Di corpi, paesaggi, erotismo e anticonformismo: intervista a Dominique Goblet

Di corpi, paesaggi, erotismo e anticonformismo: intervista a Dominique Goblet

Tra gli ospiti principali di A Occhi Aperti 2024, l'autrice belga è un'istituzione del fumetto indipendente autoriale europeo.
Self Portrait

Ci sono figure del fumetto europeo poco conosciute fuori dai loro confini nazionali, complice anche la difficoltà ad incasellare le loro opere in categorie precise, commercialmente come anche da un punto di vista formale e contenutistico. Eppure, si tratta in certi casi di autrici e autori che hanno un impatto enorme sul modo di intendere e di fare fumetto oggi. Dominique Goblet, fumettista di Bruxelles classe 1967, può essere annoverata tra questi, fautrice di un’espressività artistica sempre tesa alla sperimentazione e alla ricerca che, pur spaziando in varie direzioni, ha al proprio centro il fumetto; un’autrice che, come giustamente detto da Valerio Stivè nel suo articolo per Fumettologica, ha “aperto strade”. Per sottolineare la sua influenza sul panorama fumettistico francese ed europeo, basti dire che Goblet è stata, negli anni ’90, tra i membri del gruppo Frigoprodution e tra i fondatori della casa editrice indipendente Fremok, una delle più attive, dirompenti e anticonformiste esperienze fumettistiche francesi, che annovera autori come Olivier Deprez, Vincent Fortemps, Yvan Alagbé ed Eric Lambé. Proprio con loro, oltre che con l’Association (altro cardine del fumetto indipendente francese) pubblica gran parte dei suoi lavori, quali Portraits crachés (Freon, 1997), Faire semblant c’est mentir (L’association,2007), Souvenir d’une journée parfaite (Fremok, 2001), Les Hommes-Loups (Fremok, 2010), Plus si entente (in coppia con il fumettista tedesco Kai Pfeiffer, Fremok, 2014), Ostende (Fremok, 2022) e Le jardin des candidats (sempre con Pfeiffer, Fremok, 2024).

Souvenir Cover

Ciò che sorprende in questo catalogo, è la varietà di stili di disegno e di racconto padroneggiati dall’autrice, che spaziano dal tratto a matita e pastello scuro, materico e potente di Faire semblant c’est mentir, al gioco continuo di generi, colori, forme e disegno di Plus si entente, fino allo stile pittorico delle tempere usato in Ostende, dove i personaggi, insieme alla narrazione, svaniscono nel paesaggio. A fronte di differenze profonde, le opere di Goblet sono accomunate dal suo vissuto personale, sempre fertile terreno di partenza che viene rielaborato in maniera intima e profonda, trovando strade via via diverse per far emergere questioni care all’autrice: in Chronografie, per esempio, viene indagato il rapporto tra la fumettista e la figlia attraverso una serie di ritratti da loro realizzati nel corso di dieci anni, rendendo il lettore partecipe di un dialogo silenzioso e intenso; Souvenir d’une journèe parfaite e Ostende raccontano di un amore da due prospettive diverse, dall’inizio e dalla fine, sancendo un rapporto tra i personaggi e il paesaggio circostante, che riflette e accoglie i sentimenti dell’artista; Plus si entente rappresenta in maniera impetuosa, quasi claustrofobica, l’amore carnale, ma anche l’impossibilità di un vero contatto profondo, attraverso scene che sembrano venire da storie e mondi diversi, creando sensazioni di assoluto coinvolgimento (anche fisico), totale disagio e spaesamento; in Faire semblant c’est mentir, il lavoro forse più prettamente narrativo dell’autrice, il racconto del rapporto tra padri e figlie, tra compagna e compagno, sono raccontati in maniera quasi fantasmatica, rappresentando distanze fisiche ed emotive.

Goblet Pfeiffer Pse

Da una parte, dunque, Dominique Goblet pone al centro la rappresentazione dei corpi, i modi in cui questi  permettono (o, in certi casi, ostacolano) l’interazione con l’altro (un’attenzione che la avvicina ad altre autrici del fumetto europeo, come Anke Feuchtenberger), dall’altra esplora, attraverso tecniche profondamente diverse che attingono all’arte moderna delle Avanguardie fino a quella contemporanea, il paesaggio. La relazione inscindibile tra queste due direttrici è alla base della poetica dell’autrice, sempre alla ricerca di un modo per raccontare il famigliare negli ambienti che attraversiamo, e attenta a come gli spazi che osserviamo, disegniamo e abitiamo, abbiano sempre qualcosa da dire di noi stessi.

