
Tra elaborazione del lutto e sperimentazione, Coconino Press pubblica l’esordio fumettistico di Lorenzo Fonda, Per Aspera ad Astra, un volume denso di idee e capace di mettere a nudo tanto il suo autore quanto i lettori.
Abbiamo incontrato Fonda in occasione del Treviso Comic Book Festival 2025 e gli abbiamo chiesto di raccontarci meglio del libro e della sua esperienza con esso.
Ciao Lorenzo, benvenuto su Lo Spazio Bianco.
Oltre ai doverosi complimenti per il libro, inizierei a raccontare il tuo profilo, che è un po’ fuori dal comune. Hai lavorato nella regia, nell’arte multimediale, in cortometraggi, e adesso approdi al fumetto (che avevi già esplorato) con un’opera che nasce da un’esigenza profonda. Ti volevo chiedere perché hai deciso di scegliere la nona arte per raccontare questa storia e per intraprendere questo percorso di superamento di un lutto?
Allora, sono illustratore da sempre e la cosa è sempre stata parte del mio lavoro come regista, e ho anche sempre fatto principalmente fumetti autobiografici così, per me stesso. Per cui mi è sembrato ovvio. Ho iniziato, credo, le prime pagine riguardo a questa storia due settimane dopo che Elena è mancata. Ho iniziato e l’ho fatto proprio perché sentivo questa esigenza, dentro. La prima tavola che ho fatto è quella di Willie Coyote che cade dentro al buco (no spoiler!, ndr). Era una cosa che sentivo, un’immagine che mi era uscita e ho detto “ma sai cosa, è qualcosa che voglio provare a raccontare”. Poi, quando l’ho vista su carta, ho pensato “dare una forma a questa sensazione che avevo mi ha fatto star bene”. Così ho continuato, sentivo che farlo mi stava aiutando, mi stava piacendo, ovviamente, perché fare fumetti, disegnare sono cose che mi danno piacere, e poi per l’atto terapeutico dell’attività. Ho sentito che iniziava a farmi bene, per cui ho continuato e dopo un po’ ho detto “questa cosa voglio condividerla con la gente, cioè, non voglio che rimanga solo per me”. Anzi, la condivisione è stata parte dell’atto terapeutico. Erano cose che non riuscivo a tenermi dentro, erano dolori così forti che, sai, devi dirlo a qualcuno, perché hai bisogno di qualcuno che ti dica qualcosa.
Anche solo per buttarlo fuori, immagino, e farti supportare in questo da qualcun altro.
Sì, forse era anche una richiesta di aiuto, volevo che la gente venisse a dire “ah, Lorenzo, poverino…”, ed è stata un po’ anche la motivazione per tutto il libro. Mi sembra che la gente adesso sappia meglio cosa ho passato. Non voglio fare la vittima, ovviamente, però perché non condividere e far dire alla gente “ok, ho capito cosa hai passato”?
Penso che sia anche un po’ il ruolo degli amici, quello di condividere insieme sia i piaceri che i dolori.
Certo. Ma in realtà nemmeno solo gli amici perché sia subito dopo che è mancata Elena che anche più avanti, negli anni e con tutte le cose che abbiamo fatto per lei, ho avuto anche conforto da completi sconosciuti, ed è stata una cosa molto bella e inaspettata. Quasi paradossalmente, ho sentito più conforto da alcuni sconosciuti che da persone che conosco benissimo ma, sai, sono tematiche grosse, importanti, difficili, che alcune persone fanno fatica ad affrontare: non sanno bene cosa dire, non sanno bene come approcciare, non sanno bene come e cosa mostrarti dei sentimenti.
Mandano l’emoji del cuore, appunto, come dici nel libro.
Esatto, bravo. Hai capito.

Raccontare l’intimità con la sincerità e la genuinità di Per Aspera ad Astra non è scontato. Ti sei mai scontrato con delle cose che non eri sicuro di voler raccontare, di voler affrontare, mettendole su carta? O è stata una cosa più organica, naturale, dall’inizio alla fine e non hai avuto queste difficoltà?
