Wake Up è webcomic di genere mystery horror che ha fatto il suo esordio il 29 gennaio 2018 sul sito del collettivo Ehm.
Scritto da Dario Custagliola, già autore del romanzo No Man edito da Leone Editore e qui al suo esordio fumettistico, e disegnato da Antonello Cosentino (Cosplay Killer edito da Edizioni Inkiostro, Siegrune in uscita con Edizioni BD, fondatore del collettivo Ehm Autoproduzioni), la prima stagione della serie è composta da quattro episodi cadenzati da un’uscita settimanale, per un totale di oltre cento tavole.
Dario è anche da vari anni uno tra i migliori collaboratori e redattori de Lo Spazio Bianco, creatore tra le altre cose della rubrica Nella rete del fumetto, la prima in Italia a dare spazio e voce al mondo dei webcomic in maniera continuativa e approfondita.
Approfittando di questa nostra “entratura”, siamo riusciti a fare una lunga chiacchierata con i due autori sulla genesi e lo sviluppo di Wake Up.
Dario e Antonello, ben trovati su Lo Spazio Bianco.
Come e quando nasce la vostra collaborazione? Chi dei due ha cercato l’altro?
Dario Custagliola (DC): La nostra collaborazione nasce grazie ad Antonello. Lui aveva scritto un webcomic, The Pretender, pubblicato sul sito Verticalismi, in occasione di uno dei contest del sito. Occupandomi di webcomic per Lo Spazio Bianco, Antonello mi chiese un parere su The Pretender e da lì, un po’ alla volta, nacque l’idea di lavorare, un giorno, a qualcosa insieme. Quel giorno, dopo un po’ di tentativi e idee, alla fine è arrivato ed è nato Wake Up.
Dario, l’ispirazione per Wake Up nasce dalla produzione a tinte horror di Robert Ervin Howard, sicuramente meno conosciuta rispetto ai suoi romanzi fantasy e a Conan. Come hai scoperto quel lato dello scrittore e che cosa ti ha così tanto colpito da idearci sopra un fumetto?
DC: I meriti e il contributo di Robert Howard alla letteratura non saranno mai abbastanza riconosciuti. Apprezzato dal pubblico e molto meno dalla critica a lui contemporanea, Howard in appena quindici anni di carriera (su un totale di trenta di vita) scrisse di ogni genere all’epoca esistente e, quando non bastarono, di fatto ne inventò altri, come la sword&sorcery. In Italia, un grosso pezzo della sua produzione è inedita, specie quella riguardante gli scritti di genere western, d’avventura e fino a qualche anno fa c’era un enorme vuoto anche per quel che riguardava i suoi scritti horror. Complice il fatto che da un decennio gli scritti di Howard sono privi di diritti d’autore, gradualmente questo vuoto viene riempito da editori più o meno grandi e audaci, a dimostrazione di quanto Howard a ottantadue anni dal proprio suicidio sia ancora un autore in grado di suscitare interesse nel pubblico e parlare un linguaggio sempre moderno. Per quanto riguarda i suoi scritti horror è stata la Mondadori nel 2015, con due pubblicazioni nella collana Urania, a riempire un grosso pezzo di quel vuoto. Quando in edicola fece la sua comparsa il primo volume, avevo da circa una settimana finito di scrivere No Man, il mio primo romanzo. E proprio in quei giorni avevo finito di leggere Stagioni diverse di Stephen King. Nella postfazione di quel libro, King diceva una cosa che descriveva esattamente come mi sentivo in quel momento: ogni racconto di Stagioni diverse lo aveva scritto subito dopo aver terminato un romanzo, come se dopo una lunga corsa gli fosse rimasta un po’ di benzina nel serbatoio per tirare ancora avanti e scrivere un racconto più breve. Era quello in modo in cui mi sentivo: avevo finito di scrivere il mio primo romanzo, l’avevo inviato ad alcuni editori ed era iniziato lo stressante periodo di attesa di una risposta. Sentivo di voler scrivere qualcosa di più breve, magari cambiando genere, anche per mettermi alla prova con qualcosa che non fosse il noir/pulp di No Man. Ed ecco che in edicola compare questo volumetto di Robert Howard. Come molti, conoscevo Howard per Conan il Barbaro, Solomon Kane e per alcune sue poesie. Quando lessi i racconti horror di Howard fu amore a prima vista: sono vero e proprio cibo per la mente. Il modo in cui riesce a immergere il lettore nelle atmosfere più cupe e diverse, a creare in ogni racconto un piccolo universo che esplodeva tra le righe, a far vivere e vibrare ogni personaggio è qualcosa di unico: per me che ancora sto imparando il “mestiere” dello scrittore, ogni racconto di Howard è una preziosa lezione. In due giorni scrissi, in forma di racconto, quello che sarebbe diventato Wake Up. Aveva un altro titolo, Fever Burning Bright. Paranoia Night (un verso di una canzone di Joe Bonamassa), ma per il resto era quasi del tutto uguale al fumetto che ora potete legge su ehmautoproduzioni.com.
