La fine di “Arcadia”: intervista a Marco B. Bucci e Jacopo Camagni

La fine di “Arcadia”: intervista a Marco B. Bucci e Jacopo Camagni

Durante la fiera lucchese abbiamo incontrato i due autori che hanno presentato il finale della saga di Nomen Omen/Arcadia.

Edito da Panini Comics, Arcadia Vol. 3: Disintegration è il volume che termina la trilogia di Arcadia, chiudendo quindi il cerchio sulla saga iniziata con il trittico di Nomen Omen.
In questa intervista abbiamo cercato di sviscerare con gli autori,  Marco B. Bucci e Jacopo Camagni, alcuni aspetti peculiari della loro narrazione, riferendoci tanto al volume in uscita, quanto all’intera saga. Ogni domanda è introdotta da una citazione presa da quest’ultimo volume.

Ogni storia incarnata sente dentro di sé quando si avvicina il capitolo finale di una saga.

Arcadia 3 Cover

Spesso vediamo esperimenti metanarrativi un po’ goffi, espliciti e sguaiati (alla Deadpool per intenderci, ma senza che i personaggi abbiano il carisma di Wade Wilson). Nomen Omen/Arcadia al contrario è stato un viaggio intriso di una metanarrazione molto sottile, raffinata, messa in atto in un modo che appare molto naturale per i personaggi. È stato naturale anche per voi questo tipo di approccio?
Marco B. Bucci: La prima cosa che distingue la saga di Nomen Omen da altre in cui il personaggio sfonda la quarta parete è il fatto che i nostri personaggi sanno di essere Storie. E questo genera tutto un discorso sul potere che assume una storia incarnata, sulla loro consapevolezza e sulla volontà di autodeterminazione come esseri viventi. È come se con il passare del tempo non ci stessero più ad essere solo personaggi, ma volessero affermarsi come persone con desideri che vanno oltre quello che è stato raccontato di loro, affrancandosi da esso. È stato l’inizio che ci ha fatto pensare di inserire la meta narrazione come argomento ricorrente, e nell’ultimo volume di cui stiamo parlando ancora di più. È bello che questa sia la prima domanda perché in Arcadia 3 arriviamo al cuore della metanarrazione. Però sin dall’inizio, quando Becky vedeva in bianco e nero e poi comincia assieme al lettore a vedere a colori ci avviciniamo a un discorso dove il lettore ha un ruolo attivo nella storia. Sono contento che tu abbia detto che sia così raffinato perché ci siamo sempre posti la domanda:”Siamo stati troppo espliciti? O troppo poco?”.
Jacopo Camagni: La metanarrazione è stata una scommessa importante per il tipo di storia che stavamo raccontando. Essendo un’opera che parla di storie, che parla di libri, di fumetto, di media, era importante per me giocarci. Era importante giocarci non in maniera superficiale, ma un po’ intelligente. Ci abbiamo provato e di volta in volta è diventato anche uno stimolo: cercare cioè il modo di farlo al meglio, chiedendoci a ogni volume quale situazione potesse prestarsi a questo genere di linguaggio. È stato dunque anche divertente cercare ogni volta un modo diverso per giocare col lettore. Nell’ultimo volume, per esempio, il layout di base che si vede in alcune tavole è esattamente quello che uso per lavorare, non è messo lì a caso.
MB: La chiamiamo in codice tra di noi la “mattata”, cioè sappiamo che ne abbiamo una a disposizione in ogni volume. Il lettore si aspetta una mattata da parte nostra a ogni capitolo; più di una bisogna andarci piano… di solito è il nostro editor Diego Malara che la individua nelle riunioni.
JC: La mia preferita rimane l’uso del Macbeth, anche perché portare un’opera teatrale all’interno del fumetto è una specie di tabù.
MB: In effetti non ho capito perché parlare di teatro nei fumetti è molto raro, abbiamo degli esempi meravigliosi di opere che sono state trasposte, però non se ne parla quasi mai.

Non ho mai cancellato i salvataggi dei giochi che abbiamo iniziato assieme.

Il linguaggio utilizzato in questo fumetto è una delle sue caratteristiche distintive. Siete riusciti a coniugare registri linguistici aulici e quotidiani, tecnici e magici. Questo ha portato a una narrazione ricca di rimandi e che permette di cogliere nuovi spunti a ogni rilettura, ma fruibile anche a un primo livello di significato. Quanto lavoro c’è dietro questa stratificazione?
MB: Diego, che ha seguito il progetto sin dall’inizio come editor (io dico sempre che se non fossimo solo io e Jacopo gli autori di questo progetto, saremmo stati io, Jacopo e Diego perché lui veramente ha dato un apporto enorme) ci ricorda continuamente che Nomen Omen e Arcadia sono un’opera letteraria, fatta per persone che amano leggere. E che celebra la lettura e i lettori. Questo mi dà la possibilità di lavorare con la lingua molto molto più liberamente perché non mi devo preoccupare di fare un prodotto che sia “commerciale”. Io so che i nostri lettori ci mettono più tempo a leggere 100 pagine di Arcadia rispetto a 100 pagine di un’altra storia più convenzionale, e quindi so anche che hanno una soglia dell’attenzione più alta. Possiamo chiedere di più, ma possiamo anche dare loro di più. Il fatto che iniziamo ogni volume con un cantico è la nostra prova che il lettore deve superare: un lungo testo scritto in italiano antico, non dantesco, ma un italiano molto lirico.Inoltre i personaggi parlano tutti con registri propri, Fatalia Macbeth per esempio non usa mai parole che non siano state pronunciate all’interno del Macbeth da qualcuno. I suoi dialoghi sono un collage, tanto che lei a volte dice cose molto strane e le dice in maniera molto contorta. Solo in pochi momenti, per esempio per affermazioni o battute di passaggio, non si tratta di testi del Macbeth.

