133: l’autobiografia secondo Noah Van Sciver

133: l’autobiografia secondo Noah Van Sciver

Noah Van Sciver approda in Oblomov con 133, la storia onesta e dolorosa della propria famiglia. Un racconto senza alcun filtro, un'autobiografia che non risparmia l'autore ma che a volte sembra indulgere troppo nell'autocommiserazione, chiudendo fuori il lettore.

133 è il numero civico della mia prima casa in cui ho vissuto. Una casa in legno costruita nel 1907 a Merchanville, una cittadina del New Jersey, contea di Camden.

È lo stesso Noah Van Sciver a spiegare in una breve didascalia una delle due possibili letture e pronunce del titolo del libro. L’altra, più sibillina e rivelatrice, è One Dirty Tree: in inglese, infatti, il numero e la locuzione (traducibile come “un albero sporco“) hanno una pronuncia simile e il gioco di parole, usato dai figli della famiglia Van Sciver per indicare la loro casa, racchiude in se stesso il nucleo di tutta la storia.

La storia di una famiglia, tra passato e presente

La sporcizia e la povertà sono i tratti distintivi dell’infanzia di Noah Van Sciver: una disastrata famiglia mormone cresciuta nel New Jersey, un padre avvocato frustrato e delirante in lotta con la depressione, una madre remissiva e asservita, otto figli che vivono sulla soglia della sussistenza.
In questo breve racconto di 120 pagine, pubblicate una al giorno per circa tre mesi sul proprio profilo Patreon, lo scrittore racconta senza alcun paravento sia alcuni particolari non edificanti del proprio difficile passato, sia la sua attuale situazione lavorativa/sociale e sentimentale. Un romanzo di formazione amaro, in cui i drammi personali e famigliari si riflettono in un continuo gioco tra prima e dopo, tra fanciullezza ed età adulta, che ha portato con sé nuovi problemi e complicazioni.

Nei momenti migliori, Van Sciver riesce a usare la propria esperienza personale per affrontare tematiche più complesse (e universali) quali la religione e le sue ipocrisie, lo sviluppo della società statunitense negli anni ’90 – che ha prodotto una generazione priva di punti di riferimento e precaria in ogni suo aspetto – il rapporto con l’arte, la cultura e il fumetto, le difficoltà del lavoro di fumettista e i problemi nel costruirsi una vita stabile. Nel fare tutto ciò, l’autore non ha paura di mettersi completamente a nudo, parlare di se stesso e delle sue idee, dei lati oscuri della sua storia e della sua personalità, con una onestà completa e a tratti brutale.

Purtroppo, sebbene questo meccanismo crei un legame umano ed empatico con chi legge, in alcuni momenti il racconto diventa quasi un sessione di auto-analisi, più interessante per lo scrittore stesso che per il suo pubblico. A differenza di Fante Bukowski, in cui l’autocommiserazione era un aspetto che andava a creare lo sfaccettato carattere del patetico protagonista, qui questa componente – presente soprattutto nelle parti ambientate nel passato recente/presente – stride eccessivamente con il resto della storia: l’effetto di questa scelta risulta deleterio perchè l’empatia e l’immedesimazione con il Noah bambino vengono sostituiti da un sentimento di pietà distaccata e indifferente per il Noah adulto, nonostante le interessanti tematiche trattate.


Raccontare se stessi, sei vignette alla volta

L’onestà del racconto si riflette nei disegni, che sono figli della tradizione underground statunitense: uno stile sintetico, all’apparenza “semplice”, ma fortemente espressivo, che riesce con pochi tratti a definire i personaggi e le loro emozioni, a costruire ambienti dettagliati e vividi. Van Sciver trasmette in maniera tangibile il senso di povertà, sporcizia e oppressione della sua infanzia, ricostruendo la propria dimora e le sue atmosfere in ogni minimo particolare.

Anche la scelta dei colori, piatti ma vivaci, contribuisce sia a esaltare gli aspetti stilistici, sia a costruire il racconto, laddove il colore diventa un mezzo per sottolineare momenti chiave (come nelle pagine 40 e 41, in cui la violenza del padre si scatena sul giovane Noah).

Lo storytelling è costruito in modo da esaltare i momenti più intensi del racconto, sebbene appaia semplice e di impostazione classica (suddivisione in sei vignette più o meno regolari, occupate spesso da didascalie in cui l’autore narra in prima persona gli eventi della sua vita): l’uso di alcune splash page e illustrazioni crea pause che lasciano il tempo al lettore (ma anche al narratore) di riflettere su alcuni passaggi o frasi salienti (esempio perfetto sono le pagine 94-96, in cui testo, colore e ritmo esaltano la drammaticità del racconto).

One Dirty Tree, pur non essendo un’opera perfetta e probabilmente non tra le migliori di Noah Van Sciver, ha comunque il merito di essere un racconto onesto e intenso, che prova a trasformarsi da storia personale a parabola universale, confermando il talento di un autore tra i più importanti e significativi del panorama underground statunitense contemporaneo.

Abbiamo parlato di:
133 (One Dirty Three)
Noah Van Sciver
Traduzione di Stefano Sacchitella
Oblomov edizioni, 2017
120 pagine, brossurato, a colori – 19,00€
ISBN: 978-88-85621-09-1

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