Capita, può capitare, a me è capitato e continua a capitare, che le discussioni su un fumetto (o anche su un/una graphic novel, se è per questo) abbiano fra i punti più caldi la prevedibilità e il disegno, ultimamente apostrofato con l’orribile locuzione “comparto artistico”. Ripromettendomi di affrontare in un prossimo articolo questo secondo falso problema, vorrei intanto proporre una riflessione sulla faccenda della prevedibilità.
Riflessione che farà essenzialmente leva su un’unica domanda: “che cosa significa che una storia è prevedibile?“ e che spero offra un viaggio interessante. Lungo questo viaggio, attirerò l’attenzione su luoghi affascinanti del territorio attraversato: se non la destinazione, confido almeno il percorso sia interessante.
Intanto, cominciamo dalla fine.
Il ruolo del finale
Conosco persone che sostengono e praticano la non importanza del finale, vissuta come la disponibilità a conoscerlo prima di leggere la storia. Alla base di questa posizione c’è una filosofia di lettura basata sulla centralità del percorso per arrivare alla chiusura, cioè l’intreccio.
Nota: considero opere che propongano una narrazione, per le quali il finale rappresenti effettivamente una fase del racconto. Per opere non narrative, la definizione stessa di “finale” diventa problematica e ci porterebbe molto lontano.
In un racconto, il finale è la chiusura, ciò che viene raccontato per ultimo: non contiene necessariamente “le cose che accadono alla fine”, poiché l’intreccio può non rispettare un ordine cronologico degli eventi – si pensi a tutti quei casi nei quali le vicende sono narrate in flashback. Il finale è tuttavia quello che sigilla il racconto e fornisce al lettore suggestioni o spiegazioni non redimibili: dopo il finale, infatti, non c’è più storia e tutto quello che il lettore può fare è rileggere.
Di fatto, indurre a una seconda lettura è una delle potenzialità principali di un finale – se non addirittura il suo obiettivo fondamentale -, che finisce per dimostrare che le storie sono un corpo unico e che per poterle comprendere o godere al meglio dobbiamo confrontarci proprio con questa loro irriducibilità a farsi sezionare. Se la si inizia a smontare abbiamo un insieme di elementi, ma perdiamo la storia in quanto tale.
Ora, ciò che torna buono per definire modelli astratti di strutture serve appunto a ragionare sulle strutture (indagine peraltro emozionante a modo suo), ma dobbiamo sempre tenere ben presente che una storia non è lo schema astratto a cui può essere ricondotta.
Si prenda per analogia, e non la si porti troppo lontano pena il ridicolo, il caso di un’abitazione. Una cosa sono le leggi fisiche, i vincoli tecnologici, gli stili in auge e le normative da rispettare e altra cosa è l’edificio concreto. Soprattutto perché l’essenza del secondo comprende i suoi abitanti, le vite che in esso e attraverso esso si svolgono, le relazioni con il contesto sociale e urbanistico e così via.
Per dire: Frank Lloyd Wright raccomandava di considerare l’abitazione come il suo spazio interno, perché nel progettare bisognava concentrarsi e considerare che tipo di vita si sarebbe svolta lì dentro. In questo senso, il modello (il progetto) assumeva immediatamente responsabilità etiche e politiche. Ma ci stiamo allontanando e in questa occasione è bene mantenere l’umiltà di un percorso diretto.
Comunque, il punto che qui si intende fissare è che il finale è il modo in cui il racconto spinge il lettore a rileggerlo. Di passaggio, notiamo che questa idea supporta il principio che esista una prima lettura, la cui caratteristica fondamentale è quella di ignorare il finale.
Ma si obietterà: un lettore esperto è in grado di prevedere il finale, perché conosce e riconosce le strutture narrative (e magari le sa classificare in una qualche tassonomia fascinosa, presa dai modelli di Propp, Barthes, Greimas, Genette, Eco e vari altri). O magari è egli stesso un autore, o un genitore che racconta storie ai figli prima di spegnere la luce. Insomma, ha capito come funzionano le cose e per lui le storie sono come i viaggi in treno per i pendolari: destinazione e fermate sempre uguali (orari, quelli no).
Forse è vero, ma forse stiamo guardando la questione nella prospettiva sbagliata.
Una finta divagazione su partite e scommesse (non truccate)
Consideriamo una partita di calcio e le scommesse che le ruotano intorno.
Nello schema più semplice, la partita prevede tre finali: vittoria della prima squadra, vittoria della seconda squadra e pareggio. Questo rende il calcio uno sport prevedibile? Questo vincolo fa forse sì che l’appassionato non segua le partite perché, conoscendo i meccanismi del gioco, sa che il finale sarà immancabilmente uno dei tre summenzionati (naturalmente ignoriamo i casi di finali abortiti, che possono essere causati da una varia casistica: dal maltempo all’invasione aliena)?
