I migliori graphic novel che non leggerete mai

I migliori graphic novel che non leggerete mai

Presentiamo un estratto firmato da Elisabetta Mongardi dal saggio "Fare spazio" pubblicato da Hamelin.

Il volume Fare spazio. Riflessioni e conversazioni sul graphic novel in Italia è parte di BilBOlbul 2021, progetto vincitore dell’avviso pubblico Promozione Fumetto 2021, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
Questo articolo è uscito, in versione ridotta, sul numero 94-95 della rivista Gli asini a dicembre 2021.

I migliori graphic novel che non leggerete mai
Riflessioni su editoria a fumetti e traduzione

di Elisabetta Mongardi

Fare spazio coverLa misura di quanto si è amato un libro è la voglia di farlo leggere ad altre persone. Per chi i libri li traduce è facile estendere questa voglia al mondo intero; è probabile che ogni traduttrice o traduttore abbia una lista di titoli che a suo parzialissimo giudizio dovrebbero essere pubblicati assolutamente. Io senz’altro ne ho una, e proverò a usarla per dare corpo a questo tentativo di fare il punto sui fumetti che vengono importati (e soprattutto su quelli che non vengono importati) in Italia nell’età d’oro del graphic novel.

Tra le sincronicità che tengono insieme le voci di questo libro ce n’è una che mi torna utile: nella sua intervista, Paul Gravett cita una lista simile, I migliori 20 graphic novel europei che non avete ancora letto, compilata da lui, Bart Beaty e Mark Nivens per Indy Magazine nel 2004. L’ho recuperata dall’archivio digitale della rivista; si apre con un’affettuosa invettiva contro la moda di stilare liste dei “migliori fumetti di” e prosegue: “In maniera prevedibile e piuttosto sciovinista, queste liste tendono a essere dominate (quando non esclusivamente composte) da fumetti in lingua inglese”. La lista propone poi una ventina di ottimi graphic novel, principalmente in italiano e francese, molti dei quali sono stati poi davvero pubblicati nel corso dell’ultimo decennio, e lancia una domanda critica agli editori anglofoni dell’epoca: perché pubblicano sempre le stesse storie?

Si tratta di una domanda che potremmo rivolgere, identica, all’editoria di fumetto italiana nell’anno 2022, accolto da molte delle analisi di questo libro come un momento particolarmente felice per il settore. Le risposte che potremmo ottenere sono grossomodo ancora le stesse perciò vale la pena rifarla, spostando l’attenzione dal dato puramente linguistico e geografico a questioni che toccano il modo in cui leggiamo e guardiamo le storie.
Dunque: quali fumetti si traducono in Italia oggi, e perché?
Per rispondere in maniera puntuale servirebbero dati di vendita aggiornati, un’analisi comparata dei piani editoriali dei principali editori di fumetto… Insomma, un’inchiesta che scenda nel settore specifico del fumetto d’importazione. Questa inchiesta oggi non esiste, dunque il primo intento di questa riflessione è lanciare il sasso nella speranza che là fuori ci sia qualcuno con l’interesse, le possibilità e le competenze per condurla.

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Per amore di citazione questo articolo prenderà un tono bonariamente polemico, ma è doverosa una premessa: i motivi per cui un fumetto non viene tradotto possono essere tanti e diversi. Esistono ostacoli tecnici che possono bloccare un progetto di traduzione, come l’adattamento grafico del testo (certi fumetti sono complicati o costosi da tradurre perché vanno letterati a mano, per esempio).
Ci sono poi movimenti trasversali all’editoria tutta, come le tendenze e le mode temporanee che portano a far sì che il fumetto “giusto” venga proposto al momento sbagliato, quando il mercato sta dirigendo le energie verso un certo filone tematico o stilistico intorno al quale tutto il sistema finisce per sedimentarsi. Esistono, infine, le profezie autoavveranti: automatismi che portano certe convinzioni, diffuse e ripetute lungo tutta la filiera, a diventare regole. Così un certo fumetto non si pubblica perché “è troppo francese”, perché “il pubblico italiano non lo capirebbe” o “non è pronto”, perché “questo genere non vende” … Senza che esistano prove né dati reali a supporto di queste teorie.

