A Lucca Comics & Games 2022 abbiamo incontrato Bruno Luverà, vicedirettore del TG1 e curatore della rubrica Billy – il vizio di leggere. Raus – fumetto sporco è il titolo della graphic novel, edita da Comicout, con la quale fa il suo esordio nel mondo del fumetto come autore unico. Con Bruno si è sviluppata una interessante discussione sul rapporto fra televisione, comunicazione e fumetto, che ha messo in evidenza un ambiente con scarso coraggio e voglia di rischiare. Ma anche parole sul passato, dal campo di concentramento di Mauthausen al più leggero Supergulp degli anni Settanta.
Ciao Bruno, grazie per il tempo che ci dedichi. Raus – fumetto sporco, è la tua prima graphic novel: come nasce e com’è stato passare dal linguaggio giornalistico a quello del fumetto?
Si può dire che è stata una vera e propria avventura. L’idea è nata quattro anni fa da una vacanza in Austria con la famiglia, lungo la pista ciclabile del Danubio. Abbiamo pensato di provare a lasciare una traccia di questo viaggio attraverso il segno e la carta, invece che con il racconto digitale, cioè fotografie e filmati fatti con lo smartphone. Questo perché il rischio, oggi, è che la tecnologia corra molto veloce e produca una sorta di oblio della memoria. Tutto quello che noi catturiamo attraverso le foto o i filmati, passato un certo tempo, si rischia di perderlo anche se cerchiamo di conservarlo affidandoci a memorie esterne. O per insipienza, o perché la tecnologia corre troppo, o per nostro disinteresse. Al contrario conserviamo le foto dei bisnonni, dei nonni, le foto dell’inizio del secolo, proprio perché stavano su carta. Oggi tutto quello che noi registriamo, della nostra vita, dei nostri momenti più belli e felici, rischiamo che finisca nell’oblio, cancellato dalla memoria. Questa idea, questa riflessione, mi ha spinto a cominciare a disegnare e a raccontare per disegni ciò che succedeva durante la vacanza.
Quali sono le tematiche che ti sei trovare ad affrontare?
Il tema fondamentalmente è il viaggio, che è naturalmente la metafora della vita. Anche questa, se vuoi, è una grande gita. Per cui raccontiamo un viaggio lungo la pista ciclabile, che si svolge a una velocità diversa, molto più naturale. Una delle mie figlie dice “andare in bicicletta è come nella vita, devi guardare sempre avanti con un cuore gentile”. Quindi c’è il tentativo di riscoprire la lentezza, di guardare il paesaggio, le persone e farlo senza correre. Quando sali su un treno ad alta velocità raggiungi Roma, da Firenze, in un’ora e mezza e da Milano in tre ore e non è possibile cogliere quello che si potrebbe viaggiando molto più lento. Viviamo in una società accelerata, è come se fossimo o su un treno ad alta velocità oppure in un grande frullatore e non rimane nulla, se non brandelli di tempo, perché non siamo mai padroni del nostro tempo. Ecco, la vacanza è servita a rallentare e riacquisire una dimensione possibilmente umana e naturale. Il fumetto serve e restituire questo messaggio, cioè: si può vivere. Poi, quando torni in città purtroppo le dinamiche e i tempi cambiano, però si può provare a vivere in una dimensione diversa, scoprendo anche un paese diverso come l’Austria, ricostruendo le storie dei personaggi artistici che l’hanno fatta grande, da Kokoschka a Klimt, quindi le luci e le ombre, il passato. Ad esempio siamo stati nel campo di concentramento di Mauthausen e lì una delle mie figlie mi ha chiesto se dalle docce usciva l’acqua o il gas. Noi avevamo pensato di non portarle a vedere i forni credendo avessero un impatto emotivo molto forte, ma non avevamo capito che in realtà le docce sono peggio, perché al contrario di un forno crematorio che non è presente nelle abitazioni, in tutte le nostre case c’è una doccia e quindi l’idea che da lì possa uscire la morte invece che l’acqua è molto più drammatica. È stata un’esperienza che, da genitori, ci ha insegnato tanto.
