Un tempo si diceva: tutto è politica, nel senso che ogni settore dell’agire sociale ha motivazioni e conseguenze di carattere politico, poiché va anche in minima parte a incidere sul pensiero collettivo e sull’opinione pubblica, se riesce ad avere una audience necessaria e sufficiente. Dunque, allora anche il fumetto è politica, tanto più in quanto mezzo di comunicazione di massa che, fin dai tempi della versione impegnata di Linus, per restare nel nostro Paese, è in grado di raggiungere un numero elevato di contatti.
E dunque, ci sarebbe in questo senso da indagare praticamente su tutta la produzione fumettistica italiana ed estera, volendo ricavarne un panorama complessivo che abbia un senso compiuto e che renda l’idea di quanto veramente il fumetto sia stato nel flusso degli altri media nel contribuire alla formazione politica dell’opinione pubblica, e con quale specifico contributo.
In realtà, l’oggetto di questo articolo invece è quanto il fumetto sia stato utilizzato, in tempi recenti, come veicolo di propaganda politica, intendendo quindi la politica non in senso lato e globale, ma in senso stretto di azione politica organizzata, a fini pubblicitari ed elettorali. Il che restringe mica poco il campo d’indagine!
Infatti, è come se il fumetto, considerato sostanzialmente un mezzo di comunicazione “minore” – anche in questo caso, si dovrebbe dire – e “poco serio”, venisse considerato adatto sì per protestare e fare satira, ma non per propagandare in modo positivo e propositivo le notizie sull’agone politico. Inoltre, essendo considerati la protesta e la satira come aspetti connotati politicamente in modo molto deciso a sinistra, ecco che il fumetto in politica è pregiudizialmente etichettato come veicolo di trasmissione di propaganda solo di una certa parte. Quindi, reinterpretando il celebre motto di McLuhan1, il mezzo caratterizza il messaggio, lo definisce fin dal suo apparire, quasi non c’è bisogno di leggerlo… e questo indipendentemente da quale parte politica voglia interpretarlo!
Un momento, un momento… ma siamo sicuri che sia così ovunque? No, infatti, quanto ho provato a descrivere qua sopra è una caratteristica propria dell’Italia, quasi a voler provare, anche in questo caso, quanto il fumetto venga poco considerato nel nostro Paese.
Basta infatti fare una breve escursione all’estero per trovare esempi evidenti di come sia diversa la considerazione che ne hanno, ad esempio, in Francia e negli Stati Uniti, giusto per indicare due Paesi dove si sono tenute recentemente consultazioni elettorali presidenziali che sono state sotto la lente di ingrandimento dei media di tutto il mondo e logicamente anche di quelli del posto.
Nella campagna per le elezioni presidenziali francesi del 2007, sono stati diversi i fumetti aventi come oggetto i due principali candidati che poi sono andati al ballottaggio, il conservatore Nicolas Sarkozy e la socialista Ségolène Royal, nessuno dei quali indulgente o cortese nei confronti dei difetti dei due contendenti, nella migliore tradizione francese di critica dei potenti.
Due di questi, dichiaratamente satirici, sapientemente disegnati da Alteau e sceneggiati da Jim & Gaston per le Edizioni Jungle, presentavano la disfida per il posto di comandante in capo dell’Eliseo sotto le spoglie delle innocenti scaramucce in una classe di scuola elementare di campagna fra gli scolaretti intenti a contendersi il posto di capoclasse e quindi di gestore del registro di classe (il famigerato cahier de classe). Il primo di questi, Le p’tit Chirac (pesante già dal sottotitolo: Tout p’tites déjà cancres?), vede il capoclasse in carica ma uscente, l’ex Presidente della Repubblica Francese, Jacques Chirac, cercare di stimolare la competizione fra i compagni di classe per la successione mettendoli uno contro l’altro… Inutile dire che quello che appare più infantile, petulante, antipatico, fastidioso e al tempo stesso inconcludente è il piccolo Nico detto p’tit Sarko, protagonista del secondo volume a fumetti, con la medesima ambientazione, intitolato appunto Le p’tit Sarko (sottotitolo: et la p’tite Ségo qui faut rien qu’à l’embêter!).