Il racconto che avevo messo su, di cui Howard stesso era un protagonista, aveva però un problema grosso come una casa: non funzionava, era pieno di difetti e oggi posso dire che semplicemente si prestava male alla forma del racconto. Sentivo quindi che c’era un problema, ma non riuscivo a capire quale. Così, semplicemente, lo lasciai nel cassetto a prendere la polvere.
Arrivi a scrivere il tuo primo fumetto, dopo l’esordio in campo letterario con il romanzo No Man. La Nona Arte per te è sempre stata una passione – prima da lettore e poi da critico e divulgatore – ma in che modo ti sei approcciato alla scrittura di Wake Up e quali sono le differenze dal tuo punto di vista rispetto alla scrittura in prosa?
DC: Leggere fumetti, scrivere di fumetti e scrivere un fumetto sono tre cose totalmente diverse ma intimamente legate tra loro. I fumetti per un po’ di tempo sono stati una passione a intermittenza, con periodi in cui ne leggevo molti e altri in cui non leggevo affatto. La loro lettura ha acquisito continuità piuttosto tardi, a diciotto anni, mentre le mie prime passioni narrative sono state senza ombra di dubbio il cinema e i giochi di ruolo, che forse esercitano l’influenza più grande su tutto ciò che faccio. Iniziando a leggere fumetti tardi, però, ho cercato di leggerli fin dal primo momento nell’ottica di capirli, mirando a comprendere come fossero costruiti, le scelte narrative prese, le soluzioni visive e così via. Quando mi appassiono a una cosa voglio immediatamente farne parte: se leggo un libro o un fumetto, se guardo un anime o se gioco a dei giochi da tavolo, irrimediabilmente finisco per volerne creare uno mio. Questo “coinvolgimento” è la mia principale risorsa, perché mi porta a studiare e ad approfondire ciò che mi appassiona, ma anche il mio principale limite perché così facendo si rischia di disperdere molte energie creative. Di tanto in tanto, riesco a convogliarle in unico punto e ne esce qualcosa di concreto come No Man o Wake Up. Venendo alla domanda, l’approccio è stato “naturale”, nel senso che quando si è presentata l’occasione di scrivere un fumetto semplicemente l’ho colta, affrontando i problemi che man mano si presentavano, riflettendo sulle questioni di metodo strada facendo, cercando di volta in volta di far tesoro di quello che avevo imparato in tanti anni di lettura. Non è stato per niente facile. Innanzitutto perché passi da un lavoro solitario qual è quello della scrittura a un lavoro di coppia. La collaborazione con Antonello è stata fantastica, la migliore che potessi sperare di avere e molto costruttiva, ma non è una questione di chi hai dall’altro lato, il “problema” è nella natura stessa del lavoro dello sceneggiatore che è profondamente diversa da quello dello scrittore. Devi confrontarti, aprirti, mettere in conto che una buona parte del risultato finale sfuggirà dal tuo controllo. Succede con la narrativa, quando ci sei tu e i tuoi personaggi e spesso sono loro a prendere il sopravvento, figurarsi con i fumetti dove grossa parte di quel che i lettori avranno tra le mani non dipende, nel bene e nel male, da te: posso scrivere “Stephen dà un pugno”, ma non potrò mai sapere precisamente come quel pugno sarà dato se non dopo aver visto la tavola.
