Identità e autodeterminazione
Nel precedente articolo abbiamo utilizzato The Killing Joke di Alan Moore e Brian Bolland per iniziare con un caso concreto ed eclatante il nostro viaggio su come la narrativa epica e quella supereroica si confrontino con le relazioni fra identità, responsabilità ed etica. Ora ampliamo la prospettiva all'epica classica e agli eroi di Omero e Virgilio.
Il confronto attivo con il campo di forze entro il quale costruire il proprio percorso esistenziale è questione fondante dell'identità personale: a suggerircelo è anche la sua centralità nelle narrazioni epiche elaborate fin dall'antichità più remota, che hanno attraversato i secoli accompagnate da analisi, interpretazioni, riletture e dibattiti. Fin dagli albori, l'esplorazione del confine fra “vivere” e “lasciarsi vivere” genera storie che diventano immaginario condiviso e memoria. Vicende che muovono i loro protagonisti fra autodeterminazione e accettazione di essere strumento per fini altrui, fra autonomia ed eteronomia. E, attenzione: la questione non è riducibile alla scelta fra due mondi etici divisi da una linea. Poiché l'individuo è comunque parte di una comunità, largamente definito come persona dalla sua rete di relazioni con essa, i casi di perfetta autonomia e perfetta eteronomia sono limiti disarmonici: l'autoreferenzialità e l'auto-annullamento.
Batman segue il proprio codice, la sua autonomia in senso greco: è autonomo, cioè si dà la legge (il nòmos). Un'autonomia che viene sottoposta a tensioni anche violentissime: quando muore un suo alleato, rischia di infrangere la legge e di diventare eteronomo, preda del desiderio di vendetta (meccanismo che si innesca nuovamente nella gestione di Tom King, dopo che KGBeast ha sparato a Dick Grayson su ordine di Bane in Batman #55-#56).
Quel furore che nasce dalla morte di un amico e porta alla tentazione di infrangere la norma ha, fra i suoi modelli archetipici, l'ira di Achille per la morte di Patroclo. Per i nostri ragionamenti, è fondamentale ricordare che Patroclo viene ucciso in combattimento grazie all'intervento di Apollo che, invisibile sul campo, lo colpisce alle spalle e gli fa cadere elmo e corazza, esponendolo, col consenso di Zeus, alla lancia di Euforbo prima, e quindi alla spada di Ettore, che lo finisce quando ormai è indifeso.
Siamo nell'ultimo anno della decennale Guerra di Troia, una carneficina senza limiti scaturita dalle diatribe degli dei dell'Olimpo, che giocano con la vita degli uomini, siano essi comuni o eroi, finanche semidei, trattati quindi alla stregua dei phauloteroi, le persone di poco conto, personaggi delle commedie teatrali. È la guerra che chiude l'epoca nella quale dei e uomini si mescolavano e cancella gli ultimi eroi greci di discendenza divina: torneranno in scena, ma come oggetto e veicolo di riflessione nelle narrazioni problematizzanti delle tragedie e delle commedie teatrali. Siamo quindi, decisamente, nell'ambito della letteratura al secondo livello, per dirla con Genette.
La vendetta di Achille si compie con lo scempio del corpo di Ettore, attaccato al carro da guerra e trascinato intorno alla città. È un momento culminante di un lungo conflitto che sembra demolire qualsiasi senso di umanità. La pietà è manifestazione di una norma e l'abbrutimento nella piana di Ilio ci dice che gli uomini, gli stessi eroi, sono lasciati a se stessi ma, paradossalmente, questa solitudine non si risolve in autonomia, bensì nell'introiezione del Fato, che sostituisce quello che per noi moderni è la ricerca di senso.
L'eroe è consapevole del proprio destino e, dal suo punto di vista, il senso della vita è compierlo nella maniera più gloriosa. È l'ethos di una fase che, come detto, termina con il mattatoio di Ilio. Quando Odisseo incontra il Pelide nell'Ade, questi ribatte agli omaggi dell'eroe della nuova era affermando che preferirebbe essere contadino con padrone, ma vivo e immerso nell'amore e nelle cure familiari. L'eroe di mille battaglie invidia il navigatore, re di un'isoletta di pastori, e denuncia l'insensatezza della gloria epica, del Fato come prigione. Che cosa farebbe, Achille, se avesse una seconda occasione?
A differenza di Batman e degli altri supereroi seriali, il figlio di Teti non ha una seconda possibilità e resta protagonista e prigioniero di un racconto univoco, di un Omeroverso che ha e mantiene un livello di realtà speciale rispetto anche alle sue riscritture. La cristallizzazione del mito ferma un'ipotesi e l'insoddisfazione e il disagio che questa ci lascia, il suo essere Fato non modificabile sono contemporaneamente ciò che ha mantenuto il mito al centro dell'immaginario nei secoli, fonte di nuovi racconti, proprio perché sorgente inesaurita di domande.
Il rimpianto di Achille per il proprio Destino sembra denunciare un'eteronomia senza umanità, ma, più propriamente, deriva dal cambiamento repentino dell'ethos e del thesmos (la Norma divina, chiamata così ancora da Eschilo) di riferimento: un cambiamento così radicale da smarrire il senso delle azioni del passato. I supereroi hanno la possibilità di confrontarsi con le proprie scelte, di scegliere: hanno bisogno di consapevolezza. È questa la loro autonomia: non rifiuto del legame con la comunità (espresso da norma ed etica), ma ricerca di senso attraverso la consapevolezza del proprio essere specifico in un mondo specifico, complesso e in trasformazione.