Gli autori, naturalmente, come si capisce fin dai titoli, non fanno nulla per nascondere il loro intento satirico e molto critico nei confronti dei big della politica francese, con esilaranti scenette che mettono in ridicolo gli aspetti peraltro più noti dei vari esponenti, da Jospin a Hollande fino a Jack Lang e Le Pen, esagerandone i tratti tuttavia perfettamente riconoscibili. Non si ha peraltro notizia di particolari reazioni degli interessati in merito, a dimostrazione di quanto sia più matura, in quel Paese non lontano, la competizione, eppure è ben noto quanto l’attuale inquilino dell’Eliseo sia scontroso e permaloso nei confronti delle critiche alla sua persona…
Se questo però poteva essere considerato un giochetto divertente e nulla più, al quale al limite reagire facendo spallucce, ben diverso è il contenuto di altri due fumetti dedicati ai due contendenti principali, usciti sempre nel periodo pre-elettorale.
In La face karchèe de Sarkozy (sottotitolo: La première bd-enquete), autori Philippe Cohen, Richard Malka e Riss, editi da Vents d’Ouest/Fayard, la storia narra di uno studente universitario che presenta davanti alla Commissione d’esame la sua tesi di dottorato alla Sorbona, avente come oggetto il Sarkozismo, ovvero la carriera politica di Nicolas Sarkozy, da semplice militante di base nelle file golliste a Sindaco del suo paese natale Neully e poi via via fino alla carica di Ministro nei governi Raffarin e De Villepin, ogni volta togliendo di mezzo senza tanti scrupoli gli avversari di turno, soprattutto quelli all’interno delle fila del proprio partito, l’UMP (Pasqua, Balladur, ecc.). Il successo di questo libro del 2006 e del suo protagonista è stato tale che ne sono usciti altri tre volumi, intitolati Sarko 1er (2007), Rien à branler (2008, in allegato a Charlie Hebdo) e Carla & Carlito – ou la vie de château (2008).
Invece, in Ségo, François, papa et moi (edito da Hachette Littératures), Olivier Faure, ex-direttore aggiunto del gabinetto dell’allora segretario socialista François Hollande, parla degli aspetti, almeno apparentemente, più privati della vita familiare di Ségolène Royal (moglie di Hollande), scavando in modo non propriamente benevolo nel rapporto fra i componenti della “famiglia socialista” di Francia.
Notevole, senza dubbio! Se avrete la pazienza e la voglia di andarvi a cercare e leggere questi veri e propri graphic novel a sfondo politico, capirete quale abisso distanzi la vicina Francia dall’Italia. Per non parlare degli USA, dove invece la dimensione del fumetto si esplica in modo sostanzialmente istituzionale, attraverso pubblicazioni biografiche e programmatiche che paiono animate dallo spirito della par condicio anche se pubblicate su iniziativa di editori privati.
IDW Publishing uscì nell’ottobre 2008, cioè a circa un mese dal voto che ha poi sancito la clamorosa affermazione di Barack Obama sul rivale repubblicano John McCain, con due smilzi fascicoli in classico formato comic book americano da edicola, sotto le insegne della neonata collana Presidential Material, dedicati alla biografia e agli elementi salienti del programma dei due candidati alla Casa Bianca. Che si trattasse di una forma di diffusione del tutto seria e formale si intuisce anche dal retro dei due albi, 32 pagine ciascuno, che riporta la campagna di Rock the Vote, un’organizzazione statunitense che si occupa di spingere le nuove generazioni ad esercitare il proprio diritto/dovere democratico del voto, promuovendo l’iscrizione alle liste elettorali attraverso il volto di un testimonial d’eccezione come Christina Aguilera, fresca madre che stringe fra le braccia il figlioletto Max avvolto nella bandiera americana che dichiara “The future is in our hands”.
Gli albi, affidati a fior di professionisti (Jeff Mariotte ai testi, ripresi da materiali a stampa ufficiali, Tom Morgan ai disegni, per Obama, Andy Helfer ai testi per i disegni di Stephen Thompson per McCain, con le cover di J. Scott Campbell) sono curati nei minimi particolari e non v’è traccia in essi di bamboleggiamento nei confronti del lettore, sono stati regolarmente messi in vendita (men che mai regalati in giro) e regolarmente acquistati da un gran numero di lettori.
I due albi sono poi stati editi anche in versione flip book, un unico albo con due copertine dai due versi riportanti le due biografie dei candidati, ciascuna ad occupare esattamente metà dell’albo. E’ stato divertente vedere (il grafico era a suo tempo disponibile in diretta sul sito www.presidentialcomics.com) che la vendita dei due albi ha anticipato quello che poi sarebbe stato l’esito del voto: Obama ha venduto nettamente più copie di McCain.