L’altro aspetto profondamente diverso è quello della sintassi e del linguaggio del fumetto. Devono essere le immagini a parlare, la regia, i movimenti di camera e devi limitare al minimo il resto. Da scrittore a sceneggiatore ho dovuto fare dei passi indietro, pormi più nell’ombra… in tutta franchezza, rileggendo Wake Up mi rendo conto che avrei dovuto farne qualcun altro, sparire ulteriormente come scrittore, più di quanto fatto, ed essere ulteriormente sceneggiatore. Sto provando a farlo con il nuovo fumetto a cui sto lavorando: imparare a padroneggiare uno strumento non è facile, sarà l’esercizio continuo che forse mi renderà capace di farlo.
Wake Up alla fine si è concretizzato come un webcomic ma la gestazione della sua nascita e del suo sviluppo è stata lunga: ci vuoi raccontare le tappe salienti?
DC: Come detto, Wake Up nasce come un racconto e poi diventa un fumetto. All’inizio ce lo siamo immaginati come un fumetto in bianco e nero nel formato comics, un po’ come The Walking Dead. Abbiamo fatto qualche tentativo per pubblicarlo in cartaceo, abbiamo ricevuto apprezzamenti, parole di incoraggiamento e qualche silenzio, ma nessuna proposta degna di essere accettata. Quel che ha di bello il fumetto rispetto al mondo della letteratura da cui provengo è che ha molte più strade da percorrere per arrivare alla stessa destinazione: oltre alla classica editoria, c’è la pubblicazione sul web che ha il suo seguito, l’autoproduzione che ha una solida identità, un sistema fieristico che funziona, una galassia di siti d’informazione molto aperta alla collaborazione con gli autori. Quindi ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo ripensato il fumetto in un nuovo formato e ci siamo dati da fare. Oggi sono contento che Wake Up sia un webcomic, per molte ragioni, di cui alcune sono spiegate più giù (sì, ho sbirciato le domande di sotto).
Uno dei temi di Wake Up (come del tuo libro No Man) è la violenza, come elemento connaturato dell’essere umano. Qual è il tuo punto di vista, come autore, sulla opportunità o necessità di mostrarla/raccontarla, anche nelle sue forme più disturbanti?
DC: Sono molto felice di questa domanda. Quello della violenza è un tema molto importante per me, che ho intenzione di esplorare con una trilogia tematica di opere: il romanzo No Man come ricordavi, Wake Up e un altro romanzo, Better, che farà da seguito al primo. Tre romanzi di genere diverso ma uniti da un’unica riflessione. Quello della violenza, del modo in cui è connatura all’essere umano, del modo in cui agisce a un livello materiale e visibile, ma anche inconscio, sia a livello individuale che di massa, è un tema esplorato da molti autori: lo stesso Howard, Cronenberg, Scorsese per dirne alcuni, tra i più grandi. È un tema fondamentale e portante dell’identità occidentale, del modo in cui essa si racconta e si autocostruisce. Di recente ho letto un saggio, intitolato I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno dello psichiatra Robert Simon, dove a sostegno di una tesi molto interessante vengono forniti dei dati impressionanti: negli Stati Uniti, da un lato ogni 22 secondi un cittadino viene picchiato, accoltellato, ferito con un’arma da fuoco, stuprato o ucciso; dall’altro gli stessi cittadini statunitensi nei primi 18 anni di vita vedono raccontati tra film, tv, videogiochi, fumetti ecc. circa 250 mila atti violenti, di cui 40 mila omicidi. La violenza esiste, è un aspetto reale e imprescindibile della natura e del mondo umano: “perché mostrarla?”, non è una domanda che mi pongo; semmai potrei chiedermi il contrario, “perché non mostrarla?”