In un vecchio film Disney, l’autore stesso si trova di fronte (grazie ad un fotomontaggio) ad un suo personaggio, Paperino, che assolutamente non vuole collaborare con il suo creatore, a cui non resta altro che ridisegnarlo perché gli obbedisca.
Non siamo di fronte al mondo di Roger Rabbit, dove i protagonisti dei cartoni animanti esistono fisicamente, e sono veri e propri attori; in quel vecchio film esistono solamente personaggi che hanno una loro vita e una loro esistenza, pur essendo consapevoli della loro natura di opere di fantasia, consapevoli di essere la proiezione della mente dell’autore, ma non per questo sottostanti alle sue decisioni. Personaggi che non sono e non vogliono essere ricreati e riprogrammati dall’autore a suo piacimento. È questa, forse, un’eccezionale proprietà di tutti le figure fantastiche: avere una vita reale nella finzione e una vita “da personaggio” nella realtà.
Questo preambolo per portarci di fronte a una semplice domanda: John Doe è un personaggio?
METAFUMETTO A CHI?
La domanda apparirebbe banale, se nel numero ventuno della serie, “Morte in diretta“, pensata e realizzata da Roberto Recchioni e Lorenzo Bartoli, non si venisse a creare un paradosso per il quale non risulta più facile capire se sono gli autori ad esistere perché esiste John Doe, o viceversa. Siamo in pieno metafumetto, un espediente narrativo con il quale all’interno di un fumetto si parla del fumetto stesso, inteso sia come opera che come mezzo narrativo: un espediente non nuovo, che ha regalato pagine decisamente interessanti del fumetto mondiale.
Ma l’impressione complessiva in questo caso è che gli autori non vogliano fare soltanto metafumetto: Recchioni e Bartoli ci offronto un ulteriore livello metacomunicativo, nel quale ci spiegano le ragioni narrative (e “commerciali”) alla base della loro stessa scelta narrativa. Introducono quindi un elemento assente in genere in questi esperimenti: introducono una spiegazione.
Per questo motivo le domande che nascono dopo la fine di questa storia non sono le stesse generate, ad esempio (e per rimanere in campo Disney), dalla famosa storia nella quale a Topolino ne capitano di tutti i colori, apparentemente senza ragione alcuna, per poi scoprire che è solo un espediente degli autori per raccontare qualcosa di diverso, in modo diverso; e neppure le stesse nate dalla quadrilogia del Rat-Man di Ortolani sui cosiddetti Classici del Fumetto, ispirata dalle pubblicazioni di Repubblica, che è chiaramente ambientata in un piano della realtà differente da quello abituale del protagonista; fosse stato altrimenti, ci saremmo malamente accorti che Rat-Man recita le sue avventure a fumetti, invece di viverle.
John Doe #21 non è solo metafumetto, insomma, è qualcosa di più. Eppure, quella strana sensazione che si avverte nel finale sembra ricordarci insistentemente che si tratta comunque di una variazione sul tema. Tanto da voler rendere conto al lettore del perché di una tale scelta narrativa.
“Morte in diretta” in realtà è una storia scritta per farsi parlare addosso; qualcuno probabilmente ne dirà un gran bene, altri un gran male. Ma l’unica vera intenzione degli autori è quella di farsi vedere. E allora, proprio perché la storia ci è piaciuta, decidiamo di accontentarli. Perché, pur con qualche sbavatura e qualche scelta narrativa discutibile,la storia raggiunge lo scopo che si pone, offrendosi come spunto per ragionare sul processo creativo alla base di John Doe, e non solo.