A voler essere onesti, che il mondo del fumetto fosse schierato per il candidato democratico risultava abbastanza chiaro da due comparsate straordinarie di Obama sulle copertine di due supereroi di culto, come Spider-Man e Savage Dragon, colti nell’atto di offrirgli senza riserve il proprio sostegno.
E che la formula biografia a fumetti in politica funzioni anche dal punto di vista economico lo dimostra una ulteriore iniziativa, come quella della Bluewater Productions, in versione Bluewater Comics, che ha varato ancora in campagna elettorale una collana intitolata Female Force, che conta attualmente già sei titoli in catalogo, e tre in rampa di lancio, dedicati alle donne di potere negli Stati Uniti: Hillary Clinton, Sarah Palin (entrambe alla terza ristampa), Michelle Obama, Caroline Kennedy, Condoleezza Rice, la Principessa Diana (?), e poi Barbara Walters, Oprah Winfrey e Stephenie Meyer. Non poteva mancare allora una collana maschile a fare da contrappeso, ed ecco Political Power, con le biografie di Colin Powell, Joe Biden, Ronald Reagan e Ted Kennedy. La popolarità di Obama ha poi prodotto anche una miniserie in quattro puntate, dal titolo Barack the Barbarian, dove il neopresidente veste i panni succinti di Conan per combattere il Signore del Regno dell’Elefante, il malvagio Boosh (sic!).
Il che dimostra quanto veramente sia considerato il fumetto in quei Paesi, come mezzo di diffusione e ancor più come forma di linguaggio in grado di raggiungere strati differenti di popolazione e generazioni giovani, che magari meno sono avvezze al linguaggio politico tout court o ne sono addirittura respinte.
Certo, non è solo l’Italia a scontare un simile limite culturale; ma certamente salta agli occhi quanto sia arretrata in questo caso la comunicazione politica rispetto al livello qualitativo espresso dagli artisti delle nuvolette nel nostro Paese.
Qualche timido esempio di uso del fumetto qua e là lo si comincia anche a vedere: molto simpatici i due pezzi di propaganda personale utilizzati dal Senatore dei DS e poi del PD in quel di Modena, Giuliano Barbolini, che ha affidato a Massimo Bonfatti (il disegnatore di Cattivik e Leopulp) la stesura di due allegre storie, contenute in due libretti a colori, di ordinaria campagna elettorale e poi di ordinaria vita parlamentare per due consecutive elezioni politiche, nel 2006 e nel 2008 (Barbolino Senatore, filastrocca satirica a fumetti), uno di 32 pagine e uno di ben 160 pagine a colori (questo è la raccolta delle strisce del Bonfa pubblicate settimanalmente sul blog di Barbolini) di divertente dissacrazione, ironica e autoironica, della vita politica parlamentare in Italia. Anche efficaci, come mezzo di propaganda, se è vero che Barbolini è stato eletto entrambe le volte.
Per il resto, tolte quindi le dovute eccezioni, che dire: il fumetto come mezzo di propaganda politica intelligente in Italia non sfonda. A proporlo si raccolgono sorrisetti imbarazzati e arricciamenti di naso, come a obiettare: i fumetti? ma non dirai mica sul serio? Men che meno poi a utilizzarlo come mezzo di disvelamento politico serio sotto le spoglie dell’ironia: è troppo corrente da noi il timore di farsi nemici i potenti, lo vediamo fin troppo bene in tanto giornalismo che va per la maggiore. Al di là delle vignette di disegnatori satirici in forza ai quotidiani e ai settimanali di diversa e opposta matrice, la cui vis polemica viene depotenziata a monte e dunque resa inoffensiva in quanto già bollata in partenza con marchio d’infamia dall’una e dall’altra parte, e al di là della meritoria ma minoritaria opera di tanto fumetto antagonista, ricordo solo un esempio di coraggiosa propaganda politica “contro” non occasionale, non grossolana e non gratuitamente lesiva dell’onore dei personaggi.
Mi riferisco alla divertente biografia – naturalmente romanzata ma non inventata – di Silvio Berlusconi dal titolo BerluStory – Biografia a fumetti del Cavaliere ad opera di Marcello (al secolo Marcello Toninelli) edita prima in tre parti e poi in volume da Cartoon Club come Edizioni Foxtrot nel 2007. Certo, non tutti potranno essere d’accordo su questo giudizio, ma mi permetto di affermare che avrei trovato personalmente esilarante tale biografia a fumetti anche se fosse stata dedicata, putacaso, a Veltroni, Di Pietro o D’Alema (che pure a loro volta compaiono fra le vignette del libro), se condotta col medesimo metodo e col medesimo coraggio.
