Con trentacinque anni di carriera alle spalle, Maurizio Rosenzweig è uno degli autori più eclettici e anche più anarchici del panorama a fumetti italiano. Capace di muoversi sulla china che separa il fumetto seriale più mainstream dalle opere più personali, l’autore milanese negli anni ha saputo dare vita a personaggi come Zigo Stella e Davide Golia e al contempo mettere la sua arte a servizio di serie come John Doe e Dampyr.
Con La sindrome di Leonardo, uscito a febbraio 2023 per Feltrinelli Comics, Rosenzweig dopo uno iato decennale è tornato a creare un nuovo personaggio, un nuovo alter ego per raccontare con spassionata sincerità e anche durezza il mondo del fumetto e la vita di un autore alle prese con una profonda crisi creativa.
Ben ritrovato su Lo Spazio Bianco, Maurizio.
Da che necessità interiore è nato La sindrome di Leonardo? Qual è stato lo stimolo e in quanto tempo sei arrivato al risultato finale che troviamo nel libro?
Erano dieci anni che non finivo un libro. E sì che ne ho iniziati almeno sette o otto che non sono mai arrivati all’ultima vignetta. Come se avessero perso l’abbrivio iniziale e le storie si fossero poi impantanate nei fondali bassi delle insicurezze e della disillusione. Però di storie in testa ne ho sempre avute. Si formavano di continuo e, nel frattempo, lavoravo per rassicuranti case editrici che stavano ostruendo la mia vena creativa. La possibilità di lavorare a un mio libro come autore è arrivata all’improvviso e in un momento di sconforto verso il mondo del fumetto. Tito Faraci mi scrive un messaggio e una slavina di luce mi arriva nel cervello. All’inizio ne ero molto spaventato, tanto che volevo nascondermi, ma alla fine la mia compagna e il coraggio imparato dal grande Rocky Balboa mi hanno sorretto e convinto a provare. Un anno, da mezzanotte alle tre di mattina. Ho lavorato a La sindrome di Leonardo per un anno, con quegli orari perché dovevo anche stare dietro ad altri committenti. Alle 7:00 della mattina si ricominciava, perché con un bambino piccolo hai smesso di riposare per sempre. Era una battaglia che mi spaventava molto, quella di tornare a fare un fumetto d’autore dopo tanti anni di torpore da fumetto mainstream. Il mondo nelle fumetterie è cambiato molto; il modo di raccontare è tanto cambiato ed ero certo di essere un dinosauro con una matita in mano in un’epoca in cui anche solo l’errore nel disegno aveva perso la sua dimensione più ansiogena grazie a mirabolanti progressi della tecnologia. Ero certo che i lettori mi avessero dimenticato e che sarei stato una manciata di polvere sugli scaffali. Ma ormai ero tornato sul ring e dovevo almeno provare a fare qualche round in piedi. C’è tanto Maurizio dentro le pagine del libro, nel senso che la sua matrice autobiografica è evidente. Altrettanto lo è la tua capacità di renderti invisibile e di fondere il particolare con l’universale in un’opera che è al contempo un atto d’amore verso il medium fumetto ma anche uno spietato sguardo su tanti risvolti del mestiere del fumettista. Penso ci sia voluto del coraggio per mettere “nero su bianco” quello troviamo in quest’opera.
Ho cercato di essere presente e al contempo, per essere me stesso, ho messo una maschera. Davide Golia aveva le mie fattezze, ma qui volevo un attore di fumetto che mi aiutasse a raccontare quello che sapevo io di questo mestiere e raccontare anche ciò che avevo raccolto nel tempo dai colleghi e dagli amici che avevano sensazioni e opinioni rivelatorie di questo mondo. Feltrinelli mi aveva chiesto qualcosa di autobiografico e Davide Golia era ormai parte di una vita passata che aveva trovato un suo posto e là doveva rimanere. Ho cercato una figura che mi piacesse: Gerard Depardieu aveva quello che mi serviva. Da giovane, era un romantico mischio fra dolcezza e forza. E poi mi piaceva il Bonvi di Incubi di Provincia del 1981, quello che disegnava vicino alla finestra che affacciava sui tetti a china e il cielo della notte fatto con i retini tipografici. Leonardo è muscoloso perché per fare i fumetti ci vuole la schiena forte e le braccia allenate. Il resto è quello che io penso serva per fare libri: coinvolgimento. Non dico onestà, che quando scrivi di te stesso ci vai molto vicino, ma qualcosa la devi pur nascondere, perché anche la verità più vera deve tenere qualcosa per sé, altrimenti non è credibile. Poi io non ho mai avuto timore di raccontare i fatti miei. Forse per egocentrismo o perché per me i libri di Davide Golia, nei quali ho raccontato le mie storie sentimentali, erano anche sedute di autoanalisi. Racconto sempre cose che voglio capire. Con Leonardo mi sentivo di dover al me stesso che non aveva storie una chance di trovarne una. Mi serviva una faccia che non fosse la mia. E anche recuperare amore per un certo tipo di fumetto che avevo messa da parte per timore. Spero che tutto ciò si veda nel libro, si veda cioè che io e il fumetto siamo tornati amici.
