Da poco pubblicato da Coconino Press, Il colore delle cose è il primo graphic novel del ginevrino Martin Panchaud, vincitore del Fauve d’or per il miglior album al Festival di Angoulême 2023. Un lavoro che fonde il linguaggio del fumetto a quello dell’infografica, cercando di raccontare una storia che si muove tra differenti generi. Un’opera che lascia stupefatti per la precisione con cui unisce una tecnica minimalista ed essenziale a un bisogno di raccontare una vicenda che riesca a suscitare forti emozioni e sentimenti.
Abbiamo incontrato Panchaud durante un Press Café a Lucca Comics & Games 2023 e, tra uno sketch realizzato con il suo fido pen plotter e qualche dimostrazione dei programmi utilizzati per realizzare il suo lavoro, ha dialogato con la stampa raccontando un po’ della sua carriera e come è nata questa sua prima opera: “Appena iniziai a frequentare la scuola dell’obbligo mi trovai subito in una situazione terribile. A causa della mia dislessia avevo difficoltà a leggere e scrivere. Con non poca fatica ho affrontato questo periodo fino a quando sono riuscito a iscrivermi a una scuola di fumetti all’età di sedici anni: in quel momento mi si è aperto un nuovo mondo. Imparare a conoscere questo medium è stato per me di vitale importanza. È ciò che mi ha permesso anche di seguire successivamente un percorso per diventare graphic designer”.
D’altronde c’è una grande tradizione di grafica in Svizzera, soprattutto a Basilea (dove appunto ha sede l’importante Basel School of Design): “I miei insegnanti avevano un’ottima formazione e provenivano proprio dalla scuola di Basilea. Sono riusciti a trasmettermi molto di quella realtà. Questo mi ha permesso di approfondire nel dettaglio tecniche che mi hanno aiutato ad aumentare la mia visione dello spazio. Sono stato in grado di acquisire una capacità di posizionare ogni elemento precisamente nel punto esatto in cui sarebbe dovuto essere e un’attenzione straordinaria alla composizione, tant’è che questo bagaglio me lo sono portato dietro anche quando ho cominciato a fare fumetti in modo più professionale. Ciò mi ha permesso di avere in alcune situazioni un’ispirazione che era quella giusta senza che io me ne accorgessi: una volta, per un lavoro importante, impostai una doppia pagina in un modo che non ritenevo adeguato. Ci lavorai dunque tutto il giorno, rifacendola e ricomponendola varie volte. Alla fine arrivai a un risultato soddisfacente. Mi accorsi però che era praticamente identica alla prima che avevo inizialmente scartato! Questo per ribadire quanto quel tipo di formazione mi abbia aiutato ad acquisire strumenti che sono stati fondamentali per ampliare profondamente le mie capacità“.
Sempre nella prima parte della sua carriera, è stato poi sicuramente il rapporto con i suoi compagni a fargli capire che tipo di strada intraprendere: “Negli anni di studio, sono anche riuscito a creare una fanzine con degli amici che inizialmente mi ha permesso di sperimentare con attenzione un linguaggio che si avvicinava parecchio al mondo del graphic design. Ho potuto lavorare molto e in libertà, per me è stato un vero e proprio laboratorio dove sono arrivato a concretizzare uno stile minimale dove la legge era less is more“.
Anche le fonti di ispirazione non sono mancate, nonostante la dislessia non gli permettesse di ampliare completamente i suoi orizzonti: “Purtroppo a causa del mio disturbo non ho letto molti libri e non ho mai avuto nemmeno una grande cultura fumettistica. Le mie ispirazioni vengono principalmente dal cinema e dal videogioco. Mi sono avvicinato più intensamente alla letteratura nel momento in cui ho iniziato ad ascoltare audiolibri: l’ascolto di un classico come “Lo straniero” di Camus mi ha fatto appassionare successivamente anche al romanzo“.