Ho volutamente trascurato, lo dicevo in apertura, sia il cosiddetto fumetto di realtà, sul quale si è specializzato il Festival ravennate Komikazen, organizzato da qualche anno a questa parte dall’Associazione Mirada, sia il cosiddetto fumetto antagonista focalizzatosi da qualche anno nei dintorni di Radio Sherwood a Padova e nel relativo Sherwood Comix Festival, l’uno e l’altro a trovare spazio diverse volte nelle pagine delle Edizioni Becco Giallo. Ma questa è un’altra storia, che in buona parte trovate nel libro di Federico Vergari, autore, per la collana Lapilli delle Edizioni Tunué, del libro Politicomics e animatore del relativo blog omonimo (blog.komix.it/politicomics).
E allora proviamo a entrare nel merito di alcuni aspetti interessanti fra quelli da lui affrontati nel suo libro, in relazione a quanto finora descritto.
Intervista a Federico Vergari
D. Fumetti e politica: in Italia il rapporto è limitato, o meglio viene usato sostanzialmente da chi si trova sul fronte antagonista rispetto alla politica, quindi come mezzo anti istituzionale, mentre altrove, a partire dagli Stati Uniti, è utilizzato come strumento efficace di comunicazione anche istituzionale. Condividi questa osservazione? e perché questo accade, a tuo parere?
R. Condivido la tua osservazione. Il fumetto con una connotazione politica è utilizzato in Italia quasi esclusivamente come strumento di lotta, come linguaggio antagonista del sistema. Gli splendidi albi socialmente e politicamente impegnati che derivano dalle attività dello Sherwood Comix Festival e che sono pubblicati da qualche anno anche da importanti case editrici (ultima la Becco Giallo) sono comunque il frutto di un festival fortemente definito politicamente e ben schierato contro determinate logiche e meccanismi che regolano la società. E questo, anche se all’estremo opposto di chi non considera il fumetto un linguaggio degno, è comunque un forte limite e un modo per etichettare e ghettizzare un linguaggio. Perché succede? Negli States, prendo loro come esempio perché li citi tu nella domanda, il fumetto nasce come strumento di contestazione dentro l’università di Berkeley a cavallo tra i ’60 e i ’70 e neanche dieci anni più tardi un fumettista vince un premio Pulitzer. Stiamo parlando di un paese che avrà pure migliaia di difetti, ma un’opportunità – se meritata – la dà davvero a tutti, anche a un linguaggio apparentemente semplice e per bambini come il fumetto. L’Italia invece prima di sperimentare e di lanciarsi si fa mille domande e cerca conferme nell’uomo della strada, un tempo noto come casalinga di Voghera, e per lui il fumetto è Topolino. Stop.
D. Il fumetto viene ormai usato largamente come veicolo pubblicitario, nel profit come nel no profit… ritieni che il tipo di segno comunicativo sia indicativo del carattere della comunicazione? ossia: puoi capire ad un primo sguardo se ci troviamo di fronte ad un prodotto no global, alternativo, di opposizione oppure ad una comunicazione neutrale o “commerciale”?
R. Quando si parla di segni comunicativi credo sia poco produttivo affidarsi ad un semplice primo sguardo per trarre delle conclusioni o per catalogare un prodotto di comunicazione. La risposta però è sì, esistono dei tratti che sicuramente riescono a contraddistinguere il prodotto che abbiamo davanti. Un prodotto no global, alternativo, di opposizione di solito è in bianco nero, solitamente i personaggi seguono una moda pop estremizzandola ( questo, almeno dal mio personalissimo osservatorio, è ad esempio il periodo degli esseri umani in versione pupazzo dei Lego) e poi un’altra cosa che mi colpisce molto sono i volti, molto espressivi ma raramente sorridenti. I fumetti Self Comics prodotti da Genovese e Vanzella, per fare qualche nome, sono geniali e ad oggi rappresentano (rappresenterebbero, la lingua italiana non gli dà una mano) mondialmente, con il loro progetto, il fumetto alternativo. Di contro un prodotto a fumetti neutrale o commerciale si avvicina ad un paradosso, ovvero un fumetto del fumetto. Sembra quasi che chi ha ideato la campagna commerciale voglia farti notare che quello che stai leggendo è un fumetto perché dietro c’è stato un brainstorming di 14 ore. Guai quindi a pensare che si sia scelto il fumetto perché è un normale mezzo di comunicazione, ma invece “facciamo un fumetto perché non se lo aspettano e quindi li stupiamo”. Quindi via a colori sgargianti, tratti molto simili al manga, occhi sbarrati e sorrisi beoti.