Non si tratta di un problema che colpisce solo gli editori, ma tutta la filiera. In particolare il sistema della distribuzione, che può penalizzare se non addirittura stroncare anche i rari tentativi di portare sugli scaffali delle librerie italiane opere che arrivano dai margini, che siano geografici o stilistici. E, a proposito di scaffali e librerie, anche i meccanismi di promozione contribuiscono a oscurare i titoli che non rientrano nel canone: inutile impegnarsi per tradurre un fumetto sapendo già dal principio che sarà distribuito poco o male e che, se anche dovesse raggiungere la libreria, sarebbe sommerso da decine di manga mainstream.

[…]

negri_gialli_coverAi primi due posti della lista di Indy Magazine (anche se non si tratta di una classifica) ci sono due titoli emblematici: Négres jaunes di Yvan Alagbé e Faune di Aristophane. Mentre Aristophane resta non pervenuto in Italia, il racconto di Alagbé, uscito per Amok nel 1995, è poi entrato a far parte della raccolta Nègres jaunes et autres créatures imaginaires, tradotta negli Stati Uniti nel 2018 per The New York Review Comics e arrivata in Italia solo nel 2019 con il titolo Negri gialli e altre creature immaginarie (su traduzione di Vittorio Camilli) grazie a Canicola, unico editore che, dopo un lungo processo, ha scelto di pubblicarla.

La storia che dà il titolo alla raccolta è il racconto realista di una famiglia originaria del Benin che vive e lavora illegalmente nella periferia parigina. Ma il resto dei racconti contenuti in Negri gialli attraversa stili e approcci narrativi molto distanti: si va dalla fiction pura a strip comiche, da momenti lirici a “cartoline” in cui l’autore prende posizione in maniera frontale su fatti storici che riguardando il rapporto tra la Francia e le sue colonie.

Un fumetto come questo è un caso studio interessante perché svela i molti scogli che un titolo deve superare per arrivare sulle nostre, già troppo affollate, librerie. Eliminato l’ostacolo linguistico – l’originale è in francese – ne restano altri due, che spesso si sovrappongono: uno ha a che fare con lo stile del disegno, l’altro con i confini dell’immaginario.

Una questione banale ma in realtà poco discussa quando si parla di traduzione del fumetto è che, a differenza di quanto accade con un testo letterario, nel quale, al netto delle difficoltà e delle perdite inevitabili, è sempre possibile trasportare il testo per intero da una sponda all’altra, chi traduce fumetti agisce soltanto su metà della storia. Può intervenire sul testo, ma non sulle immagini; anzi spesso è necessario tradire le parole per non contraddire le figure.

Quando si propone un fumetto a un editore, non lo si fa di certo (o non solo) perché è scritto bene, e il primo scoglio da superare è quindi la reazione dello sguardo a un certo modo di disegnare, che è tutto meno che neutro. Pubblichiamo le storie che siamo abituati a leggere, cioè quelle che siamo abituati a guardare. Nel caso del fumetto di Alagbé, il segno non si può dire accogliente, ma resta riconoscibile a chi frequenta il fumetto d’autore. C’è però una questione di rappresentazione: se il fumetto è un’arte di corpi che disegnano corpi, quanto siamo disponibili a osservare corpi che non assomigliano al nostro?

Di nuovo, la questione è complessa e non si riduce al fatto che Negri gialli mette in scena soprattutto corpi neri, anche se già su questo si potrebbe dire molto. Sembra banale dirlo, ma l’esperienza di lettura è spiazzante anche per questo motivo.
Un corpo non è mai uno spazio neutro, nemmeno quando rientra in uno stereotipo culturale condiviso e riconoscibile, e ancor meno quando esce dalla norma delle figure che di solito vediamo disegnate. Nel caso di Alagbé questo diventa un gioco, una provocazione continuamente rivolta a chi legge: in tutti i suoi lavori espone i corpi in maniera a volte oscena, a volte erotica, a volte semplicemente ingombrante, ma sempre con l’intenzione di riportare lo sguardo su di essi.

Non è l’unico a farlo; una delle conseguenze dell’espansione del graphic novel è che lo spazio tra chi disegna e chi guarda si è accorciato, a volte in maniera improvvisa e vertiginosa, creando (o forzando) un’intimità.
L’intimità permette di svelare corpi che, per il solo fatto di arrivarci molto vicino, scatenano cortocircuiti: lo facevano le fumettiste della scena underground, oggi lo fanno le tante autrici che mettono in scena forme di erotismo non canoniche, o quelle che – come Fumettibrutti per citare una delle più conosciute – riprendono la lezione dell’underground e portano lo sguardo molto vicino alla sfera privata per forzare i limiti dell’immaginario. In questi casi, però, le questioni di mercato risentono di quelle culturali: mentre alcune soggettività prendono più spazio nel discorso collettivo (almeno in quello culturale, se non in quello politico) ci abituiamo a osservarle, disegnarle, leggerle. Ma questo non accade allo stesso modo a tutti i corpi.