MORTE IN DIRETTA
La trama dell’albo in questione vede John Doe che, convinto di non poter fuggire per tutta la vita, decide di rimettersi in contatto con quei due tipi italiani che hanno accettato di raccontare la sua storie a fumetti, tali Bartoli e Recchioni. Ma anche alla Trapassati Inc. ripensano improvvisamente a loro: “Sono informati, sanno dove si trova lui e la falce dell’olocausto”. Dopo un penoso interrogatorio, che costa la vita a Roberto Recchioni (ma non a Lorenzo Bartoli, che evidentemente non è ancora disposto a morire per il personaggio), John Doe si decide a raccontare la sua personalissima storia anche in una diretta televisiva, per bruciare un po’ il terreno sotto i piedi a Morte e Co. La fine è vicina.
PERSONAGGIO IN CERCA D’AUTORI
È noto a tutti il principio secondo il quale ogni personaggio di finzione, prima o poi, prende il controllo della narrazione, dettando con il suo carattere e le sue emozioni il procedere della vicenda, tanto da riuscire a “emanciparsi” dal foglio di carta che lo vorrebbe prigioniero. è il destino di tutte le creature riuscite. Questi personaggi, per quanto fisicamente vincolati alla carta, riescono a popolare i nostri sogni e la nostra mente. John Doe, forse, non è ancora uno di questi, ma ha il disperato desiderio di diventarlo, come emerge osservando più da vicino questa storia.
Recchioni e Bartoli, già dalla splendida copertina di Carnevale, sembrano avvisarci che non tutto quello che accade in questo numero è sotto il loro controllo. Tutt’altro: sono loro i burattini appesi ai fili, sotto il giogo del loro stesso personaggio. La storia svela al lettore il ruolo dei due autori, scelti dal protagonista per raccontare a tutti quello che gli sta accadendo, con spirito auto-celebrativo, certo, ma al contempo per difendersi da Morte e i suoi compari: vuole che il mondo conosca la sua storia come forma di assicurazione sulla vita. Un espediente a cui si accenna già nel numero zero della serie, utilizzato allora come semplice pretesto per presentare il personaggio. In questo numero, invece, a quasi due anni di vita della serie, il “pre-testo” diviene testo narrativo, attraverso un processo che ha come scopo ultimo la consapevolezza che non tutto è quello che sembra, che la sospensione dell’incredulità è un trucco che non sempre funziona, che può essere messo in discussione.
Ma chi comanda nella serie a fumetti? Il protagonista, gli autori o… Dio?
Se chi racconta è John, perché gli autori conoscono in anticipo quello che gli sta accadendo? Recchioni sa persino anticipare le mosse di Morte: possibile che Bartoli e Recchioni prendano il controllo dopo che John ha iniziato a raccontare la sua storia? O, viceversa, è lui a impugnare i fili del burattinaio dopo che il soggetto della serie è già nato? E Dio? Quando la personificazione di Dio compare in questa storia sembra avere il controllo su tutto quello che sta accadendo; è possibile che abbia anche una certa responsabilità nello sfasamento della realtà. è lui a decidere, in definitiva, il destino di Recchioni, apparentemente condannato a morte certa. Senza dimenticare che secondo il fenomeno della “transustanziazione”, Dio è presente in tutte le cose e appartiene a tutti i piani della realtà (compreso quello che noi definiamo “reale”). Eppure, di nuovo, anche Dio non è altro che un personaggio.
UNA, CENTO, MILLE REALTA’
Merita evidenziare alcuni stratagemmi narrativi e grafici. Il più evidente è certo lo sfasamento di Dio rispetto al piano di realtà al quale appartiene John Doe, aspetto abilmente sottolineato dalla rappresentazione grafica che ne fa Rosenzweig. Dal momento in cui JD capisce di chi si tratta (ultima vignetta di tav. 31), i suoi contorni diventano mossi e sfuggenti, come si trovasse a oscillare tra più piani di realtà.