Siete riusciti a intercettare lo stesso tipo di pubblico anche nelle edizioni statunitensi?
MB: Avevamo un bonus incredibile! L’adattamento è stato curato da un autore molto bravo che si chiama Steve Orlando. Ovviamente una traduzione “tradizionale” non avrebbe funzionato, quindi il lavoro che è stato fatto è stato meraviglioso, in inglese ci sono un sacco di espressioni molto particolari e ci sono dei personaggi che parlano in uno slang molto americano, cosa che per ovvi motivi io non avrei potuto fare.

Là il druido oscuro incontrò il suo antico nemico e ne fece il suo nuovo compagno.

Bucci

Avete mescolato “bene” e “male” rendendoli concetti liquidi e anche il finale è stato rispettoso di questa tendenza, ma ci sono personaggi che invece sono sempre rimasti coerenti, attaccati alle proprie convinzioni fino alla fine. È più difficile scrivere personaggi credibili con una forte polarizzazione oppure dai contorni meno netti?
JC: È più complicato gestire un personaggio coerente perché rischi che diventi banale, mentre un altro che si evolve magari è più complicato da scrivere, ma sicuramente è più stimolante. Un personaggio che rimane sé stesso dall’inizio alla fine rappresenta un altro tipo di sfida perché devi renderlo interessante.
MB: Sono d’accordo, devi renderlo anche vivo, renderlo vero. Noi viviamo in un mondo in cui possiamo cambiare opinione sulle cose, anche su cose molto importanti della nostra vita. Quando guardiamo Becky e Taranis, i due personaggi che cambiano molto spesso il lato che mostrano, sono tutti e due colpevoli di cose molto gravi ma sono comunque due personaggi importanti per il mondo nel quale tutto quanto è ambientato: scrivere loro due è stato molto difficile, dal momento che non abbiamo per loro un normale redemption arc, non abbiamo la comune dark hour dei supereroi, perché entrambi è come se non vivessero mai fino in fondo la propria catarsi.

Per definirsi tali, le Storie devono avere una fine, anzi un finale.

In controtendenza con i finali ricchi di suspense di tutti i volumi precedenti, avete scelto non solo, com’era prevedibile, di costruire un finale che rimettesse insieme i pezzi del puzzle, ma avete deciso di dilatarlo molto, dedicandogli una grossa parte dell’ultimo volume. Difficoltà a lasciare andare Becky e gli altri personaggi, esigenza narrativa o magari anche un rimando ad altri finali morbidi e diluiti di altre saghe epiche come (con i dovuti paragoni) quello de Il Signore degli Anelli?
JC: Volevamo dare il giusto spazio a dei personaggi che ci hanno accompagnato per anni, perché sono comunque una parte di me e Marco, sono un lavoro a cui ancora siamo molto legati; prima di tutto per come è nato, perché viene dalla volontà di creare una storia che raccontasse un momento nostro, che avevamo vissuto a causa di una perdita, che è quella del ragazzo a cui è dedicata tutto la saga. Quest’opera è diventata veramente un figlio per noi, perché ci ha accompagnato per tanto tempo e ci sembrava rispettoso trattare accuratamente il finale. Questi personaggi non sono solo carta per noi, non sono solo parole scritte ma sono qualcosa di più e quindi volevamo dargli un finale che fosse il più esaustivo possibile anche per il lettore. Trattandosi di una storia corale sarebbe stato brutto raccontare il finale magari solo di tre o quattro personaggi tralasciando gli altri. E quindi, anche se in maniera breve per alcuni e un po’ più lunga per altri, abbiamo cercato di dare un senso a tutti e soprattutto abbiamo voluto inserire l’epilogo, perché era la cosa che secondo me dava il senso a tutto, cercando comunque di fare qualcosa che non fosse anti-climax.
MB: È vero, anche ne Il Signore degli Anelli l’anello viene distrutto molto prima dell’ultima pagina. E dopo c’è un accompagnare il lettore verso un futuro conducendolo passo dopo passo. Io non credo che non riuscissimo a lasciarli andare, io credo che non riuscissimo a lasciare il lettore senza quell’addio prolungato che, sia chiaro, non è il doppio finale di animo kinghiano, per quanto io apprezzi moltissimo la scrittura di King.

