L’inizio del 2014 ha portato con sé, finalmente, la ristampa di una delle opere seminali per la rinascita del fumetto supereroistico degli anni ’80: quel Marvelman a firma di Alan Moore che, di fatto, aprì le porte alla cosiddetta British invasion di Marvel e DC Comics da parte del bardo di Southempton e di una schiera di autori inglesi che avrebbero trasformato il volto del fumetto mainstream statunitense.
Alla fine di un’infinita diatriba legale, la Marvel ha alla fine ottenuto i diritti di pubblicazione del personaggio e anche in Italia, dallo scorso marzo, i lettori possono finalmente leggere le storie di questo atipico supereroe britannico.
Nella sua biografia Supergods, Grant Morrison si sofferma ad analizzare l’operato di Alan Moore sul personaggio, essendo stata la lettura di quelle storie, per l’autore scozzese, una sorta di molla per riprendere in mano e dare una svolta alla sua carriera in campo fumettistico.
Alan Moore era autodidatta, ambizioso e fieramente, ostentatamente intelligente, e il più grande trucco a disposizione del suo arsenale di grandi trucchi era quello di apparire completamente nuovo, come se prima della sua comparsa non ci fosse stata alcuna storia dei fumetti. La sua spiritosa, eloquente, autoironica voce pubblica (“Non dico di essere il Messia…”) avanzò di pari passo a una radiosa disinvoltura che rinnovò il genere dei fumetti. Il suo sorprendente impatto visivo (un metro e novantacinque d’altezza, occhi luminosi, con una barba da profeta che esplodeva in tutte le direzioni e un’abbondante massa di capelli fluenti) diede ai fan un potente e carismatico feticcio. Moore divenne, nelle sue stesse parole, la “prima ragazza dei fan” e la storia d’amore fu intensa e struggente. Era dai tempi di McGregor e Englehart che uno scrittore non sedeva al centro di così tanta attenzione e trepidazione, ma l’adorazione era così fervidamente acritica che quei precedenti e tutti gli altri furono dimenticati nel lampo di un flash. I fan svenivano, onorati che qualcuno tanto sicuro e divertente fosse arrivato a dimostrare che avevano sempre avuto ragione sul potenziale dei fumetti.
L’opera di Moore portò i supereroi più vicini che mai alla realtà con Marvelman, pubblicato a puntate nel Regno Unito sulla rivista Warrior a partire dal 1982. La striscia che nel 1963 era finita nelle edicole come picaresco sostituto delle avventure di Capitan Marvel era rinata nella Gran Bretagna della Thatcher, tremante sotto le fredde luci delle lampade al neon. Il giovane e spensierato Mickey Moran era diventato Mike Moran, un reporter di mezza età, sposato, con il fastidioso sospetto di esser stato qualcosa di più in altri tempi. Perseguitato da una misteriosa parola che non riusciva più a ricordare, Moran si ritrovava a seguire una protesta antinucleare che ricordava il sudiciume in bianco e nero di Steel Claw, ma aggiornato agli anni Ottanta di Greenham Common, Trident e Windscale.
Rapito dai terroristi, veniva gettato contro una porta a vetri, in cui Moran intravedeva la parola Atomic scritta al contrario. Mormorando l’inspiegabilmente familiare incantesimo “Kimota!” (la “parola chiave dell’universo”, un tempo pronunciata con orgoglio da Mickey Moran), lo squallido imbrattacarte si trasformava, con un lampo di luce atomica e un tuono, nel maestoso superessere Marvelman.
Le illustrazioni di Gary Leach, che combinavano l’accurato dettaglio fotorealistico e la precisione delle chine della scuola britannica con le immagini di superuomini volanti in lotta della tradizione dei fumetti americani, definirono un aspetto per le storie “serie” dei supereroi che sarebbe durato fino al ventunesimo secolo. Improvvisamente, Leach fece apparire datati i disegnatori di fumetti americani esattamente come Moore fece con gli scrittori.
Moore invertì abilmente le dinamiche di Capitan Marvel e del suo derivativo, l’originale Marvelman. Il Mickey Moran di Moore era invecchiato con il passare del tempo e Mike Moran era un uomo adulto in grado di tornare giovane e perfetto grazie alla perduta parola del potere. Come Marvelman, era più aggraziato, più intelligente, snello e muscoloso del suo alter ego, il grasso e tozzo uomo comune Mike Moran. Mike non era in grado di dare un figlio alla moglie Liz, ma dopo una magica notte trascorsa tra le nuvole con Marvelman, lei rimaneva incinta di un superbebè che la considerava con il disprezzo di un angelo nato dai lombi sudati di un gorilla. In Miracleman n. 13 (alla striscia e al personaggio fu cambiato il nome per l’edizione americana su richiesta degli avvocati della Marvel Comics) i lettori si ritrovarono in prima fila mentre il semplice miracolo della nascita veniva rappresentato al rallentatore, con inquadrature ravvicinate e realistici dettagli anatomici dal disegnatore Rick Veitch e con poetiche didascalie pro-vita cortesemente offerte da Moore.
Diversamente dalla fantasia eroica dell’orfano Billy Batson, Mike Moran desiderava, malinconico e con dolceamara nostalgia, la carica di vitalità e sicurezza della sua gioventù. Capitan Marvel e Marvelman erano figure di appagamento dei desideri per bambini, ma Moore trasformò Marvelman nel sogno di volare che perseguitava le loro controparti più cresciute e responsabili.
Moran rappresentava il pubblico dei fumetti nel suo invecchiamento, il sempre più piccolo mercato degli appassionati composto da persone tardo-adolescenti, ventenni e persino trentenni che erano cresciuti con questi eroi e trovavano ancora difficile ingiusto lasciarli andare. Marvelman divenne la figura di appagamento dei desideri per una crisi di mezza età; un sogno del sé perfezionato che alla fine avrebbe distrutto l’uomo Moran, lasciando al posto di quel fragile e riconoscibile personaggio un super-dio di nome Marvelman e un mondo a malapena riconoscibile.