Questo tipo di accorgimenti lo ritroviamo in forma ridotta in altre parti dell’albo. Ad esempio, nel momento in cui Recchioni sta per abbandonare l’ordine naturale delle cose per entrare in contatto con Morte, che è un personaggio sfasato rispetto alla realtà dell’autore di almeno due piani: in primo luogo perché si tratta di un essere sovrannaturale, in secondo luogo perché è un personaggio di fantasia, ideato dall’autore stesso. Ancora, possiamo prendere ad esempio pagina 51, laddove lo stesso Recchioni ha appena compreso il suo destino – morire – e il suo potere – decidere da solo come morire, cambiando il flusso della narrazione. In queste due vignette lo scontro è palpabile, tra la morte, alla quale nessuno sfugge, e l’autore che l’ha trasformata, contro la sua volontà, in personaggio.
Altro momento in cui le due linee narrative – quella ufficiale che segue la trama della storia, e quella che cerca una chiave di lettura dell’opera stessa – si evidenziano grazie all’utilizzo dello spazio bianco, e quindi della distanza, tra le ultime due vignette di pagina 9.
È evidente, insomma, la volontà di Bartoli e Recchioni di confondere i piani della realtà. è questo tentativo, per certi versi inedito, a rappresentare l’elemento più interessante dell’albo, al di là della vicenda personale del protagonista e della sua sfida contro Morte. è da questo punto di vista che John Doe assomiglia al Paperino di cui parlavamo all’inizio, frutto della fantasia creativa più sfrenata.
GIOCANDO A CARTE SCOPERTE
Ma gli autori non si fermano qui. Ad un certo punto, essi decidono di rivelare all’interno della narrazione quella che sembra essere la ragione principale che li ha spinti a giocare in questo modo con i piani di realtà. Come nel circo di un tempo, non si tratterebbe d’altro che di trucchi (narrativi) utili a mantenere alta l’attenzione del lettore; un modo chiassoso di attirare un pubblico sempre più distratto da altri media.
Questa rivelazione, questo generoso atto di verità, coraggioso e quasi sorprendente, rischia di rovinare al lettore (che sembra diventare improvvisamente “spettatore”) il piacere della partecipazione. Come a dire, stiamo facendo del cinema (vecchio detto di una volta) soltanto per sorprenderti.
Il fumetto viene infatti sottoposto a un pericoloso effetto boomerang che rischia di inceppare il meccanismo della sospensione dell’incredulità al punto tale da incrinare pericolosamente la fiducia del lettore verso i narratori. Recchioni e Bartoli, in nome della sorpresa a tutti i costi, rischiano cioé di cortocircuitare completamente il processo di immedesimazione e identificazione dei lettori con gli eventi che raccontano.
LA PAROLA AL BURATTINAIO
Incuriositi da queste considerazioni e dal suo approccio al fumetto per certi versi “irriverente”, abbiamo approfittato della disponibilità di Roberto Recchioni per stuzzicarlo con qualche domanda. Dalle sue risposte, che potete leggere di seguito, apprendiamo almeno una certezza: John Doe, il personaggio, è troppo “fighetto” per essere raccontato da Frank Miller!
Cosa serve a un fumetto popolare, oggi, per sopravvivere in edicola?
Tosta. La risposta più brutalmente realistica e essenziale che posso darti è: un punto di pareggio basso. Messa in termini più elaborati posso dirti che, a mio modo di vedere, bisogna prendere atto della nuova situazione dell’editoria a fumetti e ragionare da capo il quadro economico. Ha senso pagare cifre molto alte per la realizzazione di un fumetto che poi vende poco e deve chiudere? Per me, no perché in questa maniera non si tutela il fumettista ma lo si mette sulla strada.
C’é una soluzione?
Per me sì ed è la meritocrazia.
Se lavori su una testata che vende tanto è giusto e doveroso che si venga pagati e bene, se lavori su una testata che fatica a sopravvivere… bisogna adeguarsi allo stato delle cose e sperare che la qualità del proprio lavoro aiuti la testata a migliorare (oppure farsi notare per passare su una testata che versi in migliori condizioni).
