipo di intersezioni, almeno non nelle mie storie avventurose. Altra cosa sono le graphic-novel: lì è tutto davvero molto personalizzato e i rimandi a persone reali sono smaccatamente ripresi.
Come decidi l’aspetto di un personaggio?
Non mi piacciono protagonisti belli, di quel bello da “eroe americano” con nasino dritto mascelle forti e di una bellezza scontata e stucchevole (almeno per me), per cui tendo a farli bruttini (non tutti). Diciamo che, se non brutti, almeno hanno volti interessanti, che tendono a farsi ricordare. Forse sono rimasto condizionato dalla scelta di Jean Giraud per il suo Blueberry/Belmondo, ma tendo a sposare completamente quella filosofia, nasi storti, labbra importanti, volti segnati, comunque originali (sempre secondo me). Detesto gli standard.
Per il resto dipende da quello che deve fare, da come si deve muovere, ma sempre “si costruisce” autonomamente nella mia testa, in altre parole: lo “vedo”, poi devo interiorizzarlo e visualizzarlo. Spesso ho dei volti di attori o di personaggi che ho intravisto, che mi restano in mente (ne ho uno su una foto che prima o poi utilizzerò, ad esempio) e che vado a riprendere per utilizzare per quel ruolo o l’altro. Poi devo procedere a renderlo graficamente appetibile e togliergli quell’eccesso di realismo per “fumettizzarlo” (perdona il neologismo), cioè a renderlo “disegnato”. Specialmente se si tratta smaccatamente del volto di un attore faccio di tutto per eliminare l’effetto fotografia, e quindi semplificare e soprattutto lavorare sulle particolarità. Spesso, se ricordo bene un volto, quello di un attore ad esempio, cerco di fare schizzi “a memoria” per ricordare soltanto gli elementi più caratterizzanti.
Quanto è importante per te che sia riconoscibile al lettore in maniera evidente, e come operi perché lo sia, che “trucchi” usi?
Lo faccio mio, cioè lascio che il mio disegno prevarichi le caratteristiche e lo trasformi in un’entità autonoma, così può vivere da solo e sarà solo il mio disegno che lo renderà unico.
Il “trucco” è il mio stile, o lo fai così, o non è più lui.
Come “parlano” i tuoi personaggi? Lavori sul differenziare il modo in cui parlano, per identificarli anche nel modo di comunicare?
Ma sai, a volte è difficile rispondere a certe domande perché certi meccanismi si innescano automaticamente e vanno per contro proprio, come ho detto prima, quando un personaggio lo hai definito, e specialmente quando lo hai definito anche graficamente, è come se fosse vivo: tutto gli si adatta come un vestito e a te non rimane che gestirlo come un regista cinematografico fa con i propri attori: li dirige.
Il western è un genere (o un’ambientazione) fortemente iconica, hai fatto uso di riferimenti visuali o è nato tutto dalle tue letture e dalla tua passione (come ci hai raccontato nel precedente appuntamento)?
Proprio perché ha connotazioni fortemente iconiche, per me esistono tanti western, e questi dipendono da dove, in quale area dell’America, in che stagione, che elementi metti in gioco, a che latitudine e il periodo storico preciso – alla fine il West classico, o almeno come amo definirlo secondo i miei personali parametri, va dal 1850 fino all’ultima decade del medesimo secolo – dopo di che “si costruisce” la storia.
In questa storia, non a caso il mio primo western, ho visto sole, sabbia e rocce, ed ho visto Arizona, Nuovo Messico e gli apache, una tribù che ha sempre esercitato un enorme fascino nel mio immaginario, ed è per questo che il mio primo western doveva parlare di tutto ciò.
La storia, con queste premesse, si è scritta da sola e molto velocemente.
Ti sei occupato spesso di personaggi seriali (principalmente Nathan Never, ma anche il tuo Nero Maccanti di Hasta la Victoria!). Che rapporto crei con i personaggi ai quali lavori? Credi che oggi sia ancora importante per te la serialità, ovvero riprendere periodicamente a disegnare un personaggio, o ti interessa maggiormente variare, non fossilizzarti troppo?
Nonostante il profondo affetto verso Nathan Never, che mi ha fatto diventare ciò che sono, e che anche se con minore intensità continuo a realizzare, preferisco non sclerotizzarmi su cliché, amo diversificare, perché sono uno che tendenzialmente si stanca di tutto, si annoia. Perciò devo cambiare, è una condanna.
Detto questo però, amo andare a riprendere i personaggi che amo di più, quelli che hanno delle potenzialità e che per le loro caratteristiche lo richiedono, non disdegno di riprenderli e farli tornare in lizza. È già successo con Nero Maccanti inserito in una storia ambientata ad Haiti nel 1960 intitolata Voodoo serenade, e per il quale l’anno prossimo ho già previsto una nuova entrée, e succederà sicuramente anche per il mio capitano della cavalleria americana, per il quale ho già previsto almeno un altro paio di avventure. Ma il tutto senza una continuità periodica, ma semplicemente quando avrò voglia di disegnare un altro western e soprattutto se il mio editore francese avrà voglia di farlo e sarà così comprensivo da assecondare queste mie richieste.
La serialità di un personaggio è ed è sempre stata importante e la dimostrazione sta, ad esempio, nel grandissimo successo delle serie TV come sono concepite oggi, cioè con continuity e con serialità sempre più incalzanti. Questo per soddisfare l’affetto dei lettori/spettatori, oltre che per la possibilità di sviluppare maggiormente in profondità personaggi, tematiche e trame. Un po’ diversamente accade per i fumetti, almeno per quelli di casa nostra, ma qui non è un problema di periodicità, è un problema strutturale e di mancanza di qualsiasi tipo di supporto al medium, di una diffusa disaffezione alla lettura del nostro paese, oltre che agli interessi assolutamente diversi delle giovani generazioni.
Ma qui si aprirebbe un capitolo diverso e ben più corposo.
Intervista realizzata via mail nel corso del 2018. Continua…