Cover-SENZA-LIMITIMa per non guardare al bicchiere mezzo vuoto, inizio citando una raccolta che ho effettivamente avuto il piacere di tradurre: Senza limiti di Jillian Tamaki, uscita nel 2017 per la canadese Drawn&Quarterly e in Italia per Coconino Press – Fandango nel 2019. Negli Stati Uniti Senza limiti ha vinto un Eisner Award, è stato nominato agli Ignatz Awards e ha trovato posto in diverse importanti classifiche di vendita. Anche in Italia ha vinto un premio, il Gran Guinigi 2019 come Miglior fumetto breve o raccolta, ma per il resto la sua uscita è passata quasi in sordina. Il suo caso è emblematico perché rispecchia le caratteristiche di quei fumetti che, senza la garanzia di un nome affermato a sostenerli, non arrivano in Italia o, quando arrivano, non ottengono né l’attenzione né la promozione sufficienti a portarli tra le mani di chi potrebbe apprezzarli.

Senza limiti è potuto uscire perché Jillian Tamaki è un’autrice conosciuta, che ha già pubblicato in Italia altri graphic novel, alcuni dei quali – come E la chiamano estate, edito da Bao Publishing e tradotto da Caterina Marietti – sono considerati piccoli capolavori. Si tratta di una raccolta di storie brevi realizzate in un arco di tempo piuttosto lungo, dunque molto diverse tra loro, che devono molto alla tradizione del racconto in lingua inglese: sono essenziali come la prosa di Lydia Davis o Joan Didion; spesso incorporano elementi fantastici come certi racconti di Aimee Bender e Ali Smith, oppure sono punteggiati di piccole epifanie alla maniera di Alice Munro. Cito questi nomi per sottolineare che le atmosfere di Senza limiti non sono così aliene ai gusti di chi legge e apprezza questo tipo di storie, ma anche per evidenziare come sulla scelta di cosa valga la pena pubblicare o promuovere agisca ancora l’impronta di un modo di concepire il graphic novel che si è imposto quando questa categoria si è affermata in Italia per la prima volta.

In quella fase si è privilegiata la narrazione su qualsiasi altra cosa: il graphic novel doveva essere digerito da un pubblico digiuno di fumetti e veniva quindi equiparato al romanzo, a partire dal nome. E come un romanzo doveva comportarsi – un romanzo coi disegni, certo, ma prima di tutto un romanzo. E quindi via di narrazioni lunghe e didascalie fitte di testo in cui è la storia l’elemento dominante. Non si tratta di una critica: autori e autrici di fumetto prevalentemente narrativo come Alison Bechdel e Art Spiegelman hanno creato capolavori assoluti. Ma questa tendenza, forse necessaria all’inizio, è diventata una consuetudine, poi un automatismo, infine un modo di pensare e pubblicare i fumetti che è diventato anche un modo di leggerli.

Dall’esplosione delle biografie e autobiografie, passando per il graphic journalism, fino ai fumetti che affrontano argomenti considerati controversi o attuali, è sempre la storia a guidare la lettura. È giusto ripetere che questo ha portato alla creazione di opere che hanno fatto la storia del linguaggio; allo stesso tempo, però, ne ha penalizzate altre e continua a farlo: i racconti e le forme brevi, il fumetto astratto, le narrazioni rarefatte, quelle costruite secondo la logica del frammento o la disgregazione dei piani temporali e spaziali. O, per dirlo in maniera più concreta, le storie senza trama.

