Una vita semplice: Si chiamava Tomoji

Una vita semplice: Si chiamava Tomoji

"Si chiamava Tomoji" di Miwako Ogihara e Jirô Taniguchi racconta la vita della fondatrice del tempio Shôjushin: una vita come un tempio nella natura

Tomoji 1Si chiamava Tomoji, recente opera di Jirô Taniguchi su sceneggiatura di Miwako Ogihara, ripercorre la vita di una contadina giapponese dei periodi del Meiji e del Taishô, che comprendono i poco documentati anni della storia del Giappone compresi tra il 1912 e il 1926, e dello Shôwa.

Immersa nella lussureggiante bellezza della campagna orientale Tomoji non sfugge all’asprezza della vita rurale; in seguito alla scomparsa prematura di padre e sorella minore e all’abbandono della madre, la famiglia si raccoglie intorno alla nonna Kin, le cui preghiere sono fonte di sollievo per gli abitanti del villaggio.

Il ritmo lento della quotidianità contadina e i magnifici paesaggi nipponici trovano un connubio felicissimo nei disegni di Jirô Taniguchi il cui realismo sfiora la perfezione fotografica, l’autore anzi gioca sulla sottile linea di demarcazione che separa le due arti realizzando più versioni di una stessa foto della famiglia di Tomoji.
La prima fotografia, in bianco e nero, colpisce l’attenzione per lo straordinario realismo, ottenuto grazie alla fissità delle espressioni dei volti della famiglia, tuttavia mantiene una grande omogeneità con lo stile generale dell’opera.
La seconda versione della fotografia spicca invece all’interno della tavola grazie all’uso del color seppia; l’effetto iperrealistico ottenuto insinua per la prima volta nel lettore l’impressione che la vicenda narrata non sia opera di fantasia ma trascrizione di vite autentiche, emozionandolo profondamente.

Tomoji ANon è la prima volta che Taniguchi adopera questa strategia mimetica, già in Gourmet l’iperrealismo dei piatti assaporati dal buongustaio protagonista aveva una capacità espressiva tale da rapire l’attenzione del lettore e fermare il suo sguardo sulle pietanze.

Se in Gourmet tale risorsa grafica aveva l’obiettivo di suggerire all’osservatore profumi e sapori, in Si chiamava Tomoji lo scopo del realismo di Taniguchi è evidentemente quello di mettere il lettore in contatto con la natura. L’aderenza al vero dell’autore giapponese non è tuttavia una semplice riproposizione della realtà osservata, in ogni tavola ed in ogni panorama le linee sono continue, equilibrate, armoniose, persino quando il tempo è inclemente.

La magia grafica di questo mangaka risiede tutta in questa singolare capacità: idealizzare ed esaltare l’armonia della campagna giapponese senza pregiudicarne la naturalezza, aprendo all’osservatore la visuale sui panorami come se fossero colpi di scena in una narrazione che grazie a questo lascia sopportare la sua lentezza.

Se il realismo e l’attenzione agli aspetti più quotidiani dell’esistenza sono le note caratteristiche che hanno imposto Jirô Taniguchi all’attenzione dei lettori, nel caso di Si chiamava Tomoji l’attenzione alla verosimiglianza dell’autore è tanto più importante poiché appunto la protagonista non è un personaggio fittizio ma una persona realmente esistita: la fondatrice del tempio Shôjushin.

Tomoji BNell’intervista che arricchisce il volume, Jirô Taniguchi rivela infatti di aver ricevuto da altri frequentatori del tempio l’incarico di raccontare la storia di Tomoji, ma di aver rifiutato di comporre un’agiografia, restando invece fedele alla biografia della fondatrice del tempio. A causa del poco tempo a sua disposizione, si è fatto affiancare nella stesura della sceneggiatura da Miwako Ogihara, ciononostante è difficile trovare nello sviluppo della trama qualche elemento che si discosti dall’abituale stile narrativo di Jirô Taniguchi e il risultato della collaborazione è di grande omogeneità.

Il risultato di questa simbiosi, rispettosa dei ritmi propri del celebre mangaka, ha consentito di far leva sul realismo e sulla lentezza narrativa per far emergere il contatto profondo di Tomoji con la natura e gli abitanti del villaggio, accentuato dal contrasto con il disastroso terremoto di Tokio del 1923 che travolge la città e risparmia la campagna.
Scampato al terremoto, Fumiaki Itô, cugino di Tomoji e suo promesso sposo, raggiunge la protagonista e la sposa con grande semplicità, ideale condiviso dagli sposi e a cui è improntata la loro vita.

Jirô Taniguchi non tradisce quindi la promessa di raccontare la storia del tempio: pur se la sua costruzione resta esclusa dalla narrazione il lettore infatti ne conosce ormai le basi e l’importante fondatrice.

Abbiamo parlato di:
Si chiamava Tomoji
Miwako Ogihara, Jirô Taniguchi
Traduzione di Vincenzo Filosa
Rizzoli Lizard, 2015
176 pagine, brossurato, bianco e nero e colore – 16,00 €
ISBN: 9788817083089

 

 

4 Commenti

1 Commento

  1. francesco

    13 Gennaio 2016 a 14:12

    Gran bella recensione. Conoscendo Gourmet fa venire voglia di leggere pure questo volume.

  2. Francesco

    31 Gennaio 2016 a 21:20

    Letto…molto bello! :)

    • Simone Brusca

      21 Febbraio 2016 a 19:51

      Grazie dei bei complimenti Francesco, sono lieto di averti indirizzato a una lettura piacevole ;)

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