. Ma soprattutto, ciò che più mi interessa chiedermi è: “come mostrarla?” C’è un saggio fondamentale per chi studia la cultura statunitense e in particolare il genere western (che è a conti fatti il più grande tentativo moderno di creare un’epica degli ultimi 200 anni e che ha contaminato ogni narrazione moderna): Regeneration through violence di Richard Slotkin. In questo saggio si sostiene che l’Occidente, come riflesso della sua storia e della sua cultura dominata dalla violenza e dalla prevaricazione, ha finito per conferire alla violenza a livello narrativo un ruolo salvifico, facendone uno strumento di rigenerazione sociale. Lo sceriffo, il supereroe, il poliziotto, la spia segreta attraverso un’azione violenta finiscono per trasformare la società, per lasciare la situazione migliore di come l’hanno trovata. Una violenza buona che si contrappone a una violenza cattiva: solo attraverso questa lotta la società può purificarsi e trovare un riscatto. Raramente la violenza è descritta per ciò che gli studi sociali e psichiatrici hanno dimostrato essere: una pulsione, condivisa e diffusa, profondamente radicata nella cultura occidentale e nella natura umana, che risponde a meccanismi di cui facciamo esperienza quotidianamente. Wake Up probabilmente risulterà disturbante a qualche lettore proprio perché cerca di discostarsi da questa rappresentazione della violenza in fin dei conti conciliante e rasserenante (che è per me la vera rappresentazione problematica), creando una storia asfissiante, senza via di scampo, senza alcuna vera occasione di riscatto, dove la violenza perde ogni razionalità e giustificazione.
Il formato orizzontale delle tavole di Wake Up è abbastanza atipico e sembra richiamare a più riprese il linguaggio cinematografico. Cosa vi ha portati ad adottare questo formato?
DC: L’idea del formato orizzontale è stata mia, ed è venuta fuori in maniera abbastanza inaspettata. Una sera giocavo al primo capitolo di Resident Evil con un emulatore. Erano passati quasi vent’anni dall’ultima volta che avevo giocato a quell’episodio e, nonostante la grafica ampiamente superata e i tanti giochi a tema horror provati negli anni, continuava a terrorizzarmi come quando l’avevo provato a nove anni. Quel che fa paura in quel gioco è ciò che non si vede: ti ritrovi ad esempio delle inquadrature frontali fisse e tu devi camminarci contro con il tuo personaggio, senza sapere cosa ci sia oltre l’angolo, perché è il gioco a decidere quando darti il controcampo che ti svelerà o meno il pericolo. Ancora, quando apri una porta, parte un’animazione: c’è la porta rossa, circondata dalle tenebre, che si apre piano con un cigolio, senza mostrarti nulla di quel che c’è nella stanza dove stai andando a ficcarti. Gli zombie sono la componente action di quel gioco, è l’ignoto ad aggiungere l’elemento orrorifico. Ho voluto applicare dei meccanismi simili a Wake Up: le tavole orizzontali così come le abbiamo realizzate non ti permettono né di sbirciare nella pagina di fianco (come nei fumetti cartacei) né in basso (come nei webcomic verticali, basati sullo scrolling), a ogni tavola deve prevalere l’ignoto per quel che troverai alla tavola successiva. In Wake Up, ho voluto creare delle tavole con poche vignette, talvolta delle splash page, replicando in ognuna quel che invece nel fumetto cartaceo avviene ogni due pagine con l’ultima vignetta in basso a destra: piazzare un piccolo elemento di suspence che spinga il lettore a voltare pagina, emotivamente più carico della tavola precedente.
Inoltre il formato orizzontale rispondeva a due esigenze che ritenevo importanti.
Innanzitutto mi ha permesso di basare tutto su un rapporto d’aspetto 16:9 che è quello tipicamente cinematografico. Questo da un lato mi ha permesso di “rubare” un po’ dal cinema, in termini di linguaggio; dall’altro di creare delle tavole facilmente leggibili da un monitor o da uno smartphone ruotato orizzontalmente, in quanto supporti creati intorno a questo rapporto.
