Che conosciate o no i fumetti di Michele “Zerocalcare” Rech, l’inedita storia La città del decoro, pubblicata domenica 10 maggio 2015 sul supplemento culturale de La Repubblica, rappresenta un ottimo compendio della sua tecnica fumettistica.1
Perché, con buona pace della pletora di osannatori e detrattori che sembrano interessati solo a discutere del suo straordinario successo editoriale in termini di “caso”, di tirature, di riferimenti cross-mediali, di premi più o meno meritevoli, c’è un solo dato imprescindibile da cui partire: Zerocalcare fa fumetti. Ed è su questo che vorrei soffermarmi, provando a evidenziare alcune caratteristiche dello stile dell’autore per capire (spero) meglio come “funziona” la macchina narrativa che avvince un pubblico sempre più vasto.
Formatocalcare
Prima di tutto, partiamo da qual è il tipo di fumetto di cui stiamo parlando. La storia è composta da sei tavole, ciascuna articolata in un numero di vignette estremamente variabile: si va da tav. 1 costituita da appena due vignettoni a tav. 5 che ospita addirittura undici vignette diverse, la cui taglia è altrettanto mutevole. In sostanza l’ampiezza delle vignette non segue altra regola che la proporzionalità al livello informativo del racconto. La dimensione dei quadri è sempre strettamente legata al contenuto, cioè le informazioni offerte dai balloon e dalle didascalie, così come quelle date dalla figurazione stessa (espressioni, azioni, oggetti…).
Refrattarie a qualsiasi virtuosismo fine a se stesso, queste scelte visive sono consacrate a fornire un percorso lineare e piano all’occhio del lettore. In fondo, ciascuna delle sei tavole, pur avendo un suo inequivocabile equilibrio di layout, potrebbe essere rimontata in un diverso formato senza perdere in fluidità. Per paradosso, visto che parliamo di un autore che deve il suo successo iniziale alla diffusione delle sue storie sul web, La città del decoro è un fumetto di taglio classico, in cui i ritmi grafici sono sempre messi al servizio della parola.
Ogni maledetto balloon su due
Se colleghiamo quanto annotato sull’architettura flessibile delle tavole e sul taglio calibrato di ciascuna vignetta, notiamo quanto la collocazione dei balloon sia fondante nella composizione di ciascuna inquadratura. In certi casi, il disegno sembra costruito attorno ai dialoghi dei personaggi. A volte, il parlato arriva persino a sovrastare il disegnato e questo avviene sempre per dare efficacia al valore delle parole nella narrazione.
Che la parola sia centrale nello sviluppo della storia diventa inequivocabile quando spostiamo l’analisi dalla composizione grafica allo sviluppo della trama e al “cast” che Zerocalcare porta in scena. In particolare, qui come nelle sue storie precedenti, troviamo un protagonista/narratore, simulacro dell’autore dentro il racconto che propone costantemente le sue idee, e un secondo personaggio (in questo caso un serafico robot “generatore automatico di obiezioni”, in altre storie quasi sempre L’Armadillo/coscienza) che propone un punto di vista opposto o comunque differente sugli eventi.
Questo escamotage è fondamentale nel modo di raccontare di Zerocalcare, perché le sue non sono storie d’azione ma di riflessione. Anche ne La città del decoro, il racconto più che da un evento scatenante è innescato da un pensiero del narratore: che cosa significa per lui “decoro” e che valore gli attribuiscono gli altri. I conflitti messi in scena sono conflitti d’opinione all’interno di una trama che procede con costanti entrate e uscite dal flusso narrativo. È questo “raccontare come se si commentasse” il dispositivo attraverso cui l’autore ha impostato quella irresistibile rete di rimandi ironici alla cultura pop, da Star Wars ai manga, o come in questo caso ai Puffi , che è diventato il suo vero marchio di fabbrica.
Il polpo della strega
Questa capacità di entrare in connessione con un pubblico per lo più di coetanei, attraverso un immaginario condiviso, è anche l’aspetto più discusso di Zerocalcare, dalle storie brevi poi raccolte in volume (La profezia dell’Armadillo, Ogni maledetto lunedì su due), passando per un Un polpo alla gola e Dodici, fino al recente romanzo grafico Dimentica il mio nome (fresco candidato al premio Strega).
Da un lato c’è chi lo esalta per l’abilità di cogliere piccole e grandi contraddizioni della nostra vita quotidiana, di restituirci “lo spirito del tempo” con feroce ironia. Dall’altro, c’è chi lo vede come l’emblema di generazioni “superficiali”, appiattite su questi riferimenti a microculture di massa, dai cartoni alle fiction TV, che sembrano risolversi sempre in una bonaria vena nostalgica.
Eppure, se entriamo nel merito, per esempio, di una storia come La città del decoro, ci accorgiamo che le cose che non stanno esattamente così. E il punto di partenza del discorso non può che essere una tipica citazione “alla Zerocalcare”, quella dei Puffi.
