Dylan Dog compie venti anni. Evviva! Festeggiamo alla gloria passata, ai ricordi e alle illusioni di una serie che non esiste più!
Festeggiamo, come una veglia di morte per un fumetto che cerca di risorgere ma non riesce, che si muove come uno degli zombie del primo numero mentre cerca di mordere il Dio dell’intrattenimento (probabilmente ucciso da John Doe in altri con-testi) tra qualche guizzo (pochi) e molti passi falsi.
Gioiamo dei nostri ricordi e della fama che ha permesso in passato di veicolare il fumetto al di fuori di certi ghetti, di farne fenomeno di cultura e di massa.
Poi fermiamoci, prendiamo fiato, e dimentichiamoci del doppio numero a colori di anniversario che ha malamente (e momentaneamente) messo fine a una corsa durata 20 anni.
Perché di questa storia in due parti, realizzata dalla mente di Barbato e dalla mano di Brindisi non avevamo davvero bisogno.
Ma c’é, è stata realizzata, a monito di quanto possa cambiare un personaggio e di come possa essere banalizzata la sua matrice e la sua originalità moderatamente ma sapientemente eversiva.
Che l’anniversario potesse essere più fumo che altro lo potevamo già intuire da Dylan Dog 240. Avremmo voluto essere salvati dall’ucronia che dà titolo all’albo, immaginando una realtà alternativa nella quale quel numero non fosse uscito, come i due successivi 241 e 242. Perché un mito, quale Dylan Dog era e rimane, un caposaldo dell’editoria italiana, merita un amore diverso e soprattutto una progettualità diversa.
Che la Sergio Bonelli Editore non sempre brillasse per progettualità ne avevamo già il sospetto. Che di fronte alle grosse icone ci fosse una sorta di rovesciamento – l’inquietudine del gigante dai piedi di argilla – per cui la forza si trasforma in debolezza, ne abbiamo avuto nuova conferma. Infatti Dylan Dog 241-242 sono fumetti strani, atipici per il contesto italiano, ma nel peggior senso del termine.
Col pretesto, vago, di restituire al palcoscenico tutti i protagonisti principali della saga, e l’intenzione mirata e fin troppo esplicita di dare una risoluzione a grovigli di continuity intrecciati da anni di storie tra loro contraddittorie (felicemente e positivamente contraddittorie), Barbato (e Sclavi e Marcheselli) hanno imbastito una storia esplicativa. Per fare “contenti” i tanti nuovi e vecchi lettori, il team creativo ha deciso di rispondere in modo apparentemente definitivo alla domanda circa il rapporto tra Xabaras e Dylan, come se a qualcuno potesse interessare davvero.
Attraverso una storia tutta continuity (in perfetto stile Marvel), poco avvincente quanto obbligata per scelte narrative, senza guizzi, senza brillantezza, con la sola necessità di spiegare (in perfetto stile Bonelli) arriviamo a sapere chi è veramente figlio di chi, di quale secolo sono davvero originari, del motivo della ricerca sugli zombie, ecc. ecc.
A una trama esile, piena di buchi come un groviera, ricca di banalità psicologiche e spesso fuori personaggio (si pensi allo strano affetto di Dylan verso Xabaras manifestato verso la fine del 242), si accompagna una sceneggiatura debole e piatta, dal ritmo lento e prevedibile, con cadute importanti e cambi di registro poco motivati. La conclusione della storia, infine, con il solito colpo di spugna a dare vita a un nuovo inizio, chiede giustizia, non tanto per l’ovvietà dell’escamotage, ma per una semplice e banale constatazione: a differenza dell’Uomo Ragno, di Batman o di chissà quale altro supereroe USA, il (non)eroe Dylan non aveva bisogno di alcuna ret-con [1] né di alcuna ripartenza. Forse la dirigenza Bonelli non ne è convinta, ma delle attuali storie di Dylan non è certo il personaggio o il suo contesto a non funzionare. Sono le idee e il coraggio di trovare uno sceneggiatore disposto a dare nuova voce all’indagatore dell’incubo, in grado di capire come riavvicinare Dylan all’attualità, con i suoi nuovi-vecchi incubi, di restituirgli la forza di essere interprete e mediatore di una società sempre più caotica.
Ma se l’intento di svecchiamento – evidentissimo agli occhi di chi scrive – rappresenta solo una personale fantasia, se questi numeri 241-242 nascono invece dal solo desiderio di celebrare un personaggio e la sua avventura editoriale, allora è stato fatto nel modo più sbagliato. Perché si è deciso di celebrarne gli artifici narrativi – da sempre, gli anelli più deboli della serie – piuttosto che la forza espressiva e comunicativa, la freschezza che ne decretarono il successo.
E se chi ne governa il destino non ha chiaro quali siano le risorse vere e profonde della serie, allora non possiamo che aspettarci tempi grigi, una desolata pensione – ce l’hai fatta, Bloch! – e un progressivo, inarrestabile inaridimento.
Note:
[1] – Ret-con (sta per Retroactive continuity): stilema narrativo (utilizzato in produzioni seriali quali telefilm, fumetti, etc.) che indica l’atto di modificare alcuni dettagli precedentemente stabiliti in uno schema narrativo e che spesso fornisce una spiegazione per i cambi nel contesto dello schema stesso.
Riferimenti:
Sito Sergio Bonelli Editore: www.sergiobonellieditore.it