Se si vuole mantenere una testata in edicola, i conti a fine mese devono tornare. Io non vorrei mai che JD vivesse sulle spalle del venduto di Dago ad esempio. Nel momento che questo dovesse succedere, che JD dovesse scendere sotto la soglia del pareggio, sarei il primo a chiederne la chiusura. Il fumetto (specie quello popolare) deve portare un guadagno o perlomeno non creare una perdita. Se il fumetto è in perdita non solo è disfunzionale per la casa editrice ma è disfunzionale per i fumetti stessi. Un prodotto in perdita è un prodotto che, per una ragione o per l’altra, non funziona sul mercato. Tenerlo in vita per forza, vuol dire disperdere le energie di chi lo realizza e di chi lo produce in un prodotto che non funziona, allora tanto meglio chiuderlo e provare a fare qualcosa d’altro. È un discorso antipatico, lo capisco benissimo, ma tu mi hai chiesto cose serve per “sopravvivere” in edicola, non cosa serve per sfondare (domanda a cui, comunque, non saprei rispondere).
Metafumetto, Metacomunicazione… molti autori moderni sembrano non potervi rinunciare.
Siamo una manica di sfigati autoreferenziali, poco da fare!Scherzi a parte… io credo che quelli che fanno il nostro mestiere amano il fumetto e i suoi processi creativi e amerebbero parlarne. Occasioni per farlo non ce ne vengono offerte poi molte (leggasi: solito annoso problema della scarsità della critica e dell’analisi fumettistica)… quindi ci si crea uno spazio personale per affrontare l’argomento. E poi perché siamo egocentrici.
Leggendo JD abbiamo più di una volta avuto l’impressione che abbiate “paura” di non essere capiti dal pubblico italiano. Abbiamo trovato a volte eccessiva questa esigenza “spiegazionista”, al limite del didascalico. A posteriori, non pensi che sarebbe stato meglio lasciare al lettore la possibilità di tirare le proprie conclusioni?
Purtroppo è tutto il contrario. Penso che sarebbe stato meglio essere stati ancora più chiari. Il fatto è che un fumetto popolare ha, sostanzialmente, due tipi di pubblico:
– il grosso del pubblico che apprezza il fumetto ma non è “appassionata”.
– gli appassionati di fumetto.
Il pubblico di internet appartiene, in larga parte, alla seconda categoria e questo “falsa” un pelo la sua percezione di un prodotto. Discorsi che per quella fascia di pubblico possono apparire didascalici, per il lettore “medio” (termine orrendo ma non ne ho trovato uno più efficace) sono invece inediti e spesso molto lontani dalla tipologia di prodotto a cui sono abituati. Tieni presente che i fumetti americani più “difficili” non arrivano nelle edicole ma nelle librerie specializzate (frequentate in larga parte da appassionati) mentre noi siamo un fumetto popolare che si va a inserire nello stesso mercato dominato da fumetti più lineari come Tex, ad esempio. Non sono pochi i lettori che ci hanno detto che JD è troppo “difficile e astruso” e questo ha influenzato le vendite. JD vende benino ma non è popolare. Il suo pubblico è trasversale e passa tanto attraverso il lettore canonico “bonellide” quanto attraverso quello dei fumetti americani. Il pubblico JD se lo è dovuto costruire e noi ne siamo orgogliosi… ma il “grosso” del pubblico popolare non lo abbiamo centrato e questo è un fatto innegabile.
Il tuo punto di vista è assolutamente comprensibile. Ma secondo te non esistono modi diversi per costruire le storie che state raccontando, rendendole per certi versi più lineari e comprensibili per il lettore “comune”, senza doversi soffermare con spiegazioni esplicite alla fine?
Io gli “spiegoni” li odio e dove possibile li evito come la peste. Anche perché ultimamente non sono utilizzati solamente per rendere più “accessibile” una storia ma anche come comoda via di fuga per spiegare una storia che non si è riusciti a raccontare pienamente nelle pagine precedenti. In realtà, gli unici due “spiegoni” presenti su JD mi sembrano essere quelli del numero 6 (“Nelle fauci della follia”) e in questo numero 21, ovvero in quei due numeri “al limite” che sono presenti nella serie. A mio modo di vedere non sono troppo invasivi e, tutto sommato, mi sembrano inseriti nel contesto narrativo della storia… pero’ capisco quelli che li hanno criticati. Io, come lettore, forse non ne avrei sentito il bisogno pero’ mi sento di difenderli perché contengono elementi narrativi e non sono messi lì solo per fare un riassuntone finale.