“È che io, poi, di stare al tavolo 20 ore al giorno, non è che ho tanta voglia…“. Leonardo si sente rispondere così da un suo studente di fumetto: nella tua carriera di docente, quante volte ti sei imbattuto in un commento del genere? E che cosa si risponde?
Parecchie. A me sembra impossibile si possa pensare una cosa simile, ma è anche vero che quello che vale per te non deve valere pure per gli altri. Se un ragazzino non se la sente, forse ha buone motivazioni, l’importante è che non siano la pigrizia o la paura. Se sentivo che era una delle due allora cercavo di farli riflettere. Ma se vedevo che era indole, forse la fatica di questo mestiere non era adatta a lui. Per fare i fumetti devi dedicargli tempo. Tanto. Non è una cosa che puoi evitare. È un lavoro artigianale che richiede pazienza e costanza, a meno che tu non faccia fumetti con gli omini a bastoncino e allora il discorso cambia. Chiaramente non c’è un meglio o un peggio, se sono scelte consapevoli. Certo è che più cose sai fare, più cose farai. Poi ci sono fumetti fatti a bastoncini che sono divertenti. Ecco, magari non sono buoni per imparare il mestiere in senso ampio, ma anche loro avranno qualcosa da insegnare. L’importante è raccontare. Se vuoi imparare a fare i fumetti, ne devi leggere tanti. Non solo quelli belli o quelli che ti piacciono e che ti fanno sentire al riparo. Tutti. Se non sei curioso, la testa si riempie di sassi che un giorno diventeranno una lapide. È anche vero che quando sei tanto giovane non è semplice districarsi fra i labirinti che l’emotività ti edifica nel cervello. Un insegnante non deve indottrinate ma incuriosire. Non è sempre facile avere l’empatia necessaria per decifrare l’atteggiamento di un ragazzo e discernere la confusione dalla paura, o trovare il talento in mezzo al disordine. Se uno è bravo lo vedi, ma poi l’attitudine è un’altra faccenda. Ho visto ragazzi bravissimi a disegnare che non sapevano andare da nessuna parte. Era un peccato. Il talento non basta.
Dalle tavole del fumetto traspare un’immediatezza, quasi un’urgenza di trasporre su carta questa storia, che si traduce in pagine rifinite a china che si accompagnano ad altre che sembrano veloci layout a matita oppure ancora ad altre cesellate a matita, nel tuo stile più tipico. Anche il lettering e la stessa composizione varia delle tavole sottolineano questa urgenza, oserei dire. Però alla fine tutto si tiene, tutto funziona: cosa ti ha spinto a optare per un segno così eclettico, vario e immediato? Lo richiedeva la storia o i sentimenti che tu provavi verso la stessa?
Io credo sia per entrambe. Per me è una storia molto emotiva, in senso etimologico. Emozione vuol dire movimento, movimento di energie. Lavorando al libro sentivo che la necessità vitale per Leonardo di trovare sé stesso all’interno del bisogno di avere una Storia, era un movimento di energie spaventose, liberatorie ma anche spossanti. I vari stili non sono stati una scelta consapevole, ma una esigenza congenita alla forma del racconto. Non li ho calcolati, ma li ho lasciati sudare fuori dalle pagine, dalle notti di lavoro. Me ne sono accorto dopo. Lasciare delle pagine a matita era come sospendere il giudizio finale su quelle stesse pagine non solo per Leonardo ma anche per il lettore. Come quando parli con qualcuno e non finisci una frase, non concludi una riflessione perché sei su di una diagonale che non arriva a nessun vertice e il pensiero rimane appeso. Una cosa simile. La vera ragnatela della storia, che ha tenuto tutto assieme, l’ha tessuta la mia compagna, in realtà. Perché io, essendo uno scrittore emotivo, mi faccio distrarre dagli stessi stati d’animo che invento per i miei personaggi. È vero che c’è anche l’urgenza, perché ero così spaventato che volevo uscire al più presto dal bisogno di concludere il libro e di saperlo esistente, pesante. Un oggetto manifesto, tangibile. La sindrome di Leonardo è un lavoro punk e anarchico per la sua esuberanza e immediatezza. Al contempo Rosenzweig disegnatore è anche apprezzato per i suoi lavori seriali, quelli bonelliani, vincolati a un canone grafico più normato: come convivono in te queste due anime?