Ma da dove viene il titolo di questo suo Il colore delle cose? “Quando ho iniziato il libro avevo scelto quel titolo con qualche titubanza, poi però l’ho lasciato perché ho capito che era quello giusto. Per me il colore è un modo per permettere al lettore di applicare una propria prospettiva alla visione del mondo, è un qualcosa che può essere interpretato, che va al di là di se stesso, il suo senso è sempre differentemente interpretabile. I personaggi inoltre non a caso sono cerchietti colorati. In questo senso, quel ‘colore delle cose’ è ciò che noi vediamo nelle cose stesse e il messaggio che esse ci comunicano a seconda appunto del colore che hanno“.
Tra le sue ispirazioni fumettistiche principali ci pare di intravedere Chris Ware. Gli chiediamo anche che valore ha il bianco nel suo lavoro, visto che si parla di colori e quello è un non colore: “Sì, Chris Ware per me è stato un autore fondamentale. Quando l’ho scoperto nel 2000, quando uscì Jimmy Corrigan, il ragazzo più in gamba sulla terra, per me fu e proprio shock e sicuramente mi ha influenzato molto. Per quanto riguarda l’uso del bianco, ha una funzione decisamente importante: serve a guidare attraverso lo spazio il lettore, a condurlo tra gli elementi che inserisco nella tavola“.
Panchaud pensa poi che il linguaggio del fumetto abbia nel segno la sua massima potenzialità espressiva: “Una delle qualità che adoro del fumetto è la capacità che ha di permettere al lettore di immedesimarsi facilmente nei personaggianche se a me sembra una cosa a tratti assurda. Prendo l’esempio di Tintin: alla fine non è che uno smile con un ciuffo. Per il mio Il colore delle cose è come se avessi fatto un passo indietro: ho ridotto all’osso questo tipo di concezione del segno e ho fatto dei personaggi semplicemente dei piccoli cerchietti colorati. Ho dato emozioni a quei cerchietti. Spero di essere riuscito nell’intento di rendere ancora più essenziali e minimali i personaggi“.
E cosa pensa Martin dell’intelligenza artificiale? Crede che possa essere una minaccia per il suo lavoro? “In realtà chiunque potrebbe utilizzare questo tipo di segno, non solo l’intelligenza artificiale. Questo è dovuto, credo, alla sua semplicità ed essenzialità, ma per me non è un problema. Penso comunque che l’AI non comporti una minaccia, essa lavora su meccanismi di replicazione e quindi chi la teme è chi non lavora approfondendo i propri processi creativi, ma al contrario opera in un contesto di schemi prestabiliti e ripetitivi. Non penso dunque in questo senso che la creatività umana possa essere limitata dalle macchine“.
Quello che capiamo dopo questa conversazione è come Panchaud abbia lavorato molto per definire la sua cifra stilistica. È un qualcosa a cui tiene già parecchio e che pensa di perfezionare, ma non di modificare più di tanto: “Sono soddisfatto del mio stile, credo che molti degli esperimenti che ho fatto mi abbiano permesso di capire bene quale fosse quello che desideravo poter applicare ai miei lavori. Ciò mi aiuta ad affrontare con più facilità i problemi. Una delle sfide che adoro è quando mi si presenta una scena che ho bisogno di rappresentare con un determinato contenuto, ma non so in che modo posso rappresentarla. Quindi devo prendermi tutto il tempo per poterla organizzare e per successivamente realizzarla. In questo caso, quello che mi dà più soddisfazione è quando mi accorgo di non riuscirci e tutto a un tratto, invece, trovo la soluzione. È veramente bellissimo! Mi piace quando devo fare cose difficili, quando ho la necessità di trovare soluzioni per problemi complessi, non mi piacciono insomma le cose semplici. Per il futuro credo quindi che la mia opera continuerà a basarsi su questo tipo di impostazione, sicuramente cercando di far confluire il più possibile al suo interno tutto quello che riuscirò ad apprendere dal mondo della grafica e dalle arti che più amo“.
Martin ci lascia alla fine con una speranza per la nona arte e il suo futuro: “Quello che mi auguro è che il fumetto si mantenga uno spazio all’interno del quale si possa continuare a sperimentare e a far confluire linguaggi provenienti da più discipline e arti. Credo che questo possa rendere questa arte sempre viva e capace di appassionare e far riflettere sulla sua natura e su quello che ha da comunicare. Credo che ne avremo davvero bisogno“.