Sul fatto di creare storie “meno complesse” e più lineari… non credo che sia questa la soluzione perché impoverirebbe solo la storia. Io credo che il trucco sia nello scrivere sceneggiature migliori e soprattutto in maniera più organica. Noi scrittori di un certo tipo di fumetto (quello da 94 pagine al mese), abbiamo preso il brutto vizio di lavorare in parallelo su molte storie diverse. È una necessità produttiva ma crea anche parecchi problemi in fase di scrittura. Finali “corti” o “lunghi”, sbalzi di ritmo e via dicendo. Per quello che mi riguarda, sto cercando sempre di più di iniziare una storia e finirla prima di passare ad altro e ho l’impressione che le cose stiano andando meglio. Purtroppo non sempre è possibile.
Con JD ci sembra che stiate cercando di realizzare una sintesi nuova e dal difficile equilibrio tra narrazione italiana e fumetto statunitense, tra Bonelli e Vertigo. Com’é il vostro approccio alla serie in questo senso?
Chiariamo un punto importante: io non posso parlare a nome di Lorenzo. Io e lui facciamo il viaggio insieme nella stessa macchina e condividiamo la stessa meta… ma il perché facciamo questo viaggio e il modo in cui lo intendiamo, possono differire parecchio.
Sinceramente, non mi sono mai posto il problema di confrontarmi con l’approccio del fumetto americano rispetto a quello italiano… guardo molto di più alle serie televisive americane, ad esempio. La mia fortuna è che vengo da un’esperienza lavorativa molto particolare: ho avuto la fortuna di sviluppare il mio modo di scrivere su testate come Skorpio e Lanciostory e l’ho fatto in una quasi totale libertà creativa. Non mi sono mai posto il problema se potevo o meno utilizzare primi piani strettissimi o tavole costruite su quattro o cinque fasce. Utilizzo tutto quello che mi serve per raccontare una storia e poco mi importa se un particolare strumento è derivato dal fumetto americano, quello italiano, dai manga o dall’approccio francese. Poi è ovvio, siamo quello che mangiamo e io di fumetti americani ne ho mangiati parecchi.
L’unica regola ferma è non utilizzare mai qualcosa che mi sembra originale o non derivativa. Se un’idea mi sembra inedita, vuol dire che un altro milione di persone hanno avuto la stessa intuizione e l’hanno scartata perché devono averla ritenuta una cazzata. E con questa ultima frase, la quota necessaria di affermazioni controverse per alimentare il mio culto della personalità è stata raggiunta.
Parlando di fumetto statunitense, non possiamo non citare Grant Morrison. In particolare, questo numero ci ha riportato alla mente il suo Animal Man, il primo vero e dichiarato tentativo di fumetto meta-comunicativo. è una fonte di ispirazione per te?
Influenzato da Grant Morrison? Assolutamente, sì. Le sue intuizioni sono fulminanti e spesso geniali. In uno solo dei suoi albi c’é un tale quantitativo di idee che basterebbero per fare due miniserie di dodici numeri ciascuna a uno come Azzarello.