L’altra cosa che volevo evitare era di creare tavole che poi lo scrolling verticale avrebbe tagliato nel mezzo: è una cosa che odio, ma che come lettore viene naturale fare. Il formato verticale per i webcomic è prezioso e ricco di possibilità, ma se decidi di adottarlo devi poi sfruttarlo in tutte le sue opportunità non semplicemente disporre delle tavole una sotto l’altra. Semplicemente non faceva per Wake Up, non era nella sua natura.
Antonello Cosentino (AC): Dario! A parte gli scherzi, questo formato è stato totalmente nuovo per me e devo dire che fin dal momento in cui Dario me ne ha parlato ne ero entusiasta, non vedevo l’ora di cimentarmi con questo tipo di formato. E posso dire, una volta concluso questa prima stagione, che è stato come me lo aspettavo, cioè molto stimolante. Alcune soluzioni grafiche sono state proprio dettate dal tipo di formato e se mai stamperemo questo volume sono sicuro che verrà davvero un bel prodotto.
Antonello, quanto è stato complesso rendere graficamente alcuni passaggi molto duri e psicologicamente impegnativi presenti nella sceneggiatura di Dario, soprattutto quelli del terzo episodio?
AC: È stata molto dura, soprattutto per alcuni personaggi. In particolare quello di cui parli tu, quello del terzo episodio, perché dovevamo capire bene come rappresentare la figura dello stupratore, ma probabilmente la cosa che lo fa funzionare di più è il fatto che abbia un aspetto abbastanza “comune”. Invece uno dei personaggi che più mi ha divertito disegnare è stato quello di Eugene, è venuto fuori praticamente da solo anche grazie all’accurata descrizione di Dario, che mi ha subito fatto capire cosa doveva trasmettere.
Come e perchè è nata la scelta dell’inserimento del colore rosso in tavole completamente pensate e realizzate in bianco, nero e toni di grigio?
AC: All’inizio la cosa era nata dalla necessità di far capire il passaggio da un corpo all’altro da parte del protagonista, Stephen, nel momento in cui chiudeva gli occhi, ma poi mi sono fatto prendere la mano e quindi abbiamo sfruttato la cosa a nostro vantaggio, andando a rimarcare con il colore i passaggi davvero brutali e pieni di rabbia.
Antonello, le tue tavole nel corso degli episodi contengono una grande varietà di soluzioni grafiche. Inquadrature dal basso, splash page o griglie regolari ma dal numero di vignette variabile. Riquadri che si focalizzano su alcuni dettagli all’interno di un’unica illustrazione, sfocature o zoomate dal gusto cinematografico. Un tratto che talvolta sembra richiamare le spigolosità di Angelo Stano e soluzioni che fanno venire in mente il Paul Azaceta di Outcast. Quali sono i tuoi autori di riferimento, se ci sono?
AC: Devo dire che la maggior parte delle griglie più particolari sono state specifiche di Dario e abbiamo fatto in modo di rappresentare al meglio ciò che volevamo trasmettere e comunicare. In definitiva diciamo che mi ha dato una grande spinta in quel senso Dario, nel farmi trovare soluzioni grafiche e narrative diverse dal solito e devo dire che ne sono molto soddisfatto.
Sia Stano che Paul Azaceta sono dei grandissimi autori che ammiro e guardo, di Stano adoro la sintesi grafica e spigolosa come hai già potuto intuire tu, ma gli autori che mi ispirano di più e guardo con più attenzione sono Scalera, Zaffino, John Paul Leon, Murphy e Cavenago.
Come vi siete trovati a lavorare insieme? Soprattutto, che metodo di lavoro usate tra di voi?