Proprio per queste ragioni, Goblet è stata una delle protagoniste della seconda edizione di “A Occhi Aperti“, il festival internazionale di fumetto e illustrazione svoltosi a Bologna dal 13 al 17 novembre 2024, dal titolo Corpo a corpo: un fragile equilibrio tra il paesaggio e noi. A Goblet è stata dedicata una mostra personale all’interno della suggestiva Ex Chiesa di San Mattia, dove era possibile godere di una vera panoramica sulla sua opera, un percorso capace di riassumere una carriera di grande varietà, complessità e spessore. In occasione del festival, è stata data alle stampe anche la prima pubblicazione in Italia dell’autrice dal titolo Paesaggi di Carne (edito da Sigaretten) in cui sono presenti alcune tavole tratte da Ostende, dipinti e studi.
Per parlare della sua mostra, della sua carriera e dei suoi modi di fare fumetto, abbiamo avuto il piacere di intervistare l’autrice.

Goblet Wresling

Buongiorno Dominique e, per prima cosa, grazie per il tuo tempo. Vorremmo cominciare con una domanda generale, perché il pubblico italiano non ha molta familiarità con il tuo lavoro, mentre in Francia e in Belgio sei stata e sei tutt’ora una delle protagoniste del fumetto indipendente. Vorremmo quindi sapere come sei arrivata al fumetto, quali sono state le tue prime influenze più significative e cosa ti ha affascinata di questo mezzo e delle sue possibilità di espressione.
Al fumetto sono arrivata un po’ per caso, perché inizialmente ho studiato illustrazione. Ma molto presto mi sono resa conto che il mondo della letteratura per ragazzi non era il mio campo: sia mentre ero studentessa che immediatamente dopo, sentivo il desiderio di scrivere di cose che potessero essere rivolte agli adulti, che potessero contenere una certa ruvidità e asprezza. Mi interessavano i legami sociali che attraversano i nostri Paesi, nel mio caso il Belgio, e Bruxelles in particolare, ma sempre rispetto a una dimensione che potremmo definire popolare. E poi le interazioni familiari e la dimensione di coppia, di come queste “strutture” funzionano o non funzionano. Tutti i modi in cui le persone si uniscono, e anche quando falliscono in questo tentativo. Preferivo di gran lunga interessarmi alla gente delle città, piuttosto che al contesto della borghesia o di chi ha successo e ricchezza. Mi affascinava il mondo operaio.
La seconda spinta era data dal fatto che non volevo fare arte su commissione. Un po’ perché avevo un forte spirito di contraddizione, unito al bisogno di affermare la mia personalità, e un po’ perché, è il caso di dirlo, non mi sentivo capace. Mi sembrava di non essere in grado di fare qualcosa in maniera… professionale. Era un modo per nascondere il fatto che non avevo ancora gli strumenti, mi mancava il know-how. Così, piuttosto rapidamente, mi sono allontanata dal mondo dell’illustrazione per bambini. Mi piaceva molto, lo trovavo magnifico, anche estremamente libero per certi versi, ma non faceva per me. Avevo sentito parlare di un gruppo di studenti della mia scuola che si occupavano di fumetto, i quali avevano una posizione abbastanza simile alla mia: volevano fare fumetti, ma non volevano farli nel modo in cui gli editori tradizionali si aspettavano, con la tipica linea chiara franco-belga. Ho pensato che lì potesse esserci qualcosa che faceva al caso mio.
Del resto, trovavo i fumetti più interessanti dell’illustrazione. Mi sembrava un mondo più per adulti, un posto in cui avrei potuto esprimere le cose che mi passavano per la testa, e in particolare una storia personale che cominciavo a capire di dover prendere in mano e trasformare in materiale artistico. Così ho iniziato a lavorare con questo gruppo di fumettisti.
È stato molto stimolante, anche perché avevamo una posizione anti-establishment nei confronti delle case editrici. E poi, dato che eravamo insieme, potevamo avere un peso che non avremmo mai avuto se fossimo stati da soli. Il gruppo si chiamava Frigo ed è nato agli inizi degli anni ’90. Avevamo appena iniziato a pubblicare piccole riviste e avevamo capito in fretta che sarebbe stato complicato fare un fumetto che non fosse affatto mainstream. Avevamo un piede nelle arti figurative e uno nel fumetto e volevamo portare quest’ultimo su un piano più intellettuale. Volevamo allontanarci dall’intrattenimento e portare questo medium con noi.
In realtà c’erano già alcuni gruppi in Europa che facevano la stessa cosa: in Francia c’erano L’Association e Le Dernier Cri. E c’erano gruppi anche in Spagna e in Italia, che, come noi, volevano reinventare il fumetto. Così Thierry Van Esselt, che era il responsabile del gruppo, ebbe un’idea brillante: “Faremo un festival chiamato Autarcic Comix e inviteremo questi gruppi“. In questo modo non solo ci siamo riuniti noi come singoli per formare un gruppo, ma abbiamo anche invitato tutti gli altri gruppi per essere solidi e solidali. Siamo diventati ancora più numerosi.
I primi due Autarcic Comix si sono svolti a Bruxelles, e si tenevano una volta all’anno. Dalla seconda edizione in poi, siamo riusciti a farlo una volta al mese, ogni volta per un fine settimana. Allestivamo mostre anche solo per un weekend di festival. Ovviamente, era una follia. Lo facevamo a Parigi, perché lì avevamo più visibilità che a Bruxelles: tutti i gruppi venivano e noi allestivamo delle mostre flash. Era incredibile. All’improvviso si è venuto a creare del fermento: tutti gli studenti volevano venire, partecipare e la gente ha iniziato a parlarne. È così che sono nati moltissimi fumetti alternativi; ed è sempre lì che i grandi editori hanno iniziato a pensare che stesse succedendo qualcosa di interessante. Era partita una scintilla. All’inizio erano piccoli fumi, ma poi all’improvviso ha preso fuoco.

