La genesi di Mimbrenos di Stefano Casini: dal soggetto alla tavola

La genesi di Mimbrenos di Stefano Casini: dal soggetto alla tavola

Seguiamo la nascita di Mimbrenos, l’ultima opera di Stefano Casini, un western pensato per il mercato francese, con una serie di interviste tematiche. In questo terzo appuntamento il discorso diventa maggiormente tecnico, tra sceneggiatura, storyboard e realizzazione.

Stefano Casini è diplomato alla Scuola Superiore di Industrial Design e ha collaborato come grafico prima di approdare alla Sergio Bonelli Editore come disegnatore del primo Nathan Never sulle cui pagine si distingue per il suo tratto dinamico, spigoloso e personalissimo. Negli anni si dedica anche ad altre storie, fuori dal circuito popolare, come la serie Digitus Dei con Michele Medda o la saga in formato francese dedicata a Cuba, Hasta la victoria!. Attualmente sta terminando la realizzazione di un’opera per il mercato francese, un western dal titolo Mimbrenos. Dopo aver parlato con l’autore della sua idea di western e di come nascono i protagonisti della storia, adesso analizziamo il lato tecnico del passaggio dallo spunto iniziale alla sceneggiatura.

Scrivi un soggetto e una sceneggiatura quando lavori come autore completo? Se sì, sei scrupoloso e dettagliato o ti bastano giusto poche note?
Il mio metodo oramai è piuttosto collaudato, anche se dipende da cosa devo realizzare, dal tipo di storia: se si tratta di una storia d’avventura o un graphic-novel che ha una struttura più lineare.
Nel graphic-novel, almeno l’ultima (Gli anni migliori per i tipi della Tunué), mi sono scritto a posteriori una serie di dialoghi che sapevo sarebbero avvenuti tra il ragazzo e un pescatore, poi li ho inseriti in seguito all’interno della trama), ma in Mimbrenos, o in storie che hanno un dipanarsi più complesso, generalmente procedo prima con una scaletta che definisce tutte le parti nella loro consecutio temporale. Quindi le metto in sequenza, in modo che la trama abbia uno svolgimento logico, e poi in base al formato dell’albo (ad esempio quello francese che ha una base di 46 pagine), mi faccio uno schema all’interno delle quali suddivido le situazioni in base le pagine che ho a disposizione.
Infine, comincio a scrivere una sceneggiatura, che in realtà è impostata nella fase iniziale come uno storyboard: procedo alla scritta manuale delle didascalie e dei balloons all’interno di riquadri della pagina stabilendone già la suddivisione, e magari già scarabocchiando qualche schizzo.
Una volta fatto tutto questo riscrivo la sceneggiatura come se dovesse andare a un disegnatore diverso da me, e quindi in modo piuttosto dettagliato.

Tra il soggetto iniziale e la versione finale quanto va perso (per ragioni di lunghezza, per digressioni perse in fase di affinamento etc…)?
Poco o niente, cerco di inserire tutto quello che voglio metterci. È la parte più divertente della sceneggiatura, perché mi permette di giocare con le parole e con i dialoghi in modo più o meno sintetico, ma senza rinunciare a cose che voglio dire o a concetti che voglio esprimere. Ne faccio un punto d’orgoglio.

Pubblicando per un editore il limite del numero di tavole è un elemento inderogabile: come riesci a gestire la lunghezza del racconto, quanto resta fuori nella versione finale?
Lavorando appunto per il mercato francese diciamo che lo standard, come già detto, dovrebbero essere le 46 pagine canoniche, ma non ci sono problemi a sforare ed andare oltre, se la storia lo richiede. È successo varie volte che per non sacrificare il testo ci siamo concessi (io in accordo con l’editore) ulteriori pagine.
Pensa per la storia La lama e la croce (La guerra dei trent’anni – La lama e la croce uscita a Lucca Comics&Games 2018 per la collana Historica di Mondadori Comics) era prevista in un primo momento in quattro volumi, poi ridotti a due per necessità editoriali; per non perdere niente ho accorpato il tutto in due soli albi, ma necessariamente ho dovuto sforare di diverse pagine per entrambi i volumi.

Come strutturi una tavola? Cosa cerchi nella divisione in vignette, nella gabbia?
Cerco di esprimere il massimo di quello che la vignetta mi richiede, con una buona dose di originalità ma sempre in armonia con la pagina che, per sua natura deve contenere n vignette, per cui l’arte dell’ottimizzazione si esprime al massimo nel momento dell’impostazione. In questo, il semplice disegnatore ha minori patemi, perché l’obbligo del numero di vignette da utilizzare gli è imposto dall’alto (lo sceneggiatore), quindi non può fare altrimenti. Ma tu, in quanto autore, sei l’arbitro che decide cosa fare, come farlo e in quale quantità, per cui, se da una parte è “più semplice” perché gestisci il tutto, dall’altro è una grande responsabilità. Diciamo che devi avere piuttosto chiaro in testa che cosa vuoi fare.

Quanto è importante una gabbia regolare che guidi il lettore senza fatica o piuttosto una più dinamica che sottolinei i diversi contesti del racconto?
Eh, … questi due modi di approcciare il fumetto appartengono a due scuole di pensiero, ma entrambi hanno punti di forza e punti a loro sfavore.
La regolarità di una gabbia bonelliana o alla Pratt, tanto per fare un esempio, non crea conflitti nel lettore, lo accompagna senza problemi e con semplicità nella lettura del racconto. Di contro però, vincola il disegnatore nell’impostazione della vignetta, ne riduce le possibilità di fare delle vignette di ampio respiro e tende, almeno a mio parere, a congelarlo un po’ creativamente, specialmente quando il lavoro si massifica e le soluzioni da adottare alla fine risultano essere sempre le stesse.
L’impostazione più articolata permette ovviamente di “divertirsi” a montare le vignette in modo più creativo, aiuta a creare giochi grafici che spesso esaltano il lettore ma, se non è concepita con criterio, rischia di rendere confusionaria la lettura e di conseguenza a rallentarne la fluidità. Talvolta per eccesso di “creatività” si notano costruzioni articolate in situazioni che non lo prevedrebbero, rendendo complicate cose che in realtà non ne hanno bisogno.
In altre parole, bisogna essere capaci di farlo, e questo implica avere una “visione” precedente alla stesura dello storyboard, e questo è necessario per avere un controllo su tutto.
Personalmente uso o l’una o l’altra in base al tipo di storia che devo raccontare: è la storia stessa che mi suggerisce come vuole essere raccontata.
Infatti, mentre per le mie due graphic-novel e per Moonlight Blues ho preferito una scansione regolare, per le altre storie ho adottato giochi ad incastro e un’impostazione più creativa.

Intervista realizzata via mail nel corso del 2018. Continua…

 

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