Per quanto riguarda Animal Man invece, non pensavo che avesse influenzato il mio lavoro. Poi, dopo la tua domanda, me lo sono andato a riguardare per bene e… porca pupazza se mi ha influenzato!!! L’approccio e le finalità sono differenti ma è evidente che quelle storie mi siano rimaste in testa. Se Morrison pero’ fa scoprire al suo protagonista di essere quello che è, ovvero il personaggio di un fumetto… io faccio l’opposto. Per me JD e il suo contesto sono “Quelli Reali” e siamo io e Lorenzo (e il mondo tutto) a diventare fittizi. È da qualche tempo (più o meno dal numero 6 di JD) che mi balocco con l’idea di rompere le regole della “sospensione dell’incredulità”… quel tacito accordo tra lettore e narratore che impone che io narratore stabilisco le regole e racconto una storia in base ad esse e tu, lettore, ci credi. Per me è una sorta di coercizione che toglie al lettore la responsabilità di farsi domande e di mettere in discussione in maniera attiva l’operato del narratore. Il lettore viene trascinato nell’universo stabilito, subisce la storia e, se non gli piace, molla tutto e basta. A me piacerebbe che fosse il fumetto a uscire nel mondo del lettore piuttosto che il lettore a entrare in quello del fumetto. Mi piacerebbe che chi legge le mie storie, una volta chiuso l’albo, continuasse a riflettere su quanto ha letto, mettesse in discussione la storia e portasse l’universo di JD nel mondo reale. È per questo che ritengo JD 6 o JD 21 fumetti meta-realistici più che meta-fumettistici. Non vuole essere un fumetto che riflette su se stesso e sui suoi processi creativi quanto più un fumetto che riflette sul suo rapporto con la realtà.
È vero quanto dici su Morrison, pero’ seguendo il ragionamento della tua risposta precedente, probabilmente ci infila anche tutta una serie di idee che da molti altri sono ritenute cazzate.
Ho detto geniali, non inedite. Le fonti di Morrison sono esplicite. Leggendo la sua roba si capisce chiaramente di cosa si è nutrito, dei romanzi che ha letto e dei film che ha amato. Basta non badare alla mitologia che Morrison ama creare intorno a sé e si vedrà tutto quello a cui ha attinto. Per esempio… Grant Morrison potrà pure continuare a ripetere di non aver poi letto molti romanzi di Dick, ma anche se fosse vero (e per me non lo è)… quei pochi che ha letto se li ricorda benissimo. In particolare cosette come “Un Oscuro Scrutare” e “Scorrete Lacrime Disse il Poliziotto”.
Pensando ad esempio a opere come V for Vendetta di Moore o a Human Target di Milligan (e sono solo le prime che ci vengono in mente), pur non avendo un approccio meta-comunicativo, ci sembra che siano talmente forti da far riflettere sul “nostro personale rapporto con la realtà”. Forse, la differenza essenziale rispetto a JD è che quello su cui voi spingete il lettore a riflettere è il rapporto tra creatività, creazione e realtà? “Siamo tutti dei personaggi, delle maschere”, per dirla alla Pirandello.
Assolutamente! “V” è un fumetto che porta a riflettere sulla realtà mille e mille volte di più di un John Doe. Ma hai colto il punto quando dici che noi stiamo cercando di premere sul rapporto tra creazione, creatività e realtà. Per me, in questo preciso momento culturale, si sta vivendo un vero e proprio cortocircuito tra mondo reale e finzione. Le opere di finzione sempre più spesso fanno riferimenti espliciti ad altre opere di finzione (esempio stupido: i numerosi dialoghi sulle serie televisive nei film di Tarantino) e questo che all’apparenza può sembrare un semplice e sterile esercizio di referenzialità, per me invece rappresenta il grado con cui la fiction è ormai permeata nella nostra realtà. La distinzione tra quello che è reale, quello che è quasi reale e quello che non lo è per niente sta diventando sempre più labile.Tornando a Tarantino (é un esempio comodo), lui utilizza quel genere di dialogo per dare “realismo” ai suoi personaggi fittizi. I suoi gangster parlano di cose di cui anche la gente reale parla, cose tangibili che noi stessi possiamo fruire nel nostro mondo, una volta usciti dal cinema (le serie tv, ad esempio). Il confine del mondo di Tarantino e il mondo reale, diventa labile perché in certi momenti coincide in maniera concreta, toccabile con mano. Altro esempio grottesco sono i reality show: gente vera che crea personaggi fittizi facendo finta che siano reali. Un puro e semplice cortocircuito creativo che non può lasciare indifferenti.