Fanno a botte. La mia calotta cranica è un ring. Ho imparato tanto lavorando per i fumetti seriali e credo ne abbiano guadagnato anche i miei libri. Ma non il contrario. Per lavorare a serie così connotate devi essere capace di accettare degli stilemi che a volte non ti appartengono. Un po’ lo fai per soldi e un po’ perché ti piacciono anche quei fumetti e vorresti disegnarli tutti, tutti quelli che leggi. Io farei subito Martin Mystère o Zagor. Ma farei anche Devilman e Superman, il più grande personaggio mai creato. Mentre lavoro a un fumetto commissionato devo fare anche cose mie. L’Orso Atomico è nato così. Facevo delle pause di un quarto d’ora al giorno, con tanto di timer, e disegnavo un po’ di quelle pagine. Una vignetta, un personaggio che poi avrei finito alla pausa dopo, il muso dell’orso e la mattina dopo il corpo, i capelli della wikka che arrivano al soffitto e il giorno dopo la sedia su cui riposa. Questo mi salvava dalla follia. Naturalmente questa cosa vale solo per me: conosco bravissimi colleghi che sono serenissimi e la loro creatività è assolutamente sotto controllo. Molti non hanno nemmeno il desiderio di creare cose loro. Altri sono come me e il cervello gli prude sempre e appena possono fanno cose diverse. Potrei fare cento nomi, ma sicuramente a chi sta leggendo ne vengono in mente altri. Non credo ci sia un solo modo di fare il fumettista. È il bello di questo mestiere, che lo rende mobile e curioso. Disegnare è sempre una faccenda personale. Ci sono tante persone interessanti e, se si rimane in ascolto, si trovano.
Ritroveremo Leonardo (o qualche altro tuo personaggio passato) in storie future? E, al tal proposito se possiamo chiedere, su che cosa stai lavorando al momento?
Leonardo vive in quel libro. Nonostante abbia una cosmogonia di personaggi ricorrenti, Leonardo è nato per quel libro e la cosa che vorrei imparare da questa esperienza è di riuscire a staccarmi da un personaggio e trovarne un altro, altre situazioni, altre vignette. È dolorosissimo, ma ci voglio riuscire.
Il prossimo libro per Feltrinelli sarà sul cinema horror e avrà un altro protagonista, sarà un’altra Milano e una dimensione diversa. Più cupa, anche se non mancherà la solita ironia che cerco sempre in quello che mi capita e che poi scrivo.
Poi sto lavorando anche per SBE a una storia che ho scritto e che mi sta piacendo molto; ne parlerò più avanti perché ho voglia di lavorarci sereno e lontano dai fari accecanti e psicotici dei social media dove se non urli che fai una cosa sembra che non la stai facendo davvero. Intanto continuo a collaborare con Image Comics con due miniserie che devo iniziare e ho un paio di lavori per la Francia che devono essere solo definiti. E un libro mio che vorrei autoprodurmi. Piano piano farò tutto. Devo sempre trovare il modo di lasciare dei vuoti in quello che faccio perché questo mi fa sentire l’esigenza di riempirli con storie e riflessioni che ancora non so. Credo sia un buon trucco per non giungere mai a credere di essere arrivato a un punto fermo della mia ricerca, dove ti dici che quello che fai funziona per lavorare e non serve altro. A volte è stancante, a volte fa sentire instabile ma è anche vivificante. Fortunatamente di indole sono curioso. Vediamo che succede.
Per citare ancora il grande e inarrivabile Rocky Balboa…è finita solo quando è finita.
Grazie, Maurizio, e alla prossima!
Intervista realizzata via mail nel mese di maggio 2023
Maurizio Rosenzweig
Maurizio Rosenzweig fa il disegnatore da quando ha 18 anni, ma la prima pubblicazione risale a quando ne aveva 14, per la Labor Comix. Dopo avere lavorato nella pubblicità come copy e visualizer, si dedica in esclusiva al mondo dei fumetti e delle illustrazioni. Tra le tante collaborazioni, quella con la Phoenix di Daniele Brolli, Mondadori, Star Comics, Mucchio Selvaggio (non quelli del film), Alta Fedeltà, Grifo Edizioni, DeAgostini, Rizzoli, Eura, Sony Edizioni. Dal 2000 porta vanti la saga personale di Davide Golia per Edizioni BD, e nel 2010 esce il primo volume delle avventure di Zigo Stella che, come lo ha definito Giorgio Cavazzano, “è il miglior fumetto degli ultimi 30 anni”. Lavora per la SBE principalmente su Dampyr, ma non solo, ed è stato collaboratore e co-autore per Dark Horse con Clown Fatale e Resurrectionists. Per 15 anni è stato docente alla Scuola Del Fumetto di Milano. Attualmente sta lavorando per Image Comics e per Feltrinelli Comics; per quest’ultima è uscito La sindrome di Leonardo (2023) ed è attualmente al lavoro su un nuovo libro. Scrive autobiografie in terza persona, e non è una cosa simpatica.