Alienato e insidiato dal suo sé superiore, alla fine Moran commetteva una sorta di suicidio pronunciando “Kimota!” un’ultima volta e scambiando per sempre posto con il magnifico alter ego. Nel mondo del futuro di Marvelman non c’era spazio per l’uomo comune.
Il precedente giovane compagno di Marvelman, Kid Marvelman alias Johnny Bates, veniva dipinto come una satanica storia di successo aziendale, uno yuppie rampante e superpotente in abito su misura e cravatta che finiva con lo spazzare via Londra in un feroce assalto con cui si rappresentavano le orribili conseguenze che uno scontro tutti-contro-tutti tra esseri superumani in stile Marvel Comics avrebbe avuto sul mondo reale in modo simile al raccapricciante dipinto del Sedicesimo secolo di Pieter Bruegel Trionfo della morte. In una tavola di due pagine successiva alla battaglia, una donna accecata barcollava tra le rovine con i figli aggrappati alle vesti strappate, mentre migliaia di londinesi venivano mostrati morti o morenti, impalati, bruciati o schiacciati nelle proprie auto. Il criminale si prendeva persino la briga di scotennare una famiglia per poi stenderne le pelli come lenzuola sullo stenditoio del terrazzo di casa loro.
Moore voleva mostrare che anche la crudeltà ha una dimensione superumana, e dimostrare l’abietto orrore di ciò che uno psicopatico con i poteri di Superman avrebbe potuto fare a persone comuni con un paio d’ore a disposizione per esprimere la propria vasta e perversa immaginazione. In seguito sarebbe stato difficile tornare a guardare con gli stessi occhi i giochi al massacro dei supereroi Marvel Comics. La battaglia degli elementi tra Marvelman e il suo malvagio protégé fu ampiamente citata sullo schermo con il duello nella tempesta tra l’eroe Neo e il sinistro agente Smith in Matrix Revolutions, ma i registi lasciarono perdere teste tagliate e sodomia.
Il malvagio amministratore delegato in cravatta ed elegante abito nero sarebbe diventato lo standard del grande lupo cattivo nei fumetti degli anni Ottanta. Anche lo scienziato pazzo Lex Luthor fu reinventato e trasformato in un vorace super-magnate. La devastazione lasciata dalla furia di Bates ci mostrava un mondo stuprato e violato da affari, avidità e interessi personali.
Successivamente allo stravolgimento culturale rappresentato dall’epocale conclusione della battaglia contro quello che era stato Kid Marvelman, il gruppo di superuomini di Moore proseguì la sua storia istituendo sulla Terra un nuovo ordine liberal-utopico che permise allo scrittore di indulgere sui sogni di tutti gli intellettuali emarginati appartenenti alla classe lavoratrice. I lettori inglesi esultarono quando Marvelman e Marvelwoman rimossero con delicatezza una singhiozzante e disorientata Margaret Thatcher dal suo ufficio prima che Charles Manson venisse riabilitato permettendogli di lavorare con i bambini.
Marvelman chiuse con il suo splendido eroe senza tempo che guardava malinconico dal suo Olympus in acciaio inossidabile un mondo riscattato nella meraviglia, dove le fantasie dei fumetti erano diventate cose di ogni giorno in una Silver age permanente e orgasmica. Moore lasciò il suo supereroe sessualizzato, benché ancora in calzamaglia, arenato in un infinito adolescenziale mondo onirico fatto di volo, immortalità e super-sesso, a rimpiangere l’ordinario e il comune in un’utopia troppo perfetta per poter desiderare di crescere.
Le buffonate dei supereroi Marvel e DC che stupidamente e ripetutamente preservavano lo status quo erano smascherate come cliché e rese antiquate da questa magistrale rivalutazione in chiave fantascientifico-sociale delle premesse basilari dei fumetti.
Marvelman può essere concepito come derivazione del concetto di supereroe americano nello stesso modo in cui la musica dance elettronica degli anni Ottanta è un’evoluzione del rock ‘n’ roll, come Fade to Grey dei Visage è un misterioso, futuristico e radicale scostamento dal modello di partenza Return to Sender di Elvis. Moore obiettò che l’arrivo di un vero essere superumano nelle nostre vite modificherebbe rapidamente e radicalmente per sempre la società. La Lega della Giustizia o i Vendicatori non potrebbero essere assimilati in un qualsiasi mondo conosciuto come sembra accadere negli universi Marvel e DC. I superuomini segnerebbero la fine della razza umana e deformerebbero la Storia con la gravità della loro stessa presenza.
La padronanza di Moore sul suo materiale portò nei fumetti dei supereroi le discipline e le strutture di dramma, letteratura e musica in un modo che trasformò quanto ci era familiare in un qualcosa di improvvisamente nuovo. La sua voce eloquente e di sfida si alzava i una landa di compiacimento. La storia di Mike Moran iniziava in un mondo riconoscibile come la Gran Bretagna della Thatcher, fatta di centrali nucleari, scioperi, terrorismo e ambiguità morale. Il suo eroe era un trasandato e strascicato uomo qualunque con bollette, mal di testa e il sogno di volare. […]
Tratto da “SUPERGODS” © 2011 by Grant Morrison – pagg. 204-208
Edizione italiana: © 2013 Bao Publishing
Estratto da:
Supergods (pagg. 204-208)
Grant Morrison
Traduzione di S. Mozzi
Bao Publishing, 2013
463 pagine, cartonato, bianco e nero – 19,00 €
ISBN: 9788865430163
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