Con JD noi stiamo cercando (faticosamente e con tutti i nostri limiti), di esplorare questa terra di mezzo. Abbiamo mandato JD a conoscere il mito in molte delle sue forme: lo abbiamo evocato (il Batman che appare nel numero delle leggende urbane o Moby Dick nel n. 4 (“Il mare dentro”) o la Supercar del n.7 (“Qualcosa sulla strada”)) e alla fine siamo riusciti a farglielo incontrare in “carne e ossa” con Dago. Il viaggio di JD è un viaggio nei generi più che per le strade d’America, è un confrontarsi con l’immaginifico dal punto di vista di uno che non ci crede fino in fondo (non è neppure convinto della sua identità di personaggio, se è per questo). E per farlo non abbiamo chiesto la complicità passiva del lettore ma la sua partecipazione attiva. Con il n. 6 abbiamo dato una comoda via d’uscita a chiunque volesse scendere. Quelli che sono rimasti con noi lo hanno fatto perché hanno deciso consapevolmente (é questa la parola chiave) di credere nel nostro universo fittizio e sono pronti a metterlo in discussione. Un approccio fondamentalmente diverso dalla patto di sangue coercitivo che viene generalmente imposto dalla narrativa fantastica.
Probabilmente tutto questo è una specie di sega mentale personale ma per me ha una certa rilevanza nel momento in cui mi metto a scrivere JD (per Dante è una cose del tutto diversa, ad esempio).
Animal Man è stato costruito colpo di scena dopo colpo di scena, con l’intenzione di tenere le carte coperte fino all’ultimo momento. In JD tu e Bartoli sembrate muovervi nella direzione opposta: scopriamo tutte le carte, e vediamo che succede. Perché?
Io adoro i “colpi bassi” nei confronti del lettore. Non sono un’idea mia (non sia mai!!!)… li ho visti utilizzare in maniera magistrale da Stephen King e ho semplicemente copiato la tecnica. Avvertire il lettore che un determinato personaggio morirà tra qualche tempo è un vero e proprio calcio nello stomaco. Quando lo stratagemma funziona aumenta la tensione e non la diminuisce. Il lettore vuole sapere “come” morirà quel personaggio e il perché… e fino all’ultimo spera che lo scrittore abbia scherzato. Comunque non è verissimo che abbiamo giocato a carte scoperte o almeno, non lo abbiamo fatto sempre. Ci sono voluti 22 numeri per scoprire dove JD ha nascosto la falce e i colpi di scena non sono certi finiti prima della fine della “fuga”.
Che letture fumettistiche ti appassionano di più in questo periodo?
Le solite cose. Nel senso che mi sto rileggendo fumetti che ho già letto e amato. Stan Lee, Frank Miller, Garth Ennis, Warren Ellis, Grant Morrison, Abuli e Bernet, Bonelli padre e figlio… Di recente ho adorato l’Human Target di Milligan (come anche i suoi X-Static) e sto apprezzando molto il lavoro dei miei amici Tito Faraci e Diego Cajelli. Ultima sorpresa… è da relativamente poco che ho scoperto la qualità di Dago. Un fumetto incredibile, scritto con una potenza ineguagliabile e disegnato da due maestri assoluti.
Chi comanda nel vostro fumetto: gli autori o JD? O Dio?
Risposta banale da scrittore navigato: John Doe. Ormai le storie si scrivono praticamente da sole e il sospetto che sia JD stesso a raccontarcele ce lo abbiamo (in fondo Howard era convinto di scrivere le gesta di Conan con il barbaro che stava alle sue spalle, pronto ad ucciderlo).
Risposta mistica da rockstar appena uscita da un centro di recupero Betty Ford: le scrive Dio. Sta cercando di mandarci un messaggio (a me e a Lorenzo) ma noi siamo troppo stupidi per capirlo.