No, ovvio che no.
E al riguardo si possono fare due considerazioni. La prima è che comunque tre possibili finali sono comunque tre possibilità diverse, la cui probabilità è misurata dalle quote degli scommettitori. La seconda è che, accidenti, l’appassionato gode dello svolgimento della partita, sia nell’evoluzione del risultato, nel susseguirsi dei colpi di scena, sia nei dettagli delle singole giocate, nel dispiegarsi degli schemi di gioco e così via.
Insomma, a prescindere dal risultato, l’appassionato gode dell’intreccio e del dettaglio tecnico.
Vedete l’effetto perverso dell’astrazione? Parlavamo di una partita di calcio e finiamo con il descriverla con termini buoni anche per una storia.
Che non sia un caso che i grandi cronisti raccontino le partite come storie?
Non tutti i giochi sono uguali
Per indicare le attività ludiche, la lingua inglese ci offre due parole, “play” e “game” in cambio della nostra unica parola “gioco”.
La differenza sta nell’uso di regole: “play” è un’attività non strutturata, un “game“, invece, ha un ambito, un inizio, una fine, un obiettivo e delle regole.
Due ragazzi che giocano a passarsi una palla giocano un “play“; appena i due ragazzi si accordano su regole e obiettivo (tipo: la palla non deve toccare terra; chi non la prende prima che tocchi terra ha una penalità; chi raggiunge cinque penalità perde) passano a un “game“.
Ecco l’analogia: il “play” è come una conversazione informale; il “game” come una storia. Ma, si potrà osservare: “play” è anche la rappresentazione teatrale, un’attività che ha a che fare con le storie. Touché, ma questo perché le lingue e le parole sono mondi e non si può pretendere di imbrigliarle.
Il punto è che, effettivamente, una conversazione informale è imprevedibile, come dimostrano tutti i casi in cui degenera, deraglia o semplicemente si arena o finisce nel nulla. Chiunque impari la professione di moderatore, impara a trasformare una conversazione da informale a controllata da regole, dandole ambito e obiettivo. Cioè a trasformarla in un “game” e a gestirla come tale. Chi ha esperienza di riunioni non avrà difficoltà a capire la differenza.
E le storie? Le storie seguono delle regole e i vari modelli, semiotici e non, ce ne offrono vasto campionario. Questo intanto è un punto importante: possiamo vedere quei modelli come dei manuali di regole di giochi, costruiti osservando lo svolgimento delle partite.
Al riguardo, c’è un famoso scherzo che propone quanto segue: andate con un gruppo di amici in un luogo pubblico dove si giochi a carte. Sedetevi a un tavolo e iniziate a giocare, distribuendo e giocando carte in maniera casuale; gestendo le prese improvvisando, ma senza dar segni di esitazioni. Se siete particolarmente sicuri di voi stessi, lanciate ogni tanto qualche commento sulla giocata.
Ebbene: è molto probabile che qualcuno dei presenti, assiduo giocatore, vi osservi per un po’ e quindi inizi a commentare il gioco. Arrivando perfino a dare consigli. Discutere i suoi consigli può aggiungere una sfumatura surreale allo scherzo.
Alcune precisazioni.
Non intendo affatto dire che i giocatori siano gli autori e gli osservatori i critici e gli studiosi o gli appassionati.
In ogni caso, se ci muoviamo entro la nostra metafora, il gioco giocato ha regole e obiettivi, quindi è un “game”.
E infine, ma non meno importante: i lettori partecipano al gioco.
Un caso semplice: i generi
Non bisogna cercare lontano per trovare “game” narrativi: i generi sono esempi perfetti.
I generi sono individuati da una serie di regole, che riguardano i vari elementi delle storie: dai personaggi agli scenari; dal linguaggio alle scene; dai temi alle suggestioni da valorizzare. Queste regole si manifestano in quelli che chiamiamo luoghi comuni (“topoi“, se vogliamo darci un tono vintage; “pattern“, se preferiamo un’immagine più tecno-scientifica), che sono niente altro che delle “buone pratiche” di scrittura affinché il racconto rientri effettivamente nel genere.
Molte di queste “buone pratiche” si possono consultare non solo nei testi di semiotica o narratologia ma anche nei manuali di scrittura. Se non li conoscete, vi consiglio di dar loro una lettura: ce ne sono, per l’appunto, di ogni genere, soprattutto in lingua inglese.
Nota volante: sia l’espressione “buone pratiche” sia i manuali di scrittura sono sintomi di un sistema di produzione industrializzato. Ma procediamo.