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Quindi è stato davvero fortuito l’incontro con il fumetto: stavi cercando un mezzo di espressione e lo hai trovato in questo linguaggio e in questi gruppi.
Sì, ma all’epoca ero più ossessionata dal disegno che dalla scrittura. Volevo saper disegnare, ma non vedevo alcun legame tra disegno e lavoro. Per me era più un divertimento, in realtà. Era un hobby. Un hobby molto importante, ma non pensavo che potesse diventare il mio lavoro. Sarebbe stato troppo. Vengo da una famiglia molto modesta ed ero convinta che sarei stata una perdente, che non avrei mai raggiunto il punto in cui mi sarei guadagnata da vivere con il disegno.
D’altra parte, il fumetto mi ha fatto scoprire un mondo in cui ho potuto incontrare tante persone affascinanti e interessanti, intellettuali che pensavano al mondo, che lo ri-pensavano, addirittura… E che disobbedivano alle regole dell’arte. Ma questo non nel senso che volessimo necessariamente fare un’arte più… popolare. Certo non rispetto al fumetto classico, quello sì, popolare. Noi però eravamo insolenti: non ce ne fregava niente dei grandi editori e delle loro stronzate. Eravamo arroganti. Beh, io non ero molto arrogante, perché non era nel mio carattere, ma ero trascinata dall’arroganza dei miei compagni. E pensavo che fosse una figata. C’era una vera lotta, perché venivamo dal nulla. E all’inizio gli editori, i grandi editori, ci sputavano in faccia. Non volevano pubblicarci, ci disprezzavano. La nostra arroganza era legata anche a questo loro disprezzo. Certo, abbiamo anche festeggiato parecchio: c’erano i concerti e tutto il resto. Era davvero folle.
E così, in quegli anni, il mio lavoro ha trovato abbastanza rapidamente un’eco. Sono stata invitata a fare una mostra ad Angoulême e per me era un sogno. È stato nell’anno in cui mi sono laureata alla Saint-Luc. In quel periodo, infatti, ci si chiedeva quale fosse il posto delle donne nei fumetti. Non c’erano ancora molte fumettiste: in quegli anni, nel panorama dei fumetti alternativi, ci saranno state in tutto dieci donne. E adesso dico dieci, ma penso che avrei difficoltà a trovare davvero dieci nomi. Me ne vengono in mente cinque. Se mi impegnassi a fondo, forse potrei riuscire a dirne sette. C’erano Julie Doucet, Caroline Sury, Anna Sommer, Anke Feuchtenberger, Francesca Ghermandi, Gabriella Giandelli ed io. Nella mostra hanno esposto una donna per ogni Paese europeo e per il Belgio hanno chiamato me. Io ho pensato fosse un privilegio, ma in realtà immagino non sia stata una scelta difficile, considerato quante donne facevano fumetto in quegli anni.
Sono stata invitata a soggiornare in un hotel molto bello, mi era stato dato un pass VIP per andare a bere lo champagne. Champagne ogni sera. Da quel momento in poi sono iniziati i problemi, perché il gruppo di compagni che assisteva a questa mia fortuna non era molto contento. Erano un po’ gelosi. Ed erano guai seri. Solo che non avevo ancora capito che era una questione di ego e di dinamiche di potere uomo-donna. All’epoca ero l’unica donna del gruppo ed è stato difficile, perché non riuscivo a pensare a un gruppo migliore di quello in cui stare, in termini di filosofia. Ma in questo frangente mi dissi che, per proteggermi, avrei provato a mettere i piedi in un altro posto, in gruppo più affermato. Volevo entrare ne L’Association.
Questa era il gruppo più importante di fumetto alternativo dell’epoca ed era molto più conosciuta di Freòn, l’editore che abbiamo fondato a partire dal nostro gruppo. Credo di essermi unita all’Association nel ’92-’93, ed era un buon momento non solo per proteggermi da queste dinamiche, ma anche perché in Fréon l’idea era di provare a fare un fumetto un po’ intellettuale, molto letterario, come dicevo, mentre io volevo parlare d’amore, di famiglia e di cose popolari. Un campo in cui si potessero esplorare le emozioni. Non era proprio il loro genere. Invece a L’Association in quegli anni avevano iniziato a sviluppare il genere autobiografico e io fin da quando andavo a scuola avevo un vero e proprio bisogno di elaborare delle cose rispetto al mio passatodi parlarne per liberarmene. Mi sono detta che se avessi potuto affrontarlo in un fumetto, sarebbe successo qualcosa, una liberazione e un allontanamento. Il tempismo per entrare ne L’Association non poteva essere migliore. E quando ho preso contatti con loro, tutti in Freòn hanno cominciato ad essere più gentili. Avevano paura di perdermi, avevo cambiato le carte in tavola. Ma la realizzazione del mio libro [Faire semblant c’est mentir, 2007] è stata molto lunga. Nel frattempo ho scritto altri libri e sono comunque rimasta fedele a Freòn, che poi è diventata Frémok.
In quella fase in cui abbiamo lavorato per diventare una casa editrice, io ho lavorato tanto nel collettivo, ero lì per aiutare in tutto. Eppure, storicamente, il mio nome non è menzionato tra i fondatori… Lo trovo strano. Ancora oggi, anche se ne ho già parlato molte volte con Thierry, non è mai stato incluso. Penso che sia un problema. È un problema. E la dice lunga su un periodo in cui eravamo molto in bilico sulle questioni femministe. Erano gli anni ’80 e ’90 e il femminismo era disapprovato in certi ambienti. C’era molto giudizio sulla posizione delle donne, in particolare sul posto di lavoro. Tanto che all’epoca, come donna, venivi insultata se protestavi contro i maltrattamenti: ti dicevano che eri una femminista, era usato come insulto. “Sei una grassa femminista con la barba e i peli sui piedi, che non si lava e vive con i gatti”.