La crisi unica e irripetibile, che taglia l'Omeroverso in due fra Iliade e Odissea, è evento ricorrente nella narrazione supereroica, manifestazione di discontinuità o trasformazione che ogni volta lascia macerie e questioni non risolte. Gli Eroi in Crisi – come mostra Tom King – non sono eroi stabilizzati, bensì in cerca di un senso e di se stessi, del proprio ruolo nella comunità, perfino spaventati e che rischiano di essere sopraffatti da quello stesso terrore delle proprie potenzialità che spezzò Jean Grey/Fenice. Ma, a differenza degli eroi classici, quelli contemporanei sembrano avere la “libertà definitiva” (così la definisce il Lucifer di Neil Gaiman) di andarsene, di mollare tutto. Achille non può farlo, addirittura sembra non essere nemmeno in grado di concepire un simile pensiero (sua madre sì: lo nascose in un gineceo, dove fu scoperto da Odisseo, eroe riluttante, che per primo aveva cercato di sottrarsi alla spedizione bellicosa, fingendosi pazzo).
Il confronto con il proprio destino è invece ben presente nella vicenda di Enea, icona di un altro tempo, l'età imperiale che asservisce l'eroe alla Ragion di Stato. Nel poema di Virgilio, scampato al massacro acheo, il figlio di Afrodite e Anchise approda a Creta: la speranza di aver trovato la “terra promessa” è frustrata dai Penati, che gli ricordano il volere degli dei: “Non desistere dal travaglio della fuga. Si deve cambiare sede. Il Delio non ha indicato queste rive, Apollo non ha ordinato di fermarsi a Creta” (En, III, 147 ss.).
Il suo Destino si compie altrove e il sopravvissuto di Ilio deve quindi demolire le speranze dei suoi compagni, per dare inizio a un futuro glorioso: il dominio “giusto” di Roma sulla Terra, sul quale veglierà lo stesso Giove, che nell'Eneide svolge la funzione di logos stoico che governa il mondo, della ragione che doma il furore. Enea segue le indicazioni (gli ordini?) trasmessi dai Penati: mosso da una volontà in perfetta armonia col Fato, è una sorta di agente di quella “provvidenza” che guida il progresso umano. È un interprete fedele del Fato, nel senso che si fa carico della missione affidatagli: l'unità armonica, la coincidenza di Fato e volontà umana si manifesta nella forma di scelte conformi alle indicazioni del primo.
In quel mondo, guidato e non semplicemente regolato dal Fato, le vicissitudini di Enea hanno tanto un fine quanto un termine: esaurito il suo compito, il condottiero può uscire di scena. Non così i supereroi. Una lettura di questa differenza può considerare il fatto che il Destino che guida Enea porta a quella che noi chiameremmo “fine della Storia”: l'Impero di Augusto è il compimento perfetto dell'Ordine Superiore e non esiste miglioramento possibile.
I mondi, le comunità in cui agiscono i supereroi, e Gotham in particolare, sono tutt'altro che perfetti e chiedono non semplicemente azione, ma un impegno quotidiano per evitarne la caduta nella bestialità della legge di natura. Un impegno che non è semplicemente azione – non si tratta di attuare misure di protezione, che, come vediamo nella cronaca, quando diventano un fine sono indicazione di degrado civile – ma partecipazione, nelle forme di passione, senso di giustizia, amore, di quella compartecipazione affettiva che non è solo positiva ma anche condivisione delle sofferenze – cioè quello che in latino si indica con “cum-passio” e in greco con “sympatheia”. Un simile eroismo quotidiano, continuo, quindi necessariamente ordinario, diventa modello etico e ingrediente vitale, senza il quale il Bene muore (almeno a Gotham).
Quanto pesa una simile responsabilità, pari solo a quella dei trentasei Giusti della tradizione ebraica? Quanto assorbe, questa missione, dell'individualità, del senso di identità, della percezione di sé? L'assorbimento completo dell'individuo da parte del ruolo comporta la perdita di umanità in cambio dell'efficienza? Ma che senso avrebbe quell'efficienza disumanizzata?
Il punto non è, come sostiene il Joker di King, se Batman possa essere felice, ma il rapporto fra Batman e Bruce Wayne, fra il ruolo (The Batman, quell'articolo determinativo rende chiaro l'aspetto funzionale) e l'individuo. Fra “maschera” e “persona” – ricordiamo che “persona” è la parola latina per “maschera”: già i filosofi stoici la utilizzavano per indicare gli esseri umani in quanto attori nel mondo; nel diritto, invece, li indicava come soggetti di diritto.
Quel continuo rinnovo del “voto” alla propria missione diventa gesto plateale quando il supereroe depone la sua uniforme: ma per interrogare quel gesto, è proficuo pensare non solo ai casi in cui semplicemente la riprende (Peter Parker/Spider-Man), ma anche a quelli nei quali l'individuo la cambia (Steve Rogers che diventa Nomad, Dick Grayson che diventa Nightwing). Considerando solo i casi del primo tipo, rischiamo di baloccarci con l'ipotesi di una semplice coazione a ripetere. I casi del secondo tipo ci suggeriscono una dialettica, fra individuo e ruolo, che genera percorsi esistenziali, tensioni e dissonanze. Ovvero, un'identità dinamica e non statica, che si muove e si trasforma, a sua volta trasformando e muovendo lo scenario nel quale si dispiega.
Questa dinamica rompe la circolarità e la reiterazione: l'eventuale stanchezza dell'eroe non è quindi consunzione da repliche infinite, ma disagio rispetto al cambiamento, che costringe a riconsiderare da una parte i valori e le pratiche della propria missione, dall'altra il rapporto fra questa e la propria esistenza. Questo il problema al fondo di Eroi in crisi, che contiamo di riprendere in una sede specifica, riflettendo sulle “metamorfosi” dei supereroi.
Continua…
Dei, eroi e supereroi: identità, epica ed etica (parte 1 di 5)