In questo approfondimento dall’intento analitico e ludico si cerca di prendere in esame il linguaggio utilizzato da Roberto Recchioni per far parlare Dylan Dog nel rilancio della testata successivo al #400, punto di svolta per la serie.
Concentrando lo sguardo su contenuto e contenitore, ossia linee di testo e loro collocazione nella tavola, si espande facendo riferimento a un modello di fumetto ormai consolidato e paradigmatico come quello supereroico americano.
Di conseguenza il ragionamento non va ad abbracciare altri temi, ovviamente altrettanto meritevoli di attenzione, in particolare l’approccio estetico in generale.
“Mi chiamo Hal Jordan. Sono un membro del Corpo delle Lanterne Verdi. Settore spaziale 2814. O lo sono stato finché i Guardiani non mi hanno preso l’anello per essermi opposto alla loro autorità una volta di troppo. Non siamo in buoni rapporti da allora. Ma non sono loro ad avermi sepolto vivo. Alcune settimane fa, Sinestro mi diede un anello […]”.
Green Lantern Annual #1 (2012) sceneggiato da Geoff Johns per i disegni di Ethan Van Sciver.
“Sono un anarchico e sostengo l’individualità e la libertà personale, contrapposte a ogni forma di potere costituito, compreso lo Stato… E gli scienziati da film dell’orrore!“.
Dylan Dog #402 (2020) sceneggiato da Roberto Recchioni per i disegni di Corrado Roi, Francesco Dossena e Nicola Mari.
Nel primo esempio Johns affida alle didascalie le parole della Lanterna Verde Hal Jordan, che in prima persona spiega la propria condizione: chi è, che cosa fa, qual è il suo carattere (si è opposto per l’ennesima volta ai suoi “datori di lavoro”) e chi frequenta (Sinestro, non esattamente uno stinco di santo). Nella tavola presa in considerazione ci sono altre didascalie che riassumono gli eventi accaduti al protagonista, mentre viene mostrato alle prese con le conseguenze dei fatti pregressi. Questo modo di costruire il fumetto, mutuato da quello che Mark Waid ha utilizzato per il suo Flash negli Anni Novanta, è uno dei marchi di fabbrica dell’autore in forza alla DC Comics, ripreso anche nelle introduzioni di alcune serie televisive supereroiche targate The CW.
Nel secondo esempio, in un balloon di dialogo, Recchioni fa pronunciare a Dylan Dog una sorta di breve manifesto, una specie di bignami del suo pensiero. Quasi stupisce la risposta noncurante di Xabaras, l’interlocutore, che sembra annullare il tentativo di affermazione dell’Io del parlante: “Non è importante, tra poco cambierà idea […]”.
“All’epoca in cui diventai Flash, io ero…be’, ecco…ero un bastardo. Approfittavo del costume e del titolo di super-eroe per fare ciò che volevo. Ero un ragazzino. E farmi notare dalle ragazze era una delle mie priorità. In un certo senso, dopo i miei fallimenti con fidanzate con super-poteri, Raven, Magenta… Dare la caccia alle ragazze “normali” mi dava un falso senso di controllo“.
Flash (vol. 2) #175 (2001) sceneggiato da Johns per i disegni di Scott Kolins.
“Sono un tipo all’antica su certe faccende… Le fake news preferisco leggerle sulla buona e vecchia carta stampata invece che su internet: hanno tutto un altro sapore!“.
Sempre Dylan Dog #402.
Nel primo caso Wally West riflette sul proprio passato, facendo sapere al lettore come si comportava con le ragazze, dando di se stesso un giudizio negativo. Ancora didascalie, ancora Geoff Johns, ancora informazioni facilmente deducibili dalle parole pronunciate: Flash è cambiato. Kolins disegna sullo sfondo la situazione presente che innesca la riflessione dell’eroe e in primo piano dedica una vignetta al flashback.
Nel secondo caso l’Indagatore dell’incubo sempre per mano di Recchioni risponde a Sybil Browning che gli chiede: “Leggi ancora i quotidiani?“. Dallo scambio di battute si desume che Dog è attento al fenomeno delle fake news e che, per certi aspetti, è ancora legato alle tradizioni: i giornali e l’inchiostro piuttosto che lo smartphone e il touch, sebbene poi questo “nuovo Dylan” utilizzi la tecnologia con naturalezza, come già visto nel #401.
Lo strumento usato da Johns per veicolare il testo – il contenitore se vogliamo – è la didascalia; quello scelto da Recchioni è il balloon di dialogo. Così da un discorso in prima persona rivolto dal protagonista al lettore si passa a un botta e risposta tra due personaggi, in presa diretta, con il disegnatore che li fotografa mentre parlano. Lo sceneggiatore di Detroit approfitta del narratore interno “spostato” a margine della vicenda per raccontare qualcos’altro ed evitare un certo didascalismo, ma nel frattempo detta le coordinate essenziali per caratterizzare la figura principale. L’autore romano, invece, tratteggia la psicologia di Dylan attraverso il dialogo, facendolo parlare come un libro stampato.