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Considerato che sei stata una delle promotrici della rivoluzione del fumetto indipendente franco-belga, con un impatto le cui conseguenze si vedono ancora oggi, vorremmo chiederti come è cambiato, secondo te, il panorama del fumetto franco-belga contemporaneo e come ti posizioni rispetto ad esso. Infatti, continui a portare avanti un fumetto di ricerca, come hai sempre fatto, ma il contesto è cambiato. Anche grazie a te.
Credo che ciò che più mi distingua sia il fatto che ho sempre cercato di sviluppare il mio lavoro nel modo che più mi aggrada. Sono sempre stata molto cauta nei confronti delle aspettative che mi circondano. Nei fumetti, ciò che mi interessava era individuare degli stereotipi o dei codici e giocarci in modo impertinente, facendo il contrario.
Lo facevo per il mio temperamento, ma era anche il mio modo di proteggermi. Oggi è un piacere fare il disegno che voglio fare: i momenti in cui disegno non sono mai una tortura, non è qualcosa per cui mi sforzo. Per mantenere questo piacere devo poterlo fare senza chiedermi se sono all’altezza, senza dover compiacere qualcun altro o per soldi. Non voglio disegnare per soldi, non l’ho mai voluto, per questo dicevo che il disegno e il lavoro sono un po’ complicati per me. Secondo me se l’arte si preoccupa dei soldi è finita, siamo fregati. Non ho mai fatto concessioni ed è per questo che oggi mi permetto di fare cose che non sono proprio nello spirito del tempo: sono tornata a prendermi lo spazio per fare tanti paesaggi, quasi alla vecchia maniera, come una pittrice.
Faccio anche questo a modo mio, imbevendolo sia di poesia sia di cose poco piacevoli o poco “carine”: flirto sempre con qualcosa di un po’ inquietante, brutale, ruvido o malinconico. Non è mai una cartolina quella che faccio, non sono mai bei paesaggi. C’è sempre qualcosa di strano o fuori posto.
D’altra parte, sono abbastanza affascinata dal rullo compressore contemporaneo: ci sono tanti giovani che producono cose abbastanza sorprendenti e anche in quel caso ora forse si sta andando in una direzione di cui non mi sento capace. Insegno in due scuole di Bruxelles, l’ERG e la Saint-Luc, quindi ho un posto in prima fila per vedere la tendenza contemporanea verso un fumetto più astratto, con strutture e umorismo assurdi che si allontanano molto dal racconto e dalla narrazione, come il caso di Sammy Stein, per fare un esempio. È il successo del momento, ma mi spaventa un po’ perché c’è il rischio che uno stile, o un modo di esplorare, diventi un genere.
Adesso gli studenti si fanno i complessi se non hanno intenzione di fare un tipo di fumetto nuovo come questo, quando in realtà credo che ognuno dovrebbe cercare di sviluppare il proprio modo di narrare. E ora questa cosa presumibilmente iper-contemporanea, “the place to be” potremmo dire, sta diventando un genere fatto di linee stereotipate, persino tra alcuni miei coetanei. Anche tra i miei colleghi percepisco della preoccupazione: anche loro cercano di conformarsi in qualche modo, o almeno di produrre qualcosa che sia in linea con questa tendenza. Un po’ alla Olivier Schrauwen, per intenderci.