Non è, infatti, una questione che investe solo la prevalenza del testo sulle immagini, ma tutta la costruzione di un impianto narrativo. Esistono fumetti senza trama in cui la presenza materica del testo sulla pagina è un elemento fondamentale, e addirittura contribuisce alla disgregazione di una narrazione unitaria. Ma sembra che il graphic novel abbia imposto, per via del formato o magari per esigenze di leggibilità, la necessità di seguire una storia nel suo dispiegarsi dall’inizio alla fine. Certo, nel mezzo possono esserci salti temporali, sovrapposizioni, narrazioni contraddittorie, ma una volta chiuso il volume bisogna portarsi a casa qualcosa e la struttura lineare rimane rassicurante anche quando la storia non lo è per niente (una delle tante conseguenze della sparizione delle riviste, che invece hanno avuto un ruolo fondamentale nell’eliminare la necessità di storie lineari). Così non si pubblicano i fumetti che non rispondono alla necessità implicita di tirare le somme alla fine: la comicità spiazzante e patinata di My Dirty Dumb Eyes o Hot Dog Taste Test di Lisa Hanawalt (che invece funziona benissimo su altri canali, come dimostra il successo delle serie animate di cui è sceneggiatrice, come Tuca & Bertie); i frammenti di Sweet Time di Weng Pixin, tanto corposi e materici quanto rarefatti; le parabole femministe come En temps de guerre di Delphine Panique o il brutalismo di Chromazoid di Lale Westvind; gli esperimenti in bilico tra scrittura diaristica, poesia, collage e illustrazione di autrici come Eva Cardon o Julie Delporte, e naturalmente le raccolte di storie brevi come Heads or Tails di Lilli Carré (molto simile allo stile di Tamaki).

[…]

L’editoria a fumetti italiana rimane, salvo poche  eccezioni, su territori battuti e sicuri; non mette alla prova lettrici e lettori, non li sfida.
Fin qui ho parlato di figure ma, se è vero che la traduzione del fumetto non è fatta solo di parole, ha senso spenderne qualcuna per parlare dello scoglio linguistico.
Se agli inizi del Duemila Gravett, Beaty e Niven lamentavano il fatto che l’editoria anglofona pubblicasse pochi titoli in lingue europee, dell’editoria italiana possiamo dire che è ancora troppo concentrata sull’importazione di fumetti in lingua inglese e francese (tralasciando i manga, che meriterebbero un discorso a parte e per i quali valgono regole diverse da quelle del graphic novel, in parte perché hanno colonizzato l’immaginario occidentale, in parte perché possono contare su uno zoccolo indistruttibile di lettrici e lettori).

Se ci sono corpi che non vengono rappresentati e stili che non arrivano a noi, ci sono anche lingue totalmente assenti dal panorama fumettistico italiano. Penso al fumetto di area mediterranea e arabofona (su cui sta lavorando una piccola casa editrice siciliana, Mesogea, con la collana Cartographic che pubblica titoli da Libano, Grecia e altri paesi poco frequentati dal graphic novel), ma anche al Nord e all’Est Europa, o alle produzioni a fumetti di Paesi che arrivano in Italia soltanto nella forma di graphic journalism, testimonianze o in occasione di eventi storici particolari che accendono per un momento l’attenzione su questa o quella nazione.

Anche in questo caso, il problema è doppio. C’è un ostacolo pratico: le redazioni sono spesso piccole e a corto di personale, e non è raro che la stessa figura professionale si occupi di ogni passaggio della pubblicazione di un titolo importato, dalla revisione della traduzione (quando non direttamente della traduzione stessa) alla sua promozione.

Le lingue più conosciute sono l’inglese e il francese, e raramente ci si sposta oltre, così i fumetti esteri che circolano di più sono quelli che provengono dai soliti mercati. Il primo passo per superare questi ostacoli sarebbe uno scambio di competenze tra chi pubblica fumetti e chi legge, traduce e opera su lingue e mercati lontani da quelli canonici, ma su questo fronte siamo ancora molto indietro.

C’è poi una questione culturale: gli editori sostengono spesso che il pubblico non sia pronto per questa o quella storia. Ammesso che sia vero, questo dovrebbe spingere tutte e tutti – non solo chi lavora in redazione ma anche chi si occupa di educazione alla lettura e chi organizza festival, mostre ed eventi legati al fumetto –  a farsi una domanda: chi abbiamo in testa quando parliamo di “pubblico”?

Fare spazio – Riflessioni e conversazioni sul graphic novel in Italia
AA.VV.
Hamelin, 2022
232 pagine, brossurato – 22,00 €
ISBN: 9788897745075

Il volume è in vendita sul sito Hamelin e verrà presentato sabato 1 ottobre alle 15:00 a Fruit Exhibition a Bologna, con Martina Sarritzu, Stefano Ricci e Marco Libardi.

 

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