Prima di questo graphic novel disegnavi già? E come hai sviluppato il segno per Raus?
Prima facevo delle vignette per divertimento personale, magari per sdrammatizzare le tensioni quotidiane. Poi ho cominciato a disegnare e ho scoperto che più si lavora, più il tratto cambia. La lavorazione di Raus è durata quattro anni e le tavole del periodo iniziale sono molto diverse da quelle della fine. Il segno si evolve e Raus, da questo punto di vista, è stato anche un viaggio nel segno, che costruisce un disegno completamente diverso. In pratica è rimasto un 30% del primo impianto del libro, vale a dire che il 70% delle tavole sono state completamente rifatte. Buttate e rifatte, perché a distanza di 3, 4 anni, io non mi riconoscevo più in quel segno.
Il fumetto sta attraversando un periodo d’oro, con vendite che a volte pareggiano o superano quelle della narrativa. Credi che attraverso il nostro linguaggio si possano raccontare, meglio che attraverso altri, anche situazioni drammatiche e complesse sotto il profilo socio-politico, come la guerra? Ad esempio Zerocalcare è uscito con No sleep till shengal e Igort con Quaderni Ucraini, diario di un’invasione…
Secondo me il fumetto integrato alla parola, al racconto, alla ricerca, all’inchiesta giornalistica, può allargare lo spettro delle persone interessate a conoscere una storia in profondità. A me ha colpito per esempio una recente pubblicazione con dei disegni di Kafka. Lo scrittore, prima di morire, aveva detto di bruciarli tutti, invece sono stati conservati e pubblicati. Ora, nell’intertesto dei suoi racconti a un certo punto compaiono questi disegni che completano il testo: in pratica quando la parola non arrivava, Kafka disegnava ed è la prova che il segno riesce a andare avanti, oltre. La comunione, la coesistenza, per meglio dire la convivenza tra segno e parola dà una forza di racconto maggiore rispetto alla parola da sola. Non è un caso per esempio che una delle prime graphic novel sia stata realizzata da Dino Buzzati. Perché quando tu hai da raccontare qualcosa puoi farlo alternativamente o attraverso le parole o attraverso il disegno. Se poi sei fortunato e riesci a farlo con tutti e due gli strumenti, secondo me raggiungi più in profondità l’obiettivo di raccontare, di comunicare.
Come è nata la collaborazione con Laura Scarpa e Comicout?
Ho pensato al mio primo fumetto come a un’opera sperimentale molto underground e con un segno sporco. Non sono un disegnatore, questo va chiarito, però amo disegnare anche perché il disegno aiuta a far uscire un flusso di coscienza. Avevo parlato di questo a Laura prima del lockdown, lei ha mostrato interesse, chiesto di lavorarci su per sviluppare meglio la narrazione e nella lunga pausa dovuta ai due anni di emergenza covid abbiamo quindi dato forma a Raus. Quando Laura ha confermato che il lavoro fatto era stato positivo è stato un momento gioioso anche perché da non fumettista, da non disegnatore, da persona che fa tutt’altro lavoro insomma, non è scontato riuscire a pubblicare un graphic novel. Tra l’altro era anche il tentativo di riprendere il percorso di ricerca che avevo fatto vent’anni fa con altri libri, dei saggi. Raus invece è proprio un fumetto, in cui rientrano anche aspetti culturali, politici e soprattutto esistenziali grazie al messaggio “riconquistiamo una dinamica di vita più naturale, più vera, meno stressata”.
È stato più impegnativo lavorare sui testi o sui disegni?
Sui disegni. I testi vengono più facili così come i giochi di parole, la dinamica del racconto. Invece la costruzione del disegno, delle tavole, la loro coerenza, soprattutto all’inizio non sono aspetti facilissimi anche per la relativa grammatica che si deve imparare.
Hai in programma altri viaggi con la famiglia da cui pensi di trarre un fumetto? Oppure vorresti realizzarne uno di tutt’altro genere?
