Parlare dell’umano attraverso il mito: Fabrizio Dori

Parlare dell’umano attraverso il mito: Fabrizio Dori

Dopo il successo in Italia e in Francia de "Il dio vagabondo" abbiamo intervistato Fabrizio Dori per conoscere i suoi esordi e il suo rapporto con fumetto, pittura, mito e arte.

Fabrizio Dori ha frequentato l’Accademia di Belli Arti di Brera e ha lavorato nel campo dell’arte contemporanea, esponendo i suoi lavori alla Quadriennale di Milano e in diverse mostre collettive a Milano, Udine, Ravenna, Verona.
Nel 2013 disegna le tavole di
Uno in diviso (Tunuè), graphic novel tratto  dall’omonimo romanzo di Alcide Pierantozzi e sceneggiato da Adriano Barone. Nel 2016 pubblica Gauguin – l’altro mondo, edito in italia ancora da Tunué, che ha vinto il Premio De la Ville de Serignan in Francia. Nel 2019 con le Edizioni Oblomov pubblica Il dio vagabondo, che riceve il Premio Ubu 2019 in Francia e per il quale vince il premio Coco a Etna Comics 2019 come miglior autore unico. Dori è presente su Instagram: www.instagram.com/fabrizio.dori

Fin dal tuo esordio fumettistico ai disegni di Uno in diviso è apparsa evidente la ricerca di uno stile pittorico fortemente evocativo e personale. Perché e come sei arrivato al fumetto e perché con questo approccio?
Mi sono accostato al fumetto relativamente tardi, quando avevo più di trent’anni. Prima operavo nell‘ambito dell’arte contemporanea. Realizzavo opere che venivano vendute nelle gallerie d’Arte, facevo, in poche parole, l’artista.
Lavoravo su grandi tele, con un approccio molto differente rispetto a quello che si può vedere nei miei fumetti. Dipingevo utilizzando rulli per imbiancare, vernici acriliche e smalti. Cercavo di ottenere un effetto asettico, freddo, vicino al design, rappresentavo oggetti immaginari, privi di funzione o scopo.
Dopo qualche anno sono entrato in crisi, non ero soddisfatto. Qualcosa non andava.
Fu in quel periodo che scoprii un tipo di fumetto che mi sarebbe piaciuto fare oltre che leggere, mi riferisco al graphic novel e nello specifico al lavoro di David B. e Sfar.
In quel momento mi parve più interessante ciò che accadeva nel mondo del fumetto rispetto a ciò che trovavo nel mondo dell’arte, quantomeno in relazione alla mia ricerca personale.
Abbandonai il lavoro di artista e la piccola posizione che ero riuscito a conquistarmi in quell’ambito e mi misi a scrivere e disegnare fumetti, in maniera istintiva, senza avere un editore.
Ripensandoci oggi mi sembra chiaro che ciò che stavo cercando, ciò di cui avevo bisogno era la dimensione del racconto.
Non è un caso che l’artista che mi affascinava maggiormente all’epoca fosse Matthew Barney, la cui opera ha una forte componente narrativa.
Il racconto fornisce senso alle cose e io avevo bisogno di senso.

Uno in diviso

Le tue opere, in maniera evidente per Gauguin ma anche in Uno in diviso e Il dio vagabondo, abbondano di riferimenti espliciti a stili e artisti in una ricerca che definirei anche metatestuale per il suo funzionare da gancio per evocare un’atmosfera, un mondo non espresso a parole ma stimolato dai disegni. Come nasce questo stile multiforme, questa voglia di associare il tuo stile a quello di grandi pittori?
Per usare le parole di Heidegger: “Il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo.
Da abitante di questa dimora non posso fare altro che maneggiare ciò che mi circonda, ciò che fa parte del mio paesaggio.
Spesso si mette in evidenza il mio “giocare” con lo stile dei grandi pittori, forse perché è la parte più facilmente riconoscibile del mio lavoro, in realtà metto in campo molto altri riferimenti, tanto nella parte grafica quanto nella parte scritta.