Un ulteriore esempio di questo linguaggio tautologico, quasi per slogan o per manifesto, è offerto in Dylan Dog #401, dove si legge: “Io sono […] una reincarnazione…un sequel, o forse un remake, o magari un reboot“. E più avanti: “Anche sui romanzi di genere, i fumetti e i videogiochi. Ritengo che queste forme espressive siano il nostro ultimo legame con una maniera antica di tramandare la storia“. Qui si cita solo una parte di entrambi i discorsi, ancora una volta inseriti nei balloon pronunciati dall’inquilino di Craven Road 7 davanti a Sybil.
Da un lato, nei due casi appena citati è evidente l’intento metanarrativo di Recchioni: sia la precisazione che gioca con il linguaggio fumettistico (e non solo) sia la tirata/riflessione, se affidate alle didascalie, forse perderebbero efficacia, soprattutto se le immagini “parlassero” di altro. Invece, il messaggio arriva forte e chiaro, poiché Dylan dice queste cose davanti alla donna e al pubblico, apertamente e mettendoci la faccia. Forse in modo un po’ prolisso ma sicuramente potente.
Dall’altro, per quanto riguarda gli esempi tratti dal #402, essendo assente la riflessione del medium sul medium stesso, resta la sensazione di un intervento artefatto e affettato, ma forse dovuto anche alla necessità dello sceneggiatore di gettare il più rapidamente possibile le fondamenta del nuovo character.
Più in generale, alcuni dialoghi de Il tramonto rosso, limitatamente al segmento diegetico ambientato nel presente, risultano didascalici, ma si resti a quelli presi in esame. Sarebbe curioso vedere come cambierebbe la costruzione dell’intero episodio, posizionando i medesimi contenuti all’inizio dell’albo all’interno di didascalie in cui il protagonista presenta in prima persona se stesso e la vicenda, proprio alla maniera di Johns. Forse si eviterebbe il già menzionato “effetto-manifesto” che sembra anche in controtendenza rispetto alla scrittura abituale di Recchioni, solitamente non avvezzo a spiegare per filo e per segno situazioni e personaggi.
Un impianto narrativo di questo tipo libererebbe la capacità di sintesi che il papà di Orfani ha dimostrato di padroneggiare nei suoi lavori e lascerebbe spazio alla narrazione per immagini di fatti slegati dal testo, cosa che potrebbe segnare un ulteriore avvicinamento a quel modello americano a cui sembra aver guardato il curatore della testata, quando ha deciso di organizzare il rilancio dylaniato in archi narrativi/miniserie autonomi/e, con il coinvolgimento di vari disegnatori e con una continuity serrata. Per quanto riguarda l’apertura di Sergio Bonelli Editore al format delle miniserie, rimando all’articolo di David Padovani per il Blog di Redazione.
Più facilmente riconducibili alla consueta scrittura recchioniana sono il saccheggio di altre opere, appartenenti ai media più disparati, e l’uso del metafumetto già sottolineato, due elementi che chi scrive apprezza sempre molto. Per quanto concerne questi due aspetti, lascio la parola alle esaustive analisi di Lorenzo Barberis dei Dylan Dog #401 e #402.
Un terzo ingrediente tipico delle ricette di Recchioni è il “linguaggio badass”, che si rifaccia a quello usato in specifiche pellicole d’azione o che sia inventato ex nihilo. Prendendo in considerazione l’utilizzo di questa modalità espressiva, si può cogliere l’evoluzione del protagonista in atto già tra il #401 e il #402.
“E mi dica, signora Browning… Avete avuto altri casi di zombi, in famiglia?“: inizia in questi termini il rapporto tra Dylan e Sybil ne L’alba nera, un esordio non sopra le righe ma sarcastico e pungente che si rifà con minima variazione allo storico #1, a cui fa seguito una presa di posizione netta, visto che l’Indagatore ordina al suo assistente Gnaghi di bloccare la donna, decisa ad andarsene. Dopo un riferimento alla grammatica dei film horror e un tentativo di suonare il clarinetto, si arriva al momento dell’audace seduzione, che richiama la sfacciataggine del primo Dog sclaviano, quello de L’alba dei morti viventi da cui il rilancio prende le mosse. Non è un atteggiamento inedito, quindi, anzi è quello primigenio, divenuto estraneo al modus operandi successivamente cristallizzato nel tempo.
