Dei, eroi e supereroi, identità, epica ed etica (5/5)

Dei, eroi e supereroi, identità, epica ed etica (5/5)

Dei, eroi e supereroi sono protagonisti di racconti di epoche lontanissime fra loro, eppure non di rado le loro avventure ci mettono di fronte alle stesse questioni di senso, che hanno mantenuto il loro valore attraverso i secoli. In questa pare, indaghiamo sul concetto di Giustizia.

Vincitori e vinti/Identità a confronto

Nei precedenti articoli abbiamo visto come possiamo interrogare le figure e le vicende di eroi e supereroi per esplorare i principi e le visioni del mondo che generano quei racconti. In questo articolo di chiusura (prima di uno speciale con bibliografia e altri ragionamenti), torniamo invece a focalizzarci sui personaggi e sulla loro identità.

Torniamo alla chiusura di The Killing Joke di Alan Moore. Quello che vediamo è un istante di condivisione, forse di illuminazione: i due nemici sembrano aver trovato un terreno comune, uno spazio dell’animo che non soffre i loro conflitti reiterati, nel quale convergono (“Strangeways, here we come”!) due vissuti, che si riflettono l’uno nell’altro. È un momento di empatia, un moto di risonanza dello spirito che vibra in sintonia con quello dell’altro (anzi, dell’Altro!).

Un momento altrettanto intenso lo troviamo nell’Iliade: è l’incontro fra Priamo e Achille nella tenda del principe mirmidone. Il Re dei Teucri, che è venuto a reclamare il cadavere del figlio amato (tanto amato quanto Paride era invece disprezzato da tutta Ilio), abbraccia le gambe dell’avversario, che lo fa rialzare, e i due si sciolgono in pianto. In questo momento, Achille vede in Priamo il padre Peleo, che non rivedrà mai più, e Priamo in Achille vede il figlio perduto. È un incontro che dà sfogo positivo al dolore dei due uomini e sana l’oltraggio al cadavere; un incontro “impossibile” promosso dallo stesso Zeus, che ha inviato Iris da Teti e da Priamo. La madre convince il figlio a superare il dolore, mentre Priamo decide, contro l’opposizione di familiari e sudditi, di recarsi all’accampamento acheo – Ermes, in veste di soldato greco, lo accompagna e protegge fino alla tenda del nemico.

La sintonia fra Batman e Joker deriva da una componente della loro vita e della loro personalità che i due condividono. Però ricordiamo e riflettiamo, per evitare derive nella lettura: la personalità è una struttura complessa e la similitudine di una sua parte non dice niente sul resto. Batman e Joker condividono una sofferenza, non l’etica di riferimento: poco prima dell’abbraccio, Batman ribadisce al Joker che intende seguire le regole e questo è un leitmotiv di tutto il racconto, che lo stesso Gordon ripete anche dopo la paralisi della figlia e le torture subite.

La partecipazione a una stessa umanità può essere ciò che spinge Batman a consegnare il Joker alle istituzioni invece che a eliminarlo. Il riconoscimento della sua umanità lo rende soggetto alla giustizia (non semplicemente all’istituzione psichiatrica) e Batman, con il suo agire, si pone come strumento della giustizia, non come giudice né, tantomeno, come vendicatore. Batman fa carico alle istituzioni della custodia del Joker (che garantisce sicurezza alla comunità a breve termine) e della sua rieducazione (che la garantisce a lungo termine). Viene da dire che siamo di fronte a una tipica manifestazione della divisione di responsabilità fra poteri nel regime democratico: Batman segue le regole, può partecipare alla loro evoluzione, ma non le genera motu proprio: non si comporta come una divinità che emette decreti (thesmoi), oracoli (fata), né tantomeno sentenze. L’ordalia è un istituto espulso dallo spazio giuridico e rimane solo come tentazione per mascherare l’arbitrio.