L’eredità di quello che abbiamo vissuto assieme.

Camagni

Ora che il cerchio si è chiuso, come ricorderete questa lunga avventura? Quali sono i momenti a cui siete più legati, sia nella saga in sé, sia per come essa è stata accolta dal pubblico? Magari un episodio o un aneddoto particolare.
JC: In generale proprio il rapporto col pubblico. Abbiamo visto crearsi fin da subito una community, che è cresciuta e si è evoluta negli anni. Abbiamo visto che a queste persone sono nati dei figli, fa piacere perché è come se con il passare del tempo la storia crescesse assieme ai lettori. Magari sono cose che succedono anche con i fan della Marvel, ma in maniera totalmente diversa, coi fan di Nomen si è creato un rapporto quasi “intimo”.
MB: Nel 2019, attraverso la pagina Instagram, abbiamo chiesto ai nostri lettori di allestire un rituale, ritagliando  delle lettere di carta con le quali comporre la parola che per loro incarnava la magia; solo dopo abbiamo detto che avremmo scelto due di questi rituali affinché fossero disegnati all’interno del finale. Jacopo li ha disegnati nel finale di Arcadia #2, ma sono stati riproposti anche in questo terzo volume. Dunque un particolare rituale che risolve una particolare situazione è praticamente fatto dai lettori.
JC: Un altro esempio di interazione forte con i lettori è sicuramente il ritorno di Fer. Noi volevamo che rimanesse morto, ma le richieste per il suo ritorno si facevano sempre più insistenti. Si dà il caso che Marco e io siamo appassionati da tempo immemore del Doctor Who: in una puntata accade che uno dei dottori muore, per poi essere riportato in vita dalla gente del mondo che comincia a credere nel suo ritorno. Abbiamo pensato allora a questa analogia e, nonostante ci sia voluto del tempo perché succedesse in maniera coerente, ora possiamo dire che il suo ritorno è tutto merito del pubblico.

Ci sono ancora tante possibilità inespresse.

Ci sono in cantiere altri progetti che prevedono la prosecuzione di questo sodalizio artistico?
JC: Per quanto riguarda Nomen/Arcadia questo volume è la fine della storia.
MB: Arcadia Omnia sarà la fine della saga, sarà un volume celebrativo, ma nulla sarà aggiunto dopo l’ultima pagina.
JC: Non avendo mai pubblicato nessun materiale di lavorazione, potremo approfittare di Arcadia Omnia per utilizzare l’enorme mole di materiale che abbiamo. Poi chi leggerà la storia capirà qual è l’eredità dell’intera saga, ma meglio non dire nulla in questa sede.
MB: Diciamo che il futuro della saga non è più nelle nostre mani. Vogliamo che le nuove avventure di questo mondo vengano raccontate dai nostri lettori. O almeno questo è il nostro sogno. Il nostro finale perfetto. Quello che non dipende più da noi.

Intervista condotta dal vivo il 2 novembre 2024 a Lucca Comics & Games

Jacopo Camagni

Jacopo Camagni, disegnatore, lavora nel settore dei comics e dell’illustrazione da oltre vent’anni. Nel 1998 disegna per Kappa Edizioni un volume inedito dedicato a Lupin III sotto la supervisione di Monkey Punch, creatore del personaggio. Nel 2008 viene selezionato tra centinaia di artisti di tutto il mondo e comincia a lavorare per Marvel Comics. Per la Casa delle Idee ha realizzato, tra le altre cose, la miniserie Star Wars: Kanan, Longshot, Hawkeye vs. Deadpool, Deadpool the Duck e alcuni numeri della serie X-Men. Nel 2017 disegna una storia breve di Groucho per Sergio Bonelli Editore, su testi di Marco B. Bucci. Dal 2017, con Bucci pubblica per Panini Comics la serie Nomen Omen (proposto anche oltreoceano dalla casa editrice Image Comics) a cui segue il nuovo capitolo intitolato Arcadia. Sempre assieme a Bucci ha lavorato su Simulacri per Sergio Bonelli Editore.

Marco B. Bucci

Marco B. Bucci, classe 1981, è una nuova categoria di narratore. Fotografo, designer, illustratore e scrittore, nel 2004 fonda Studio Dronio con Jacopo Camagni, con il quale lavora a Magna Veritas, fumetto fantasy pubblicato in Francia da Soleil nel 2005. Nel suo percorso ci sono anche la creazione dello scenario del board game Dogs of War per CMON Limited e il gioco di ruolo Memento Mori per Raven Distribution. Si divide tra la fotografia per alcune tra le più blasonate case di moda e la scrittura in tutte le sue forme. Dopo Nomen Omen e Arcadia, è in arrivo a gennaio 2021 Saetta Rossa (Panini Comics), realizzato insieme a Riccardo Atzeni.

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