Fenomenologia dei Puffi
I piccoli omini blu, protagonisti delle storie a fumetti di Pierre Culliford – in arte Pejo – per oltre cinquant’anni e, poi a partire dagli anni Ottanta di fortunate serie televisive d’animazione, sono un must per generazioni di giovani spettatori.
Zerocalcare li rende autentici protagonisti di questa storia, fin dall’inizio di tav.2, quando il narratore trasforma Roma in “La città dei Puffi” (“Così si possono riconoscere tutti e non mi accusano di localismo”) e vediamo effettivamente la skyline metropolitano ridisegnato con lo stile funghesco di Pejo. Ma se la “puffizzazione” si limitasse a questo, l’umorismo della scelta sarebbe limitato all’esito di una bonaria parodia.
Già nella seconda striscia, assistiamo a uno scarto di senso, laddove si parla di “funghi popolari” e nella vignetta è un personaggio da borgata, quasi pasoliniano, ad essere “puffizzato” nell’aspetto ma non nel linguaggio.
Se il primo rimando all’universo dei Puffi giocava solo sull’aspetto grafico dei personaggi e del loro villaggio, questa seconda rappresentazione rovescia l’assunto figurativo del mondo bucolico e “perfettino” dei nanetti blu. Il principio di universalizzazione promesso dal narratore è già caduto, o meglio è stato piegato alle esigenze del racconto, per scivolare in poche vignette da una parodia neutra a una satira partecipata.
Tra Grande Puffo e Grande Fratello
Ma è a tavola 3, non a caso esattamente a metà del racconto disegnato, che l’autore assesta il colpo definitivo a livello di comunicazione, in maniera repentina e direi pure violenta. Il puffo che rovista nella spazzatura non fa ridere. E men che meno fa ridere la sequenza successiva: le azioni di questi mostri non hanno nulla dell’universo edulcorato dei personaggini blu – ma non dimentichiamolo – ne mantengono riconoscibili le fattezze. È un altro scarto di senso, perché la satira coinvolge gli stessi personaggi, o meglio quel tipo di società “idealizzata” creata da Pejo.
Naturalmente, l’obiettivo satirico ultimo non sono tanto i nanetti alti due mele o poco più, quanto coloro che proiettano sui social allo stesso tempo quell’immaginario tenero e neonostalgico (minipony, cartoni giapponesi, gattini, cagnucci…) e bassissimi livori sociali, convinti – per dirla alla Max Bunker – che la lotta alla povertà sia la lotta ai poveri. Nella tavola successiva, l’autore ci mostra cosa accadrebbe se questi presunti “difensori del decoro” assumessero il potere. La satira sociale lascia il posto alla metafora Orwelliana del Grande Fratello (letterario): i Puffi sono talebani della morale pubblica.
Beato quel paese che non ha bisogno di Puffi
Tra le righe e le vignette, Zerocalcare sembra rifarsi al Il libro nero dei Puffi. La società dei Puffi tra stalinismo e nazismo, saggio serio ma non serioso dello scrittore francese Antoine Buenò che riassume e analizza tutte le ambiguità “totalitarie” della fabula puffesca. Ma anche se vogliamo restare all’interno del racconto, è il narratore della storia a darci la chiave di lettura della sua metafora disegnata, confessando – quasi vergognandosene – di essere stato a sedici anni folgorato da Bertolt Brecht. Quello che ne L’opera da tre soldi si chiede:
Che cos’è l’effrazione di una banca di fronte alla fondazione di una banca?
Brecht è la perfetta antitesi di questi Puffi, blu livido, egoisti e feroci, incapaci di distinguere le cause dalle conseguenze.
Non è un passaggio banale. Dimostra quanto certe critiche a Zerocalcare di essere un autore di pura “superficie”, appiattito sull’immaginario pop, siano perlomeno ingenerose. Nelle sue storie la citazione e la rivisitazione del pop non si fermano necessariamente all’elegia dell’infanzia perduta: diventano l’innesco di un discorso critico, a volte più riuscito, a volte meno, ma comunque essenziale nello stile dell’autore.
Bibliografia minima:
Alessio Barbati, “Il botta e risposta tra Zerocalcare e Romafaschifo divide il web”, Giornalettismo – febbraio 2015
Antoine Buéno, Il libro nero dei Puffi. La società dei Puffi tra stalinismo e nazismo, Milano, 2012, Mimesis
Miriam Carraretto, “Intervista a Zerocalcare”, Il Fatto quotidiano – 23 marzo 2015.
Valerio Mattioli. “Criticare Zerocalcare non è reato”, Vice- 23 Gennaio 2015
Guglielmo Nigro, “Dimentica il mio nome: il rischio di essere Zerocalcare”, Lo Spazio Bianco – 29 ottobre 2014
Ivano Porpora, “Perché spero che Zerocalcare non vinca lo Strega”, La Nottola di Minerva – marzo 2015
Gianmaria Tammaro, “Perché Zerocalcare merita di vincere (ma non vincerà) lo Strega” , Wired – 19 marzo 2015
Luca Valtorta, “Zerocalcare: Vi racconto i nuovi mostri delle nostre città”, La Repubblica – 9 Maggio 2015