Batman, nella sua autonomia, prende in considerazione leggi e istituzioni del vivere civile e convive con esse in modo talvolta travagliato. Enea diventa eteronomo quando uccide Turno perché il “codice” gli impone di vendicare Pallante con la morte del nemico. Lo fa senza troppi problemi, comunque all’interno di un sistema di iura belli teorizzato tra gli altri da Cicerone nel De officiis. Sembra allora che nei poemi omerici il peso delle leggi sia ancora più grave, ma meno problematizzato. A questo punto la visione del mondo propria di Batman potrebbe avvicinarsi a quella omerica, però senza rotture.

Luca Giordano, Enea e Turno

C’è un’altra prospettiva che offre spunti interessanti: quella che guarda al rapporto fra il Destino e i personaggi che sembrano opporvisi, i non eletti. L’esistenza di un “piano” taglia in due l’umanità: sebbene ognuno ne faccia parte, ad alcuni è riservata la parte al sole, ad altri quella in ombra. Nel supereroico abbiamo una distinzione netta, basata sul campo etico, e una natura illimitata del racconto che cambia naturalmente il significato dei concetti di “vittoria” e “sconfitta”. Sottolineate queste differenze, la domanda che può aiutarci è sul ruolo di coloro che accomuniamo sotto la categoria “villain”.

Nell’Eneide, il Fato genera una dinamica irresistibile, ma non per questo senza avversari. A opporsi a Enea, quindi al volere del Fato, sono Turno, Mezenzio, Camilla, Didone e Giunone. Tutti costoro sono inevitabilmente dei vinti, in senso profondo destinati alla sconfitta. Il ruolo nel poema di questi “antagonisti del Fato” è talmente rilevante che Antonio La Penna, nel suo L’impossibile giustificazione della storia (Laterza, 2005), definisce l’Eneide “poema dei vinti”.
Il loro valore non sta nel drammatizzare la vicenda (questa è solo la loro funzione narrativa) ma nel fatto che problematizzano i decreti del Fato e l’agire stesso di Enea. Personaggi articolati, ci spingono a interrogare le scelte del protagonista, a chiederci “e se?”, a mettere in dubbio, se non la giustizia, la necessità dei decreti del Destino. Didone e Amata sono schiacciate nella lotta con il Destino e la loro sconfitta le porta al suicidio. Come a dire che chi non vince o accetta la sconfitta e il Destino oppure esce di scena suicidandosi. A noi non resta che interrogarci sulle responsabilità di quelle morti: possiamo ridurle solo alla scelta individuale? Non macchiano, forse, il cammino lastricato di mattoni dorati che porta al dominio di Augusto?

Ottaviano Augusto

L’Impero, teniamolo sempre a mente, si dichiara erede delle virtù civiche e il poema virgiliano nasce da una commissione esplicita con una funzione encomiastica e propagandistica. Per questo, mette in risalto il volere del Fato unendo le origini di Roma al principato augusteo, cercando di estromettere il lato oscuro di quella monarchia che Roma rigettò deponendo l’ultimo sovrano etrusco, rappresentato nell’Eneide da Mezenzio. Egli è un tiranno crudele ed è il contrario del buon re, è empio, opposto al pius Aeneas. Ha una colpa: la tirannia, l’oppressione del cittadino, la crudeltà mostruosa.

Notare, tuttavia: Virgilio, sempre molto attento alle sfumature e alla psicologia dei personaggi, nega l’opposizione netta, didascalica, manichea tra bene e male, perché la morte del figlio Lauso porta alla luce l’amore paterno di Mezenzio, gli fa smarrire il senso della vita e gli fa prendere coscienza della colpa. Il dolore quindi lo rende nobile, riscattandolo almeno sul piano umano. Diremmo, con occhio moderno, che Virgilio separa la persona (Mezenzio) dal problema (la dittatura).