Da “regole” siamo passati a “buone pratiche”: che significa? Stiamo smarrendo la strada?
Al contrario: stiamo dando uno sguardo più attento alla realtà delle cose e così facendo è saltato fuori un punto importante: se pensiamo al raccontare come a un gioco, non abbiamo tanto “plays” da una parte e “games” dall’altra, ma una gradazione continua dagli uni agli altri.
Nei giochi veri non la si ha, per evitare risse, che nascerebbero in conseguenza all’incapacità di risolvere casi non normati dalle regole. Nelle storie, invece, abbiamo sfumature.
E probabilmente questo spiega alcuni casi di discussione più che animata (“lite”) fra lettori, autori e lettori e così via, peraltro alimentate spesso dal fatto che le persone non seguono regole di condotta sostenibili allorché usano i più diffusi canali di comunicazione non diretta, vedi i social network (tecnicamente, si parla di “maleducazione”).
Attenzione: questa dimensione continua della normatività costituisce un grado di libertà, che anche i racconti di genere hanno a disposizione.
Di sfuggita, vale la pena marcare un’altra caratteristica specifica delle regole del raccontare: esse evolvono nel tempo, al punto che le “buone pratiche” stesse decadono e perdono di validità, sostituite (gradatamente?) da altre. I generi nascono, si evolvono, si stabilizzano e poi spariscono (per poi magari tornare fuori dopo un po’: avete presente gli zombie?).
Intanto, ribadiamo che: le “buone pratiche” sono indicazioni di scrittura, non storie e che, eventualmente considerate come definizione di un meta-archetipo di una tipologia narrativa, possono giusto servire a dei maniaci ossessionati dalla catalogazione. In realtà, come tutti i modelli o le classificazioni, sono interessanti quando messi a confronto con qualcosa che sfugge attraverso le loro maglie. Ma questo è un argomento che ci porterebbe lontano e noi dobbiamo concludere.
Ecco, infatti: non si doveva discutere di prevedibilità?
A questo punto siamo pronti ad affrontare la seccante questione della prevedibilità attraverso la nostra metafora ludica. Spero che, alla luce di quanto scritto sopra, le considerazioni che seguono risultino più o meno ovvie.
Adottiamo il più classico degli artifici retorici: andiamo ad analizzare le parole e ribaltiamo le domande che ci vengono poste. Quindi: che cosa è questa “prevedibilità”? Quando scatta il giudizio di “prevedibile” da parte di un lettore?
In generale, una storia è “prevedibile” quando si riesce a indovinarne i passi successivi dell’intreccio, il destino dei personaggi e il finale. Come abbiamo visto, grazie alla prospettiva assunta, il fatto che le storie seguano regole o pratiche ampiamente diffuse rende in linea di principio ogni storia prevedibile, poiché la prevedibilità dipende dall’esperienza del lettore, dalla sua capacità di individuare, nella storia che sta leggendo, degli schemi ricorrenti.
Qual roboante banalità, vero?
Tuttavia, il vero punto è: quando il lettore fa le sue previsioni, non è che semplicemente seleziona una fra varie possibilità che gli si prospettano? Se sì, e questo, alla fine, è quello che distingue una storia ordinaria da uno stereotipo, non è ragionevole (vorrei dire “leale”) parlare di “prevedibilità”, esattamente come nel caso dell’andamento di una giocata o del risultato di una partita di calcio. Ricordate? Un giocatore ha un numero limitato di compagni ai quali passare la palla e solo tre sono i risultati possibili.
Finalmente concludiamo: nella grande maggioranza dei casi, quando diciamo che una storia è “prevedibile”, intendiamo in realtà che quella storia è conforme ad alcuni schemi che (ri)conosciamo.
Nella grande maggioranza dei casi, avremmo usato lo stesso aggettivo anche se intreccio, relazioni e profili dei personaggi e finale fossero stati diversi, ma sempre riconducibili a degli schemi noti. Quindi, sempre in questa benedetta grande maggioranza dei casi, “prevedibile” significa “riconducibile a un genere”. Ma questa è un’informazione che verosimilmente avevamo anche prima di iniziare a leggere quel fumetto: gli X-Men stanno in uno scaffale diverso da Blankets (in effetti, questo accade nelle fumetterie; nelle librerie generaliste no. Punto molto importante, potrebbe meritare una riflessione).
Ma, dirà il lettore: “quello che cercavo era la violazione delle regole, delle abitudini, del canone. Diamine: come lettori ne abbiamo il diritto!” Certo, ma questo è tutta un’altra storia, che ruota intorno al ruolo del lettore come partecipante al gioco (è scritto sopra, potete verificare).
Magari ne parliamo un’altra volta.