Non dico di no. L’ultimo viaggio è stato in Marocco, a Marrakech, un mondo completamente diverso e affascinante. Anche lì ho cominciato a prendere appunti a fumetti, a lasciare tracce su cui costruire eventualmente una storia, ma non so ancora se uscirà un libro. Quello che ho capito è che un lavoro, perché rimanga, perché lasci traccia, perché abbia valore soprattutto per chi lo fa, ha bisogno di tempo di maturazione: un fumetto che vede la luce dopo quattro anni, ha anche un significato di condivisione di un percorso di profondità. Curando la rubrica dei libri del TG1 ho visto come il mondo dell’editoria tende, se qualcosa funziona, a farti diventare subito un “prodotto” e quindi devi subito uscire con un altro prodotto perché lo vuole il mercato, altrimenti si dimenticano di te. Secondo me invece un modello da seguire è quello di Vittorio Giardino, che si è dato dei tempi lunghissimi per realizzare delle vere e proprie opere d’arte, dei racconti di profondità. Così un fumettista può essere davvero un intellettuale, perché si concede il tempo, per la ricerca e per il disegno. Bisogna uscire un po’ dalla logica del mercato, perché così, secondo me, non funziona.
Credi che la televisione italiana dia abbastanza spazio e risalto al mondo fumetto?
Secondo me troppo poco. Ti faccio un esempio. Avevo notato, quando veniva usato molto Facebook come social media, quindi quattro o cinque anni fa, un articolo de La Stampa di Torino su Supergulp, la trasmissione dei fumetti in tv degli anni ’70, su cui è cresciuta la mia generazione. Aveva 100.000 condivisioni, 100.000 visualizzazioni. Vuol dire che c’è un mondo che è rimasto attaccato a quel tipo di trasmissione e di informazione sui fumetti. Oggi lo spessore del fumetto si è allargato tantissimo, come strumento puoi raccontare qualunque cosa e ci sono dei dei veri e propri artisti. Eppure oggi non c’è una trasmissione come fu Supergulp. Questo è un limite enorme.
C’è solo Wonderland che però abbraccia tutto il mondo pop, non solo il fumetto.
Sì e che però è nei canali, diciamo, digitali tematici. Supergulp andava se non mi ricordo male su Raiuno. Cioè, è diverso.Perché è così difficile rischiare oggi?
Secondo me c’è un pregiudizio, cioè che i libri non fanno ascolto e men che meno i fumetti. Non è assolutamente vero. Oggi il fumetto è una sorta di congiunzione, di porta girevole con il libro scritto. È cultura ma è anche televisione. È cartone animato. Basta vedere quello che ha realizzato Zerocalcare con Strappare lungo i bordi che unisce segno e poesia in un cartone animato ma dopo aver fatto un percorso sulla carta stampata e quindi sul fumetto scritto. E il gioco, anche i giochi sono un mondo pazzesco che ha a che fare e si integra con il fumetto. Basta vedere Lucca Comics e il successo che ha. Tutto questo dovrebbe far riflettere. Ci vuole un po’ di coraggio e soprattutto uscire dal pregiudizio che la cultura non fa ascolto. Non è così.
Intervista condotta dal vivo il 30 ottobre a Lucca Comics 2022.
Bruno Luverà
Skizzo, alias Bruno Luverà, è giornalista, scrittore, vicedirettore del TG1, curatore della trasmissione domenicale Billy il vizio di leggere, con una pagina dedicata ai fumetti.
La sua esperienza professionale è cominciata a Radio Radicale, nel 1982. Nel 1989 si trasferisce a Bolzano, al quotidiano Il Mattino dell’Alto Adige. Nel 1989 è a Berlino alla caduta del muro. Collabora con «L’Espresso» e il «Corriere della Sera». Dal 1993 è giornalista della Rai, prima alla TGR, quindi al Giornale Radio. Dal 1999 è al TG1. Nel 2002 è vincitore del premio giornalistico Saint Vincent, con il servizio televisivo sul G8 di Genova. Dal 2010 cura la rubrica dei libri del Tg1 Billy e la relativa pagina Facebook Billy il vizio di leggere. Libero docente di giornalismo all’Università IULM di Milano, collabora con la facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino. Autore di saggi, qui è al suo primo fumetto.