Io sto cercando di non farlo, ma è difficile perché temo che a un certo punto verrò messa da parte come una vecchia signora che non fa più parte del gioco. Penso comunque che preferirei continuare a fare ciò che mi piace e se questo è abbastanza bello, già è un primo risultato. Penso che i fumetti di oggi riflettano lo stato d’animo del contemporaneo, come il fatto che viviamo un periodo molto ansioso. Si parla di eco-ansia, aleggia l’idea che stiamo andando verso la fine del mondo e che gli esseri umani hanno rovinato tutto, e credo che anche per questo motivo ci sia bisogno di fare qualcosa di leggero nell’arte, qualcosa che non racconti troppo. Ci sono molte persone che creano storie del genere, anche abbastanza belle, un po’ poetiche, ma che alla fine non raccontano granché. Credo che in futuro ci sarà un ritorno a una maggiore sostanza nei racconti e finché saremo in grado di raccontare storie in cui c’è sostanza e in cui la forma è secondaria, continueremo ad avere qualcosa di molto potente per capire il presente e noi stessi. Ma, per il momento, la forma è primaria rispetto alla sostanza: la gente fatica a raccontare storie e penso che sia perché siamo in un momento in cui è troppo difficile. Quindi le usa per fuggire. È un po’ come accade prima delle guerre, quando l’arte in certi casi diventa più concentrata sulla forma, sull’astrazione, come è successo per il dadaismo (ma si potrebbero fare vari esempi).
Personalmente, mi è sempre piaciuto leggere fumetti autobiografici. Anche se, solo perché stai raccontando una storia su qualcosa che hai vissuto, non significa che sia necessariamente una buona storia. Sto affrontando un nuovo progetto autobiografico e ho optato per quello che potrei definire uno stile grafico semplice e con poche sperimentazioni. Volevo raggiungere una certa leggerezza nella forma, dato che sto per affrontare qualcosa di molto potente e pesante. Per tornare su forma e contenuto, penso che per scrivere una storia potente sia necessario lavorare sui contrasti. In altre parole, se stai facendo una storia immaginaria su, non so, un omicidio, e lo racconti sfruttando solo lo spettro della pesantezza, finisce che non funziona, che perdi delle cose. Per me quando racconti qualcosa di gravoso devi cercare la luce, è questo che cerco di fare quando lavoro con i contrasti, e per forma e contenuto vale lo stesso discorso.
Forse è una falsa teoria, quella sul motivo per cui ci troviamo in un momento in cui ci si allontana così tanto dalla narrazione. È una mia interpretazione e potrei sbagliarmi, ma credo sia comunque interessante mettere in parallelo questa difficoltà che le persone hanno nel lavorare alle sceneggiature. Quasi non ci sono più persone che lavorano alla sceneggiatura, sono sempre meno, e può essere parte di una moda, ma può riguardare anche il fatto che è sempre più difficile raccontare storie.