D. Credi che, sulla scia di quanto avvenuto negli USA e in Francia nelle recenti consultazioni presidenziali, anche in Italia qualche partito o anche solo qualche singolo candidato potrebbe ricorrere prossimamente alla propaganda a fumetti? e il Governo?
R. Il precedente Governo Berlusconi, nella fattispecie il Ministero della Salute guidato da Sirchia, utilizzò lo strumento fumetto per diffondere informazioni sui medicinali in almeno un paio di occasioni, ma non fu mai dato grande risalto a queste iniziative.
Ricordo poi un’alleanza tra Altan e Prodi nel 2006 quando con La Repubblica uscì un album di vignette in favore di quello che poi divenne il Presidente del Consiglio.Sono state due esperienze deboli, ma almeno qualcosa si è mosso.
Facendo poi un discorso teorico sul fumetto inteso come comunicazione la risposta non può che essere positiva. Se si utilizzano Facebook, You tube e il guerrilla marketing per fare una campagna elettorale, allora perché non può farlo un fumetto?
Quando però dalla teoria si passa alla pratica allora iniziano i guai e il fumetto viene puntualmente retrocesso a strumento di comunicazione di serie B.
Originariamente pubblicato su Fumetto 71 del secondo trimestre del 2009
Herbert Marshall McLuhan (1911 – 1980) è stato un sociologo canadese. it.wikipedia.org/wiki/McLuhan ↩
Claudio Calia
28 Settembre 2010 a 15:39
«E questo, anche se all’estremo opposto di chi non considera il fumetto un linguaggio degno, è comunque un forte limite e un modo per etichettare e ghettizzare un linguaggio.»
Ne parlammo al tempo che lessi l’articolo su Fumetto, questa frase a me sembra un po’ infelice perché dà quasi la responsabilità al progetto Sherwood Comix di etichettare (o fare etichettare) il fumetto come un linguaggio antagonista in sé, ghettizzandolo. Cosa ovviamente non vera (anche se sì, credo che il fumetto sia un mezzo magnifico per esprimere messaggi resistenti).
Mi sembra una responsabilità esagerata: di sicuro non abbiamo mai vietato a nessuno di fare fumetti a sostegno delle proprie tesi, e soprattutto alla fine, Radio Sherwood ha promosso sé stessa e il fumetto indipendente italiano con le sue antologie. Sarà mica colpa sua se altre realtà con molti più mezzi a disposizione (penso a movimenti, partiti etc…) non hanno avuto, o non hanno voluto avere, la stessa intuizione?
Poi il fatto che un Festival, certo – fieramente – connotato, cerchi di parlare ai suoi utenti (100.000 in un mese di concerti e iniziative culturali) attraverso il fumetto e attraverso temi che loro riconoscono come interessanti e importanti… a me sembra l’opposto del termine ghettizzazione, che forse il fumetto a volte si va un po’ a cercare, ghettizzandosi da solo…
Ecco, tutto qua, penso che il termine ghetto per chi ha senz’altro diffuso il linguaggio fumetto a persone che magari mai l’avrebbero incrociato in vita loro non sia adeguato. Anche perché tanti di questi i fumetti poi hanno iniziato ad acquistarli.
Baci!
c.
Paolo Gallinari
28 Settembre 2010 a 17:27
Beh, anzitutto, l’obiezione andrebbe fatta a Vergari, che ha espresso questa opinione nell’intervista all’interno del mio articolo… Nella sostanza di quello che dice, sono d’accordo con Claudio; ma in realtà la mia domanda era in realtà più insidiosa e puntava altrove: non è che un certo tipo di segno o di stile si configura già da sè come “alternativo”, “impegnato”, o quanti altri aggettivi virgolettati vogliamo mettere, in questo caso davvero ghettizzandosi in partenza, nel senso che dice già a chi si vuole rivolgere?
Claudio Calia
28 Settembre 2010 a 18:00
mmm…
Devo pensarci un po’ però… dobbiamo isolare in un certo modo quello di cui stiamo parlando.
Cosa intendiamo per segno alternativo?