DC: La collaborazione è andata nel migliore dei modi e credo che ci sia un motivo di fondo: ognuno si è sforzato di rispettare l’altro nel rispettivo mestiere. Io scrivo, Antonello disegna. Questo non vuol dire che non ci sia confronto, anzi ce n’è stato molto, ad ogni passaggio, ma vuol dire che il confronto avviene tenendo sempre a mente che ognuno fa la propria parte con criterio e pensando bene a quello che fa. Ci confrontiamo, discutiamo, qualche volta ci capiamo a volo, qualche volta no, ma sempre con il presupposto che ognuno ha il proprio mestiere e il campo dell’altro va esaminato e discusso ma non invaso. In questo modo è nata una relazione costruttiva e piacevole, dove credo che ognuno abbia in qualche modo migliorato il lavoro dell’altro. Ma se vado sotto i ferri, non mi sogno mica di dire al chirurgo dove fare l’incisione, a limite posso chiedergli il favore di non farmi troppo male!
Per quanto riguarda il metodo, praticamente è venuto fuori da solo in corso d’opera. Ve lo racconto dal mio punto di vista, quello dello sceneggiatore.
Scrivo la sceneggiatura, cercando di essere quanto più preciso su quel che ritornerà e avrà un ruolo importante nella storia; suggerisco inquadrature e regia di ogni vignetta; se ritengo che ci debba essere un preciso layout di una tavola lo propongo ad Antonello (magari con uno dei miei orrendi bozzetti); fornisco se necessario dei riferimenti visivi allegando delle immagini. Lascio invece il dialogo a uno stato grezzo, quel che serve per consentire ad Antonello di seguire la storia.
Antonello legge, mi fa domande, realizza gli storyboard. Antonello ha il pregio di realizzare degli storyboard molto precisi e dettagliati, davvero vicini al risultato finale.
Gli mando un po’ di appunti sugli storyboard, indicando cosa cambiare, cosa va bene e così via. Se necessario, discutiamo anche di queste indicazioni.
Antonello fa le sue diavolerie e mi rimanda le tavole definitive e a questo punto io gli invio il file per il lettering ed eventualmente altre osservazioni. Per me è fondamentale inviare le “parole” alla fine, anche perché mi è capitato di apportare piccoli ma importanti cambianti a quel che avevo in mente proprio dopo aver visto le tavole di Antonello.
AC: Non posso che essere d’accordo con Dario, lavorare insieme a lui è stato un piacere e c’è sempre stato un confronto sano e aperto. Ognuno ha contribuito a migliorare il lavoro dell’altro e, nonostante non fossimo sempre d’accordo, abbiamo trovato soluzioni che andavano bene ad entrambi e, spero, valide!
Che cosa rappresentano per voi i webcomics nel panorama fumettistico attuale? Li considerate un trampolino di lancio oppure è possibile pensarli come punto d’arrivo, per un’opera e per degli autori?
DC: I webcomic oggi non sono assolutamente per la maggior parte di chi li realizza un punto di arrivo. Da un lato perché è ancora la carta e l’editoria a dare alla professione una specie di “ufficialità” a cui tutti aspirano, dall’altro perché semplicemente i webcomic oggi non ti consentono di pagare le bollette a fine mese.
Tuttavia ci sono delle eccezioni su ambedue i fronti.
Non è vero che tutti quelli che pubblicano su carta sono professionisti. Non sto parlando di piacere o meno, di essere pagati o meno. Quando dico che alcuni fumettisti pubblicati su carta non sono professionisti, intendo che alcuni fumettisti mancano delle competenze basilari della scrittura e/o del disegno (e nulla toglie che magari ci sia pure io tra questi, senza rendermene conto). Sto parlando di criteri oggettivi. Penso che a breve cadrà definitivamente l’ultimo muro “ideologico” che vede i fumetti cartacei “più fumetti” di quelli online. Il timore è che il punto d’incontro tra i due mondi avverrà al ribasso.
Allo stesso tempo è anche vero che alcuni autori di webcomic hanno avuto tanta fortuna e successo in rete, che i fumetti stampati sono solo una piccola voce all’interno della loro dichiarazione dei redditi. Pensate ad esempio a Matthew Inman.