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Veniamo a una domanda sul tema del festival, che è il rapporto tra corpo e corpo, ovvero tra corpo e paesaggio. Si tratta di un aspetto che hai affrontato in molte tue opere, in modi diversi: accade in Ostende, ma anche in quello cui stai lavorando ora, Les forêts sombres, ed è un aspetto evidente anche in diverse tavole esposte nella tua mostra qui a Bologna. Nel tuo lavoro, paesaggi e corpi sembrano in alcuni casi contrapporsi, risultano separati come se ci fosse uno scollamento, mentre in altri il corpo collassa, confluisce nel paesaggio. Questi rapporti appaiono spesso fragili, precari e, in Ostende per esempio, sono complicati dall’apparizione di figure geometriche o forme astratte. Volevamo chiederti se ci puoi parlare del rapporto tra l’essere umano e il paesaggio nel tuo lavoro e nella tua ricerca, e se questo ha a che fare con il rapporto tra pieno e vuoto. Che cosa ti interessa esplorare in queste opere?
Rispetto a Ostende, ho iniziato questo lavoro proprio all’inizio della pandemia di Covid: di solito vivo a Bruxelles, ma in quel periodo mi stavo separando dal mio compagno di lunga data e sono arrivata a Ostende, questa città sulla costa settentrionale del Belgio, perché il mio migliore amico vive lì e mi ha offerto di stare da lui durante la pandemia. Sono arrivata con una busta di tempere, uno strumento che avevo usato poco prima di allora: mi piace lavorare con tecniche che non padroneggio bene, perché mi costringe a fare della ricerca. Allo stesso tempo, però, avevo un po’ paura di questa novità, quindi ho cercato un soggetto con cui potessi fare pratica, e il paesaggio era il soggetto migliore, perché nessuno si sarebbe accorto che non lo stavo rappresentando bene.
A Ostende, durante il Covid, attraversavo costantemente degli spazi vuoti, un fatto molto strano perché quella costa è uno dei luoghi più turistici del Belgio, è sempre pieno di gente. Invece era come se all’improvviso fossi stata catapultata a 100 anni prima. Era proprio surreale. E’ interessante la questione del vuoto di cui mi chiedi, perché in quel caso c’era il vuoto dato dall’assenza di esseri umani a causa del Covid, ma c’era anche il vuoto dato dalla separazione dal mio compagno: era un doppio vuoto. Quando ho iniziato questo lavoro dipingendo i paesaggi, volevo fare un racconto sul fatto che gli esseri umani non potevano più avvicinarsi l’uno all’altro, non potevano toccarsi. Volevo parlare di erotismo in un’epoca in cui i corpi non potevano avere un rapporto di vicinanza fisica e scoprire come l’erotismo sarebbe emerso dal paesaggio. Ho immaginato che dietro queste vedute che dipingevo, forse nelle loro pieghe, dietro una duna, o un cespuglio, le persone si nascondessero e si incontrassero per fare l’amore. È per questo che il progetto, di cui Ostende è il primo capitolo di tre, si chiama Derrière (“dietro”): fa allusione a cosa c’è al di là, ma anche al culo, al didietro.
Ho immaginato un campo-controcampo, come se ci fosse una telecamera che guarda prima in lontananza, di fronte a noi, e poi quello che sta accadendo alle nostre spalle. Volevo che i miei dipinti parlassero di paesaggi, ma se giravo la telecamera potevo descrivere una scena erotica. Così ho dipinto diverse vedute pensando che i personaggi non sarebbero mai arrivati, come se li stessi aspettando. Stavo accumulando varie foto erotiche dagli anni ’30 agli anni ’70, come fonte di ispirazione per delle storie da inserire in questi paesaggi, e così, a un certo punto, delle persone sono arrivate sulla mia spiaggia. Non sapevo bene perché gli avessi permesso di arrivare, ma non mi sono fatta troppe domande e solo alla fine, quando stavo organizzando il libro in una specie di ordine, mi sono resa conto che questo testo parlava più di quanto avessi pensato dell’esperienza che stavo vivendo io stessa, di questa rottura e di una ricerca della mia nuova femminilità.
Infatti, tra gli altri arriva su questa spiaggia un personaggio di nome Irène: è molto piccola nel paesaggio, si aggira in questo spazio dove è sola, sta cercando qualcosa, e a un certo punto si gira, va verso il mare, si sgancia il corsetto e lo getta tra le onde. L’ho vista come un’immagine della mia malinconica solitudine, ma anche del desiderio di riappropriarmi della mia femminilità, liberandosi da questo oggetto che la chiude, la costringe. Il libro si conclude con una majorette che in un primo momento è seguita da un gruppo di uomini, ma nell’epilogo cammina da sola, sovrana conduttrice della propria vita. Questi due personaggi sono come due versioni di me stessa, un doppio, l’una ancora malinconica in cerca di nuove prospettive e l’altra che diventa padrona della propria nuova vita. La majorette è anche una figura che guida le donne, le chiama a riunirsi per camminare insieme con gioia e per riscoprire il proprio corpo e la propria femminilità.