No, no, sicuramente mi ci sono scontrato. Ho avuto momenti in cui mi dicevo “ah, questo dovrei dirlo; ah, questo non dovrei”, però ho da subito capito che le cose che facevo più resistenza a raccontare erano quelle che andavano raccontate di più. Da lì ho deciso di non mettermi limiti e credo di aver detto davvero tutto. Poi, magari ci sono alcune cose che non mi sono neanche venute in mente e magari tra un anno mi dirò “perché non ho raccontato quella cosa?”. Comunque, ci sono anche delle cose che ho deciso di non raccontare proprio perché non avevo tempo, non c’era spazio, oppure erano un po’ simili ad altre che avevo già detto.
Cambiamo un po’ tema, parliamo un po’ del comparto tecnico. Il tuo libro è una commistione ibrida di modi di raccontare. Hai splash page, pagine di testo, fotografie, pagine a fumetto diciamo più standard e un po’ tutto quello che ci sta nel mezzo. Quanto c’è stato di ragionato e quanto di istintivo dietro alla scelta di ciascuna modalità per raccontare un dato momento, una data sensazione?
Di meditato in realtà non c’è tanto, in generale è stato un approccio molto spontaneo. In realtà avevo già un diario illustrato tenuto a Cuba che mi ero autopubblicato in print on demand, che ho usato un po’ come blueprint per questo. Anche quello aveva vari stili, vari formati. Mi ero molto divertito a farlo e ho deciso di voler riprovare lo stesso spirito anche giocoso, di approcciare il nuovo libro senza darmi nessuna regola di formato perché quando ti inizi a dare regole io personalmente, Lorenzo Fonda, inizio a perdere il gusto di fare le cose, per cui ho deciso di non mettermi nessun paletto. Anche la cosa delle foto, in realtà non l’avevo programmata all’inizio, le foto che avevo iniziato a usare erano solo come riferimenti per ricordarmi di raccontare qualcosa, oppure di fare un acquarello, e poi vedendo l’impaginato ho pensato “ma sai cosa? La foto lì mi funziona”.
Quando ci si imbatte nella prima foto voltando pagina, lì il libro colpisce davvero, perché un conto è leggere di una cosa disegnata, illustrata, quindi c’è una sorta di separazione, di filtro. Poi giri e c’è la realtà, quindi colpisce venir messi faccia a faccia con quella cosa che è successa davvero.
Non ci avevo pensato, però in effetti è così. Infatti Giovanni di Coconino e anche Ratigher, sulle foto, mi hanno detto “benissimo, anzi, se vuoi metterne ancora, per noi funzionano benissimo”, mi hanno incoraggiato anche loro a usarne. Anche perché, a un certo punto, non avevo quasi più tempo per riuscire a finire il libro, e gli ho proposto “ma vi va bene se quella storia la racconto con una foto?”, e loro hanno detto “benissimo”.
Nel libro, in una gag, menzioni Chris Ware. Quanto ti è stato d’ispirazione nell’aspetto ‘multivisuale’, dove unisci tipi di media visivi e tieni un approccio vagamente destrutturato di raccontare?
È scontato dire che è stato di grande ispirazione, soprattutto i suoi sketchbook. Quasi più che per la forma, per l’onestà con cui racconta la sua vita, anche proprio cavolate quotidiane. Mi ha sempre colpito come si sia sempre dimostrato molto vulnerabile, raccontando tutto. Insomma, c’è un genio che fa delle robe così, si espone, si apre. Provo sempre gratitudine quando vedo una persona che si apre così tanto, specie se qualcuno così bravo, così talentuoso, ti fa vedere il suo lato vulnerabile. Io non mi sto paragonando al livello di Chris Ware, però ho pensato di provare a usare quel lato di vulnerabilità. E non solo per questo libro, in generale. Mi piace, non lo so, è proprio una parte della mia personalità.
Durante la creazione del libro hai messo su carta la tua vita e hai mostrato un viaggio per portare fuori di te stesso alcune cose, ma hai prodotto anche pagine che sono state capaci di trasmettere agli altri la realtà di queste sensazioni che avevi dentro. Io ti chiedo quale secondo te può essere la chiave per fare questo, se hai identificato qualcosa che renda veramente efficace la trasmissione?