Io sinceramente credo, per stare alle antologie Sherwood Comix, che ci siano fumetti molto distanti tra loro in quanto a segno. Rebuffi è diverso da Reviati che è diverso da Balloni che è diverso da ZeroCalcare (mi fermo a Global Warming, l’ultima antologia che è uscita per NdA Press).
Rebuffi diventa alternativo quando pubblica su Sherwood Comix e popolare quando fa(ceva) Tiramolla?
Credo che Rebuffi sia semplicemente sé stesso. E questi sono, definiamoli come vogliamo, i segni che mi interessano: personali, non appiattiti.
Qui ci spostiamo nettamente dal centro del discorso del post, possiamo approfondire forse in altra sede più opportuna, però ecco…
«non è che un certo tipo di segno o di stile si configura già da sè come “alternativo”, “impegnato”, o quanti altri aggettivi virgolettati vogliamo mettere, in questo caso davvero ghettizzandosi in partenza, nel senso che dice già a chi si vuole rivolgere?»
Forse, ma non è lo stesso per Tex tipo? Non dice a chi vuole rivolgersi già da come è disegnato? O un manga o un albo di supereroi? Perché questa deve diventare una responsabilità con accezione negativa solo quando si fa qualcosa di meno omologato a ciò che già conosciamo?
Attenzione, non sto facendo distinzioni per qualità, non credo che l’uno sia meglio dell’altro a prescindere e leggo veramente di tutto.
Però mi sorprende che a fronte di centinaia di fumetti ognuno dagli stilemi ben prefissati sia quello meno visibile nel micromondo del fumetto, e per assurdo più visibile dove di fumetto si parla meno, a cui si attribuiscono responsabilità che… boh?
E se alla domanda nel virgolettato rispondessi sì?
Cosa cambierebbe?
Baci!
c.
Paolo Gallinari
28 Settembre 2010 a 18:08
Beh, che dire: la domanda era lì per farsi rispondere, e tu hai risposto, Claudio… secondo me, invece, lo stile è abbastanza definito. Voglio dire: vedo un certo tipo di stile e lo posso connotare. Gipi, ad esempio, per citare un autore che non c’entra con Sherwood, si connota da sè come un autore “alternativo” anche politicamente, per lo stile che ha: è difficile pensarlo a disegnare Tex o manga, giusto? Poi, che ci siano autori in grado di esprimersi in diversi contesti, non lo trovo confliggente con questa affermazione.
Claudio Calia
28 Settembre 2010 a 18:12
Ultima considerazione: per me è giusto che un libro si rivolga alle persone che possono essere interessate a quel libro.
Scanso per un attimo le antologie Sherwood Comix per non incartarmi con gli esempi, e parlo di ciò che conosco, i miei libri, come autore.
So benissimo che si rivolgono ad un pubblico che abitualmente non legge fumetti, e sono pensati e realizzati in questo senso dal momento che appoggio la matita sul foglio.
Ora mi si dice (ragiono di esempi tagliati a fette): il tuo E’ primavera ha un segno e un tema che non parlano a tutti ma solo a delle nicchie ben precise, e questo è ghettizzarsi.
Io penso però che quelle nicchie non avrebbero preso in mano un fumetto, per cui sì, sarà ghettizzarsi ma se lo faccio fuori dai soliti ambienti, se scelgo di non concorrere con Tex e rivolgermi ad altri… è davvero ghettizzarsi?
Ma non bisognava tirar fuori nuovi lettori per il nostro linguaggio preferito?
Impero di Toni Negri, con le sue milioni di copie di venduto, è un libro che si ghettizza?
Bah, ad esser ghettizzato così… preferisco il ghetto!
Non è che forse questa ostinazione del fumetto a ritenersi sempre parte del mondo del fumetto e mai parte del mondo sia tra i problemi della diffusione del nostro linguaggio rispetto ai non addetti ai lavori?
Io voglio fumetti che parlino di tutto e a tutti, ma non lo stesso fumetto che parli a tutti di tutto, ma tanti fumetti che parlino a tanti diversi. Son per la biodiversità non solo in natura ma anche sulla carta :-D
Baci ;-)
c.
Claudio Calia
28 Settembre 2010 a 18:14
Abbiam scritto contemporaneamente ;-)
Vabbè, ma se rovesciamo l’esempio? Se ti dico che, chessò io, Civitelli è un autore connotato (non politicamente, come segno) e che non ce lo vedo disegnare LMVDM… cosa abbiamo concluso?
baci!
c.