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Sembra che questa ambiguità emerga anche in relazione al tuo lavoro sulla luce e sui contrasti. Come hai detto anche nell’intervista che apre Paesaggi di carne, il volume pubblicato da Sigaretten, “Credo che l’unica chiave per raccontare il trauma sia cercare la luce, e per trovare la luce bisogna lavorare con l’ambivalenza, la propria e quella degli altri. In tutti i miei libri, io cerco la luce”. L’importanza della luce può essere legata al trauma della separazione di parti di sé, del vuoto che si apre in questa fessura. C’è un’ambivalenza tra la majorette e Irène che non è una contrapposizione, ma piuttosto lo scoprire due momenti che stanno nel medesimo spazio, in un solo movimento. In che modo questo ha a che fare con la tua ricerca sulla luce?
È un’ottima domanda. Come si sarà capito, disegno molto liberamente ed è solo dopo, spesso quando scrivo i testi, che metto in discussione il mio lavoro. È in questa fase che emergono delle cose ed è quello che accade in Ostende, sulla spiaggia malinconica che gradualmente si illumina attraverso delle forme astratte; ma anche ne Les forêts sombres, dove cerco di esplorare degli aspetti molto bui e oscuri e poi a un tratto iniziano a brillare delle luci. Torniamo a quello che dicevo prima: quando racconto una storia in cui c’è della pesantezza o della durezza, io cerco la luce. Qui però l’ho fatto inconsciamente e quello che dici è vero, alla fine ne Les forêts sombres si tratta di nuovo di questo. Non ci avevo pensato, stavo per dire che al momento sono un po’ insoddisfatta perché non mi sembra di essere ancora riuscita a tirare le fila di quest’ultimo lavoro. Non so bene di cosa sto parlando e allo stesso tempo voglio fidarmi di me stessa e so che ce la farò. Arriveranno degli elementi nuovi. Sento che mi piacerebbe inserire dei pavoni. E anche dei pipistrelli.
C’è ancora qualcosa che deve succedere e che non ho ancora raggiunto. Ad esempio, non avevo pensato alla luce in questo modo, lo trovo interessante. In questo caso per me c’è anche l’idea di quanto ci si possa spingere nel creare un’immagine scura, ma essendo comunque in grado di far capire di cosa si tratta. In un certo senso, significa sondare fino a che punto si è in grado di sfidare le proprie paure e affrontarle, di confrontarsi con la stessa cosa fino al punto in cui si riesce a disegnare con il nero, creando qualcosa che sia comunque riconoscibile.
Rispetto a queste presenze, dovete sapere che ne Les forêts sombres, che sarà la seconda parte del progetto Derrière, c’è ancora la majorette: cammina nel bosco e suona una grancassa chiamando altre donne. Queste arrivano e si spogliano nella foresta. A questo proposito, vale la pena nominare un altro mio progetto, che sto portando avanti parallelamente a Les forêts sombres. Si tratta di un progetto video sul significato della seduzione. Il corpo femminile dopo una certa età non è più quello della giovinezza, è in una fase in cui si trasforma, e cambia anche l’idea che il mondo ha del desiderio in relazione al corpo femminile. Il progetto prevede che io passi del tempo con delle donne. Voglio realizzare dei video con loro protagoniste, ambientati in un paesaggio naturale, forse il mare, magari una foresta, un bosco. Chiedo loro di farsi riprendere nell’atto di spogliarsi, non necessariamente con una ripresa frontale, ognuna sceglie il proprio modo. Viene a crearsi una raccolta di donne che si denudano completamente, mettendosi in relazione a una domanda che mi sono posta: cosa succede quando il tuo corpo non è più quello che ci si aspetta, ma anche quanta liberazione c’è nell’atto di mostrarlo? Sarà anche la prima volta che mi confronterò con il video come mezzo espressivo.