La risposta si ricollega a quello che dicevo poco fa della vulnerabilità, magari, e ancora prima alla realizzazione che se una cosa mi mette a disagio, allora vuol dire che la devo raccontare. Se il libro arriva in qualche modo, che magari è differente da lettore a lettore, forse è perché ho tirato giù questa barriera tra me e te e ho raccontato qualcosa che andava un po’ oltre a quello che normalmente si dice. Forse il problema del prosaico è che la gente gira tanto attorno alle cose. Invece io mi sono detto “raccontiamola sta roba, andiamo al nocciolo o almeno proviamoci” e gli ho dato una forma mia.

Tornando al disegno, Per Aspera ad Astra è pieno di stili: ci sono parti caricaturali, acquerelli meravigliosi, parti anche in P.O.V. molto realistiche che tu hai fatto in line art. Qual è il tuo stile preferito tra questi e invece quale, se ce n’è uno, ti fa pentire di aver deciso di utilizzarlo?
Allora, gli acquerelli sono la mia cosa preferita. Non c’è niente che per me abbia la stessa sensazione finale, ma anche nel farli, c’è proprio il senso di star creando qualcosa di vivo: l’acqua che si asciuga, come puoi girare il foglio… Poi c’è stato un momento importante in cui ho deciso di smettere di fare il diario su carta e mi sono spostato su tavoletta. Sono stato felicissimo di aver fatto quella cosa perché su carta a metà tavola capivo spesso che per dire una cosa avrei dovuto cancellare tutto. Per cui mi sono messo su Procreate e, sebbene mi divertissi anche prima su carta, in digitale ho iniziato a essere sicuro che stavo raccontando la storia come doveva essere.
Al netto di purismi vari, se devi raccontare una cosa così che è quasi viva, che nasce nel momento in cui ti metti sul foglio a cercare di farla nascere, puoi pianificare fino a un certo punto. Mi sembra normale che ci sia questo processo di avanti indietro in cui puoi pianificare poco la griglia e gli spazi. Qui mi pare una cosa che forse viene anche scoperta mentre la fai.
Sì, certo. Mi vengono anche in mente alcune tavole che sapevo di voler disegnare ma che sarebbero state difficili da fare, a cui ho lavorato tutto di getto. L’ho fatto in digitale su Procreate, tutto schizzato. Quando con Ratigher abbiamo parlato del libro pagina per pagina, gli ho detto “questo lo voglio rifare in bella”, e lui mi ha risposto “no, questa assolutamente tienila così”, perché aveva capito che aveva più forza vedere il lavoro di getto. L’ho potuto fare perché appunto lavoravo in digitale, su carta non sarebbe usciti come volevo.
Hai un’idea di cosa vuoi fare ora e come vedi magari i prossimi anni, specie in relazione al fumetto?
Mi piacerebbe cimentarmi in una storia di fiction, sarebbe bello realizzarla come film ma magari inizio con una graphic novel e vediamo come va.
Penso che se lo farai con lo stesso approccio onesto di questo volume, sicuramente potrebbe funzionare bene, e te lo auguro sinceramente.
Sicuramente non cambierò, io sono questo, quindi non vado molto lontano.
Grazie mille per il tuo tempo, Lorenzo!
Intervista realizzata il 27 settembre a Treviso in occasione del Treviso Comic Book Festival 2025
Lorenzo Fonda

Lorenzo Fonda (Modena, 1979) è un regista e artista multimediale. La sua produzione spazia dalle campagne pubblicitarie a video musicali a documentari, passando per cortometraggi, installazioni interattive, illustrazione, fumetto, esperienze di realtà virtuale, performance dal vivo. Il suo documentario Megunica, sul lavoro dell’artista italiano Blu, ha vinto vari premi internazionali, e il documentario A Glitch in the Matrix, per cui ha lavorato come direttore dell’animazione, è stato presentato al Sundance Film Festival 2021. Ha collaborato in qualità di regista con artisti musicali quali Metronomy, Jovanotti, Scissor Sisters, Bright Eyes, Caribou, e con brand internazionali come Nike, National Geographic, Google, Adidas. Vive e lavora tra l’Italia e gli Stati Uniti.