Tra Uno in diviso e Gauguin ci sono due grossi salti: da disegnatore ad autore completo, dai toni di grigio ai colori. Quale è stato più impegnativo?
Il colore è stata una rivelazione, inizialmente pensavo il fumetto prevalentemente in bianco e nero.

Visto il tuo stile, è facile immaginare che fin dal lavoro con Adriano Barone tu abbia avuto una certa libertà nel costruire le tavole del volume, il passaggio ad autore unico è stato quindi una evoluzione naturale, un desiderio che già avevi?
Mi sono avvicinato al mondo del fumetto per realizzare le mie storie. Quando ho disegnato Uno in diviso avevo alle spalle due libri, più di 200 pagine scritte e disegnate. Sono libri che non sono mai stati pubblicati e che rimarranno nei miei cassetti.
Quei libri sono stati la palestra nella quale mi sono formato come autore di fumetti.
Uno in diviso è stata la prima possibilità concreta di essere pubblicato, quindi l’ho colta. Tra l’altro è stato un’impresa appassionante da affrontare, il testo di Alcide era decisamente ostico e con Adriano ci siamo molto divertiti a palleggiarci idee e soluzioni utili alla trasposizione.

Credi che quella di autore unico sia la strada che meglio si addice al tuo modo di raccontare? Cosa ti manca altrimenti?
Come detto in precedenza se faccio fumetti è principalmente per raccontare le mie storie, non disdegno la possibilità di collaborare a progetti non miei, ma ho una mia idea di fumetto e il desiderio di perseguirla.
Altrimenti verrebbe meno lo scopo per cui faccio questo mestiere e di conseguenza l’energia necessaria per affrontarlo.

Gauguin
Dal grigio denso di ombre, tensione e chiaro scuri, ai colori acquarellosi e intensi di Gauguin e Il dio vagabondo: credi che il colore sia il modo in cui ti esprimi al meglio o pensi di adottare il colore o il bianco e nero a seconda della storia?
È il tipo storia che determina l’approccio grafico, non escludo quindi la possibilità di tornare a utilizzare il bianco e nero laddove necessario. A ogni modo, in questa fase, mi trovo bene col colore. Ho voglia di lavorare su una forma fumetto densa, “massimalista”. Miro a realizzare un tipo di fumetto che possa essere ricco, sensuale, poetico, drammatico, ironico, leggero e profondo allo stesso tempo… voglio metterci tutto ciò che mi è possibile; ho bisogno, di conseguenza, di non privarmi di nessuna opportunità e il colore è una di queste opportunità.

Con Il dio vagabondo sono arrivati riconoscimenti come il Premio Ubu 2019 in Francia e il premio Coco a Etna Comics 2019. Che significato per un autore ancora agli inizi della sua carriera fumettistica ricevere questi premi?
In realtà anche Gauguin- l’altro mondo è stato selezionato per diversi premi e ne ha vinto uno in Francia.
Sul fatto di ricevere premi credo sia una questione sulla quale non valga la pena concentrarsi troppo. È il lavoro ciò che conta.
Ovviamente se i premi arrivano, ben venga, nel dubbio, direi meglio vincerli che non vincerli.

Una delle grosse critiche su questi premi è la loro mancanza di riscontro pratico per un autore: nessun premio in denaro, scarsa incidenza sul venduto. È così deludente la prospettiva secondo te, o c’è altro al di là dell’importanza “materiale”?
Il premio che ho ricevuto in Francia per Gauguin era in denaro.
Il premio UBU vinto per Il dio vagabondo è collegato al circuito delle librerie indipendenti, non saprei dire se inciderà sul venduto ma, dovrebbe quantomeno garantire un poco di promozione all’interno delle affollatissime librerie d’oltralpe. Male non fa.
Per quanto riguarda i premi in Italia non saprei, un minimo di attenzione in più sui libri credo possano garantirla. In fondo, se non avessi vinto recentemente il premio Coco, forse questa intervista non me l’avreste chiesta.
E al di là dell’importanza ”materiale”, è banale dirlo, ma fa sempre piacere vedere riconosciuto il proprio lavoro.