Proseguendo nella lettura, si incontrano nuovi riferimenti alla cultura pop conditi con una discreta dose di saccenteria e la volitiva decisione di mettere in moto l’indagine all’insegna di un “tenetevi forte…prossima fermata, l’incubo!” di crossoveriana memoria (Ultima fermata: l’incubo! è il titolo di un crossover tra Martin Mystère e Dylan Dog). Ancora, giunti a p. 34, ci si imbatte nel riferimento al celebre quinto senso e mezzo, a cui il barbuto ex poliziotto si affida con una certa sicurezza; poi a p. 42 tesse le lodi del proprio udito e a p. 47 della propria capacità di improvvisare.
Da professionista dà “inizio alle danze” e stende gli zombi a colpi di lama, canzonando gli agenti Carpenter e Rakim, ai quali intima poi di fuggire citando Gandalf de Il signore degli anelli.
Quello del #401 è un Dylan sicuro di sé nelle parole e nella gestualità messa in evidenza dal disegno di Corrado Roi. Anche se a volte esplicita i propri limiti e dice che non sa quello che fa, come ammette a più riprese sia ne L’alba nera che ne Il tramonto rosso con l’ironia tipica della caratterizzazione fissata da Tiziano Sclavi, è un uomo d’azione che ne ha già viste tante e conserva memoria del pregresso, sfruttandolo come risorsa per gestire con apparente e dichiarata fermezza i problemi contingenti.
Proprio il passato – quello classico della gioventù constantiniana (viene ripresa la giovinezza debitrice di Hellblazer vista ne Gli anni selvaggi di Barbara Baraldi) e quello inedito – fa da spartiacque tra “Dylan-401” e “Dylan-402”. Infatti, nel secondo capitolo della miniserie, Recchioni sceneggia per le matite di Francesco Dossena alcuni flashback raccontati in prima persona dal protagonista principalmente per mezzo di didascalie. Queste suonano spontanee e interessanti, ricche di dettagli che destano curiosità, soprattutto in virtù dell’evidente richiamo alle vicissitudini di Francesco Dellamorte, quell'”Ur-Dylan” che Sclavi ha consegnato alla storia prima nel romanzo Dellamorte Dellamore e poi nell’omonimo film diretto da Michele Soavi, oltre che in Orrore nero, lo Speciale #3 di Dylan Dog.
Sembra quasi che nel raccontare a Sybil le proprie disavventure Dog riesca a liberarsi di un peso, un po’ come Francesco Petrarca sperava di trovare comprensione e perdono per il suo giovanile errore commesso quand’era un uomo diverso, attraverso i componimenti del Canzoniere. Ed è curiosa la natura di quell’errore, di quel “vaneggiar” petrarchesco, ossia l’innamoramento, visto che nel #402 si svela che è stato l’amore per la donna sbagliata ad aver segnato la vita del titolare della testata.
Con l’autoanalisi, con il racconto dell’Io, con il rivivere e il condividere la sofferenza, lo “spirto guerrier” si placa gradualmente. Questo “Ultimate Dylan Dog” o “Dylan Dog Terra Uno”, per tornare ai comics di casa Marvel e DC, forse si rifugia nella spacconeria perché si trova a disagio e in realtà non è poi così sicuro di sé come vuol dimostrare – in fin dei conti è solo all’inizio come Indagatore dell’incubo.
Allora si perde nei meandri della propria mente, recita una filastrocca sulla Morte (piacevole richiamo a quelle di Sclavi e di Claudio Chiaverotti), chiede scusa, perde l’orientamento, cerca di non rivelare le debolezze di cui si vergogna, balbetta, temporeggia e tentenna. Certo, il “linguaggio badass” non scompare del tutto, anzi torna prepotentemente nel finale, per l’ultimo saluto a Sybil. Certo, la perdita della sicumera sfoggiata nel #401 può essere colpa della situazione drammatica, ma la lettura psicanalitica è affascinante e forse non del tutto peregrina, vista la portata del vissuto del personaggio, oggetto di riscrittura.
Alla fine Dylan Dog resta sempre Dylan Dog, anche in un’operazione che ne rivede parzialmente origini e linguaggio. Una sorta di aggiornamento o di regressione che sembra seguire il registro degli “stati” postati sui social, piazze virtuali nelle quali serve chiarezza e diventa necessario declamare il proprio pensiero e mettere continuamente i puntini sulle “i”, perché il pericolo del fraintendimento è sempre dietro l’angolo.
Ringraziamenti: alcuni dei passaggi sviluppati nell’articolo hanno preso forma durante il lavoro di redazione con Andrea Bramini, Ettore Gabrielli, Michele Garofoli, Paolo Garrone, Davide Grilli, David Padovani, Amedeo Scalese. La responsabilità del contenuto espresso resta ovviamente mia.