© Dominique Goblet Les Deux Cercles 2023 Kopie

Ti facciamo una domanda sulla tua mostra personale che hai qui, al festival “A occhi aperti” a Bologna. Si tratta di un’esposizione che comprende tavole tratte dalla maggior parte dei tuoi lavori, una vera e propria panoramica sulla tua opera. Ed è anche allestita in un luogo particolare, l’ex chiesa di San Mattia, da poco restaurata. Puoi raccontarci come è andato l’allestimento e che tipo di dialogo si è instaurato con lo staff del festival e con questo spazio?
Ne discutevo ieri con Gwénola Carrère: entrambe abbiamo parlato moltissimo con il team di “A occhi aperti” per realizzare le mostre. Non credo di aver mai incontrato un’organizzazione che si prenda così tanto tempo per conoscere l’artista e per capirla, per avvicinarsi il più possibile al suo approccio. Il lavoro che hanno fatto è straordinario. In effetti, come si fa a presentare il lavoro di un artista se ci si concentra solo sul fatto che fa delle belle immagini e in realtà si sa poco di lui? Basta pensare alle difficoltà di cui ho parlato come donna cresciuta nel mondo dei fumetti: questo fenomeno si è certamente riflesso nel mio lavoro. Lo stesso vale per le mie relazioni, sia lavorative che non. In qualche modo tutto è collegato. Non credo che avremmo potuto realizzare una collaborazione artistica così forte con il team del festival se non fossimo passate da questo confronto. Mi ha davvero sorpresa trovare un gruppo così umanamente caloroso. Senza contare che tutte queste conversazioni vengono registrate, stanno costruendo un archivio incredibile, e non solo di me, perché suppongo che lo facciano ogni anno. Sono documenti sonori preziosi, un giorno potrebbero diventare un libro e sarà una testimonianza del tempo che abbiamo passato insieme.
Rispetto alla mostra, all’inizio volevo fare qualcosa di sobrio, ma, considerato che il pubblico italiano non conosce bene il mio lavoro e che cambio anche di molto il mio stile tra un lavoro e l’altro, il team ha pensato che sarebbe stato meglio permettere al pubblico italiano di avvicinarsi alla mia opera attraverso le sue diverse sfaccettature. Inizialmente volevo mostrare solo Les forêts sombres, perché è quello su cui sto lavorando al momento, e magari nelle pareti intorno mettere delle stampe molto grandi di Ostende. Ho seguito le loro richieste perché capivo le loro argomentazioni e sentivo che si trattava di qualcosa di ragionato. Spero sia stato interessante per il pubblico avere l’opportunità di vedere che un’artista può anche non avere un suo stile particolare.
Rispetto all’allestimento, ho suggerito io un ordine perché ho una certa dimestichezza con gli allestimenti, li faccio spesso da sola. Per me non è così diverso dal disegnare: faccio delle associazioni tra le tavole e lo spazio, e si viene a creare come una partitura, con tensioni e respiri.

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A questo proposito, abbiamo un’ultima curiosità: i tuoi fumetti, i tuoi testi, cambiano nel momento in cui li esponi in una mostra? Raccontano cose diverse? O aspetti diversi della stessa cosa?
Non ho una vera risposta. Però mi viene in mente che per Le jardin des candidats, l’ultimo libro che ho fatto con Kai Pfeiffer, abbiamo accumulato tantissimo materiale, utile per sviluppare all’occasione delle mostre che cambiamo di volta in volta in base allo spazio che le ospita (in particolare quando è coinvolto un giardino, che è la dimensione che ci interessa in questo lavoro). Ma, per quanto il materiale sia cospicuo, la storia è contenuta in quelle carte e se cambi la loro configurazione, difficilmente cambierà il contenuto della storia, almeno in questo caso.
Un discorso simile vale per Ostende. Per la mostra a Bologna ho fatto una proposta che non avevo mai fatto prima, ovvero una linea non cronologica: dato che molti quadri sono stati venduti, ho dovuto lavorare con quelli che avevo ancora, ed è stato interessante perché ho creato nuovi… accordi. Ma per me si tratta di un nuovo brano musicale che racconta la stessa storia e si basa sullo stesso tema. È ancora possibile sentire la questione della malinconia, il rapporto tra l’amore e il desiderio, l’erotismo latente, la nostalgia, la voglia di nuovi orizzonti e poi la musica che arriva come una piccola fanfara. Il filo, sottile, rimane lo stesso, no? Penso che in Ostende questo sia particolarmente chiaro, c’è qualcosa di molto forte sotto, o tra le righe, che resta.

Intervista realizzata il 15 novembre 2024 a Bologna in occasione del festival A occhi aperti.
Si ringrazia l’Ass. Hamelin per l’organizzazione e Ilaria Tontardini per il supporto nella traduzione durante l’intervista.

Dominique Goblet

Goblet Foto

Dominique Goblet (Bruxelles 1967) è un’artista, illustratrice e fumettista belga. Ha studiato illustrazione all’accademia Saint-Luc di Bruxelles.
Dagli anni Novanta si unisce al gruppo di avanguardia artistica franco-belga Frigoprodution, che in seguito diventerà la casa editrice Frémok, una delle realtà più interessanti del fumetto indipendente europeo. Successivamente, si unisce anche all’associazione artistica L’Association, caposaldo del fumetto sperimentale e alternativo francese.
Tra gli anni Novanta e i Duemila pubblica diversi lavori ed espone le proprie opere in mostre collettive e personali. Il suo stile si distingue per una sperimentazione e una ricerca continue, cambiando di opera in opera.
Dal punto di vista narrativo, Goblet pone al centro questioni quali la memoria, la morte, l’amore, il rapporto tra genitori e figli, il corpo femminile e il rapporto con il paesaggio, sempre partendo dal proprio vissuto. Vive a Bruxelles e insegna disegno narrativo all’accademia ERG – École de recherche graphique.

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