Seconda Guerra Mondiale, fronte del Pacifico. I territori occupati dai giapponesi sono investiti dagli attacchi delle forze statunitensi: bombardamenti navali, incursioni di bombardieri e, infine, lo sbarco dei marines, che liberano una dopo l’altra le isole del Pacifico. Fino all’agosto 1944, il Quartier Generale Imperiale giapponese prevedeva di affrontare gli sbarchi con attacchi contro le teste di ponte (inchiodare il nemico sulla spiaggia) e di ricorrere ai cosiddetti “attacchi banzai“, già dalla prima notte di combattimenti.
Questa tattica si rivelò fallimentare a causa dei massicci bombardamenti che preparavano e supportavano gli attacchi e fu abbandonata a favore dell’adozione di tattiche di guerriglia, che resero, ad esempio, sanguinosa la conquista di Iwo Jima, come ben raccontato da Kakehashi Kumiko nel suo famoso Così triste cadere in battaglia1.
Logiche di guerra
Shigeru Mizuki (di cui Rizzoli-Lizard già propose NonNonBa) si trovò coinvolto in questo scenario come soldato di stanza in Papua Nuova Guinea e nel suo Verso una Nobile Morte dà forma ai propri ricordi della vita al fronte. Mizuki fu uno dei pochissimi sopravvissuti ai feroci combattimenti e agli attacchi suicidi, la “nobile morte” del titolo, che coronavano la tattica di scontro frontale e che, secondo l’etica degli ufficiali, erano preferibili alla resa e alla conduzione, in mezzo agli stenti, di una guerriglia (a tal proposito, Mizuki nelle sue note in coda al volume sottolinea che il comandante del suo reparto ordinò sì l’attacco suicida, ma se ne defilò tranquillamente).
Composto da brevi episodi, il racconto è cadenzato dalle morti dei soldati, morti mai particolarmente epiche, spesso grottesche, sempre inutili in un contesto tattico che via via perde senso. Quello che si afferma col passare dei mesi e il cumularsi degli strazi è lo sfinimento, fisico e morale, e il disorientamento totale. Se per la truppa, alla fine, non ha senso resistere in un’isola lontana, mentre il Giappone è martoriato dai bombardamenti aerei che indicano che la sconfitta è certa, se non vicina, per alcuni ufficiali sono insensate le tattiche, che non sembrano tener conto delle sconfitte subite e seguono un’idea fissa, lontana dalla realtà. Che senso ha, dal punto di vista tattico, se non strategico, mandare al suicidio soldati che potrebbero essere utilizzati in azioni di guerriglia, logoranti per il nemico?
A questa domanda, insistentemente ripetuta, gli ufficiali superiori rispondono evocando la tradizione e l’etica a cui il Giappone si affida e che informerà di sé le direttive strategiche, almeno fino alla triplice caduta di Saipan, Tinian e Guam (luglio – agosto 1944).
Quella che il Giappone affronta in questa fase è non solo la crisi di una modalità di combattimento, ma anche quella di un sistema etico, che si dimostra inadatto ai tempi, e che riflette la crisi che in Europa era emersa già durante la Prima Guerra Mondiale (come racconta per esempio Jacques Tardi, nel suo Era la guerra delle trincee – leggi qui la nostra recensione), dove gli attacchi erano ordinati, spesso senza alcun senso dal punto di vista militare, in forza del disprezzo della vita dei soldati, carne da macello proveniente dalle classi popolari. Laddove si sceglierà la guerra di resistenza, come a Iwo Jima, gli ufficiali si mescoleranno alla truppa, perché una simile tattica richiede la condivisione delle sofferenze, l’annullamento dei privilegi di rango.
Estranei in Paradiso
Nella visione di Mizuki, i soldati nell’isola sono corpi estranei, sorta di caricature abbozzate che si muovono, inciampano, rotolano nel fango e negli escrementi, si smarriscono nella boscaglia, sullo sfondo di una natura da paradiso terrestre, perfetta in sé (contrasto illustrato tecnicamente dall’adozione di due stili: le figure dei soldati giapponesi appunto come caricature, gli sfondi naturali come elaborazioni da fotografie).
Quello dell’isola è un mondo che ha trovato e vive il proprio equilibrio senza gli esseri umani, che portano solo devastazione: intere isole videro la propria vegetazione, quindi la vita che ospitavano, cancellate dai combattimenti. Ma anche la Storia, rappresentata da immagini degli attacchi statunitensi riprese da fotografie, è ambiente ostile per i piccoli soldati, gran parte dei quali vorrebbe solo la propria piccola vita tranquilla, senza alcuna velleità eroica o epica (i continui richiami dell’ufficiale al mito del sacrificio di Dai-Nanko, samurai del XIV secolo).
Il finale scelto da Mizuki si distacca dall’autobiografia, ma corrisponde a quello di tanti altri reparti, e sottolinea come la guerra annulli la speranza e abbia come esito l’annullamento degli individui tramite l’asservimento a logiche di potere. In un simile contesto, l’idea di eroismo diventa un tentativo di plagio morale, più che un elemento di senso.
L’unica notazione che l’autore risparmia a questa idea che ottunde le coscienze è che proprio l’eroismo delle truppe giapponesi fu l’argomento retorico principale che spinse gli Stati Uniti ad abbandonare l’idea dell’invasione del Giappone, in favore dell’utilizzo della bomba atomica. Ma questo aspetto, questa transizione di fase della Storia, forse era troppo delicato anche per Mizuki.
Abbiamo parlato di:
Verso una Nobile Morte
Shigeru Mizuki
Traduzione di Vincenzo Filosa
Rizzoli-Lizard, 2013
367 pagine, brossurato, bianco e nero – 22,00 €
ISBN: 9788817066815
Kakehashi Kumiko: Così triste cadere in battaglia Einaudi, 2007 ↩