Turno viene spinto da Aletto, una delle Erinni, a combattere contro l’invasore troiano. È quindi il divino a spingere Turno all’azione. Il re dei Rutuli, di ascendenza semidivina come il rivale, svolge e paga un ruolo di pedina e vede usurpato dal profugo di Ilio il proprio destino di gloria, verso il quale l’avrebbe avviato il matrimonio con Lavinia. Turno è in una certa misura squilibrato, sicuramente talvolta è smisurato, soprattutto rispetto a Enea. Quando uccide Pallante, vive la cosa come massimo momento di gloria, ma in realtà è atto di hybris del quale neanche si rende conto e che sconta per mano di Enea. In ogni caso, Turno riconosce la propria sconfitta e confessa di averla meritata: l’avversario ha vinto lealmente. Quello che Turno non riconosce è la giustizia dei decreti del Fato. E cerca un terreno comune con il vincitore: come fece Ettore con Achille, gli ricorda che anche lui ha avuto un padre. Ma questo richiamo alla comune umanità non ferma la strage.

Torniamo al presente e, con il bagaglio di queste riflessioni, chiediamoci quale sia il ruolo e il senso dei villain nel complesso immaginario supereroico (non, quindi, dal punto di vista della funzione narrativa). Possiamo parlare di “vinti”, secondo l’ottica sopra proposta? Per rispondere, dobbiamo ben capire i termini della discussione: l’opposizione “vincitori-vinti” definisce una dimensione diversa da quella sulla quale posizioniamo supereroi e villain. La prima riguarda il mantenimento o meno di valori: i vinti sono coloro che vedono rimosse le proprie istanze sociali e culturali, i loro valori dall’orizzonte politico; sono coloro che diventano invisibili e ignorati, ancor prima che emarginati; sono coloro ai quali è reso impossibile partecipare alla costruzione del presente e del futuro. L’opposizione sulla quale si confrontano invece supereroi e villain è sulla conformità a e sul rapporto con i valori e le prassi dominanti.

Paradossalmente, in molti casi sono i supereroi che si fanno portavoce di istanze a rischio di sopraffazione, quali la giustizia e il rispetto dei diritti umani, mentre i villain incarnano quelle che di fatto sono forze dominanti nelle dinamiche sociali, politiche ed economiche – schema che peraltro è direttamene collegato alle origini dei supereroi della Golden Age.

A una prima lettura, può sembrare che The Killing Joke proponga il Joker come un “vinto”, ma in realtà è più preciso affermare che il Joker è il risultato di una sconfitta. Semmai “vinto” è l’individuo che poi diventa il Joker: fra i due esiste una discontinuità, una vera e propria dualità ontologica. Quello che vediamo accadere è una versione perversa del famigerato “cammino dell’eroe” e nel Joker ogni tratto originario della persona che fu è perduto irrimediabilmente.

Ma una differenza ancora più profonda, rispetto a una “poetica dei vinti”, sta nel fatto che, mentre i “vinti” dell’Eneide rappresentano forze residuali rispetto alle magnifiche sorti e forze progressive di una forma di potere (il principato augusteo e la sua cultura), il Joker non propone valori costruttivi alternativi. Il suo agire è generalmente autoreferenziale e propone un’autonomia totale, ma che rimanda alla pura legge di natura, pura lotta per il predominio. Raramente possiamo collegarlo a qualcosa che preveda l’altro, come nella visione proposta da Scott Snyder in Morte della Famiglia e in Gioco finale, nei quali peraltro abbiamo un sentimento (amore?) che ruota su un caso specifico e non su un codice etico. Se cerchiamo un “lato nobile” nel Joker, di fatto non lo troviamo neppure nel Cavaliere Bianco di Sean Murphy, sebbene vi sia adombrato.

Un’ulteriore questione sulla quale possiamo ragionare per comparazione riguarda il ruolo degli antagonisti nella definizione dell’identità degli eroi. Ragionare su questo punto ci porterebbe inevitabilmente a dover considerare la diversa natura dei due immaginari di riferimento (finito quello dell’epica classica, in continuo accrescimento quello supereroico) e, decisamente, questo sguardo merita un approfondimento specifico.

Continua nella puntata conclusiva…

Dei, eroi e supereroi: identità, epica ed etica (parte 1 di 5)

Dei, eroi e supereroi: identità, epica ed etica (parte 2 di 5)

Dei, eroi e supereroi: identità, epica ed etica (parte 3 di 5)

Dei, eroi e supereroi, identità, epica ed etica (parte 4 di 5)

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