Quello che mi sento di dire con certezza è che con il senno di poi Wake Up non poteva che essere un webcomic. Avevo bisogno di un banco di prova, qualcosa con cui fare pratica, qualcosa che mi permettesse di imparare come si scrive un fumetto, ma anche come si promuove e tutto un mucchio di piccoli ma importanti aspetti che girano intorno a un fumetto. Wake Up è stato il mio banco di prova e oggi non esiste luogo migliore per farsi le ossa se non il web. Molti editori sembrano presi dalla mania dell’autore rivelazione, che garantisca un esordio fulmineo e di successo e ovviamente ci sono comprensibili ragioni economiche dietro questa volontà. Ma la verità è che chi scrive ha bisogno di tre cose per maturare: tempo, pratica e confronto con il pubblico. Paradossalmente, quel web spietato che viaggia a mille km orari sembra essere in grado di dare agli autori ciò che gli editori sono sempre meno disposti a concedere. Ci sono tutte le premesse per un bel cortocircuito, in cui gli editori stanno agevolando da sé la loro dequalifica a grado di “ristampatori con un distributore”.
AC: Come ha già detto Dario la maggior parte degli autori che pubblicano un webcomic lo fa proprio perché quello è il loro punto di inizio e sperano poi di arrivare a pubblicare con una casa editrice, perché sinceramente non c’è cosa più bella che vedere stampato e distribuito il tuo libro, non c’è soddisfazione maggior per chi fa il nostro lavoro che andare in libreria e vedere il proprio albo fra gli scaffali. C’è da dire però che il web è una piattaforma incredibile che ti permette di osare, di provare, di far cose che un editore non ti permetterebbe, insomma non hai vincoli e questo ti rende anche mentalmente più sereno. A parer mio un autore, una volta che ha sfruttato il web per approdare alla carta, non è detto che non possa fare il percorso inverso. Ad esempio, io pubblicherò quest’anno con Edizioni BD un libro, Siegrune, questo non precluderà il fatto che continuerò a fare i miei webcomic perché io considero e considererò sempre Ehm Autoproduzioni come una piccola “oasi felice” dove posso fare quello che più mi aggrada, poi sarà il pubblico a decidere se quella cosa andrà bene o no. In sostanza quello che voglio dire è che le due cose possono tranquillamente coesistere, sempre che si rispettino le consegne con chi ti paga le bollette!
Antonello, tu sei fra i fondatori del collettivo Ehm e di Ehm autoproduzioni: che valore dai a questa esperienza di Wake Up per la tua crescita professionale?
AC: Collaborare con persone che sono al di fuori della nostra autoproduzione è una cosa che ti fa crescere tanto a prescindere, perché ti confronti con professionisti diversi che hanno un punto di vista totalmente nuovo, poi se ti ritrovi accanto persone aperte al dialogo, competenti e appassionate come Dario, tutto viene più semplice e ti fa crescere molto come autore e ti prepara anche alle eventuali e future collaborazioni con altre persone.
Potete anticiparci qualcosa di quello che accadrà dopo la fine del quarto episodio? Avete già in mente un seguito per Wake Up?
DC: Vorrei continuare a esplorare l’idea del male, facendo di Stephen (il protagonista di Wake Up) una specie di Dante, che però esplora solo l’inferno, ogni volta intrappolato in un nuovo corpo e in una nuova mente. Vorrei inoltre provare ad esplorare altre forme del male: in Wake Up il male è brutale e individuale, mi piacerebbe in futuro descrivere un male più sottile e sociale. Le idee ci sono, si spera che ci saranno anche le condizioni per realizzarle.
AC: Sarebbe interessante provare ancor di più a inoltrarci ed esplorare le varie forme di male. L’idea di raccontare il male anche in forme meno “plateali” e crude mi intriga parecchio, visti anche i tempi che corrono e tutto l’odio, spesso immotivato, che viene fuori dai social e ancora più penosamente da determinate figure politiche.
Grazie a entrambi e in bocca al lupo per Wake Up e le vostre future avventure a fumetti (e non solo).
Intervista realizzata via mail nel mese di febbraio 2018