La mia risposta: gli autori. Che è un poco come dire Dio, quando si parla di opere di finzione.
Perché JD si è rivolto ad autori italiani per raccontare le sue avventure?! Nessun autore statunitense ne ha voluto sapere? Non so, Azzarello, Miller, Bendis… (Stiamo facendo metafumetto in questa domanda?!)
In effetti io e Lorenzo non siamo stati la prima scelta. Prima che a noi, JD si è rivolto a Neil Gaiman. Il bardo della Vertigo gli ha detto di no perché la sua idea di Morte è molto più intellettuale di quella che JD gli proponeva. Alan Moore avrebbe accettato solo in cambio del sangue di dodici vergini e della testa di un capro. Frank Miller gli ha riso in faccia e gli ha detto che non avrebbe mai scritto di un insopportabile yuppie fighetto. Alla fine siamo rimasti noi. Costavamo poco e ci siamo bevuti tutto senza fiatare.
Dio, come Morte e le altre “entità”, sono più personaggi di un fumetto o rappresentazioni di concetti che consideri reali?
Personalmente ho un’idea abbastanza simile a quella presentata su JD per personaggi come Morte o Dio. Penso che invece gente come Pestilenza, Guerra e Fame siano decisamente troppo simpatici e imbranati rispetto alla loro controparte reale.
Non credi sia pericoloso scherzare in questo modo con la “Morte”?!
Sì, no, non lo so. Ti spiego: il giorno dell’uscita di JD 21 sono finito in ospedale per un’emergenza medica molto grave. Una brutta emorragia che per una decina di giorni non ne ha voluto sapere di chiudersi e che mi ha mandato in coma per qualche ora. Sono stato letteralmente salvato per il rotto dalla cuffia dai dottori del Gemelli e ora sto relativamente meglio. Io non ho una buona salute e ho già avuto problemi del genere, quindi non è che la cosa mi ha sorpreso… pero’ la coincidenza con l’uscita del numero 21 di JD l’ho trovata inquietante. Alla fine ho deciso di vedere tutta la questione da un punto di vista Carpenteriano: la sceneggiatura del numero 21 di JD me l’ha inviata un me stesso del futuro come avvertimento e rassicurazione. È stato un modo per dirmi: te la vedrai brutta ma passerà.
Così abbiamo scoperto chi comanda realmente su JD…
Comunque scordatevi di rivedere mie apparizioni sulle pagine di JD.Nota a margine: dopo quello che è successo, Maurizio non la smette più di disegnarsi mentre va a letto con Adriana Lima.
Questo numero pone le basi per la fase conclusiva del primo ciclo di storie di JD. Sarà guerra a tutto campo, reale e immaginaria. Arriverà Dago, e poi?
E poi un JD tutto nuovo. Niente più fuga, niente falce, niente più Morte. Non posso e non voglio raccontarvi nulla di quanto succederà su JD 25. Pero’ vi posso dire il titolo: “Seconda stagione”.
Mi sembra che stiate cercando spunti da ogni dove, che stiate in qualche modo sperimentando voi stessi i limiti narrativi di un fumetto seriale. Un approccio encomiabile, che è molto diverso dal 90% delle serie bonellidi attualmente in edicola. è così?
Sì e no. Io adoro la tradizione italiana. Tex è uno dei miei fumetti preferiti. Ma noi non abbiamo la tradizione di Tex alle spalle. Per tenere viva l’attenzione dei nostri lettori, non possiamo adagiarci in facili compiacimenti, non possiamo ripetere gli stessi schemi narrativi numero dopo numero e non possiamo permetterci il lusso di essere scontati. JD è una specie di squalo che deve continuare a muoversi per respirare. Il lettore deve chiudere un nostro albo e chiedersi “E adesso?”. Deve morire dalla curiosità di leggere il numero successivo e fiondarsi in edicola appena esce. È questo il senso più intimo di JD: il fatto che il rinnovamento è vita.