Nella tua ultima graphic novel mi ha colpito molto l’uso del mezzo fumetto: vignette che compongono un percorso, elementi che passano da una vignetta all’altra in maniera fluida come fossero un unica messa in scena, il gioco con le prospettive e le inquadrature… Vi vedo una profonda conoscenza del mezzo, degli spazi e delle potenzialità di una tavola a fumetti: sei un accanito lettore? Come hai formato il tuo gusto e il tuo stile di sceneggiatura?
In passato sono stato un accanito e soprattutto curioso lettore di fumetti. Oggi leggo molti meno fumetti, ma se un volume cattura la mia attenzione, lo compro. Non sono più accanito, ma curioso sì.
Ne “ Il dio vagabondo” ho scelto di utilizzare modalità di messa in scena che fossero proprie del fumetto e del fumetto soltanto.
Volevo allontanarmi da soluzioni cinematografiche, dalla decompressione del ritmo narrativo, volevo tornare a guardare il fumetto delle origini, in particolar modo quello d’inizio ‘900.

Sia in Gauguin che ne Il dio vagabondo si percepisce il tuo amore per il mito e la cultura classica, come nasce questo interesse e in che modo l’hai alimentato?
In Gauguin ho raccontato la mitologia tahitiana, ne Il dio vagabondo i miti legati alla nostra cultura, la scelta era determinata dal contesto.
I miti m’interessano perché sono la forma originaria del racconto.
Un ruolo importantissimo, nell’accostarmi a questa materia, l’hanno avuto gli scritti di Jung e di James Hillman.

Il mondo greco latino e la cultura classica possono fornire, a tuo parere, delle basi importanti anche oggi? Concretamente, per un autore la conoscenza dei miti e di opere quali Iliade e Odissea, o anche degli scritti di Platone e Seneca, può essere utile? In che modo?
Qualsiasi cosa può essere utile a un autore e ogni autore troverà istintivamente ciò che gli serve. Non mi sento di consigliare niente a nessuno. A ognuno il proprio percorso.

Il mito nella tua opera viene riaggiornato in una chiave che potremmo chiamare anche “pop”, è insomma un mito non ancorato unicamente a uno stile antico. C’è ancora bisogno del mito, del fantastico, dell’oltre umano nell’immaginario post-moderno del nostro presente, e come è possibile raccontarlo?
È necessario fare una distinzione.
Quello del fantastico è uno spazio che si apre con l’affermarsi della modernità. Il fantastico, in effetti, può esistere solo all’interno di una concezione della realtà desacralizzata e razionalistica.
Semplificando la definizione di fantastico che Todorov formula nel 1970 possiamo dire che Il fantastico si manifesta quando un avvenimento, che non può essere spiegato con le leggi del mondo che ci è familiare, mette in crisi le nostre convinzioni e ci porta a concludere che la nostra realtà sia governata da leggi a noi ignote.
La dimensione mitica è qualcosa di diverso, appartiene al mondo premoderno, è un modo di pensare poetico che intrattiene una relazione con la dimensione del sacro (per sacro non intendo religioso).
Io sono interessato prevalentemente al mito, m’interessa esplorare tutto ciò che la nostra cultura ha rimosso perché ritengo che lì sia possibile reperire energie in grado di rivitalizzare il nostro modo di pensare.
Il mito parla dell’umano, non dell’oltre umano, solo, lo fa con modalità alle quali, probabilmente, non siamo più abituati, per questo può rappresentare un punto di vista, una prospettiva attraverso cui guardare la realtà che viviamo.

Grazie Fabrizio per la tua disponibilità.

Intervista condotta via mail a Giugno 2019.

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