Scavare buche, spiare cadaveri
Quello che mi ha colpito di più di Orochi di Umezu Kazuo è il contrasto che si crea tra narrazione e disegni, ovvero tra il “cosa” e il “come”. Le trame hanno una struttura semplice, che tende ad affastellare vicende e dettagli descrivendo personaggi e ambientazione, impostando un tono e un registro, per poi sconvolgere il tutto verso il finale con uno o più colpi di scena, a volte intuibili e altre meno. Il difetto che comporta una narrazione di questo tipo, in questo caso specifico, è l’eccessivo didascalismo, la chiarezza superflua, il “melodramma urlatissimo”, come l’ha definito Duluth Comics (aka Matteo Contin) nella sua recensione (non ironicamente, moltissimi dialoghi sono letteralmente urlati, come indicato dalla forma dei balloon, dimostrando così questa estrema volontà comunicativa). Tuttavia, le singole vignette e le pagine che le inglobano risultano non solo impostate e costruite efficacemente, seppur ancora una volta in maniera non composita, ma presentano immagini intense veicolate da un tratto nitido, spesso molto carico, che impiega il tratteggio e le campiture per farsi ancora più denso.
La scrittura di Umezu è sicuramente figlia di un tempo, o diretta a un target1, in cui l’importante era costruire un bell’horror d’atmosfera – cosa in cui lui riesce benissimo – a discapito di finezze e complessità narrative. Dovendo “sottostare” a questa sorta di dettame del fumetto di genere e pressato, probabilmente, dalle scadenze da rispettare, sembra decidere consapevolmente di concentrarsi in tutto e per tutto sul disegno.
Parlando più precisamente dell’opera, in Ossa, una delle storie contenute nel primo volume dell’edizione italiana pubblicata da Star Comics con traduzione di Ernesto Cellie e Chieko Toba, la forza delle immagini è potenziata grazie all’utilizzo costante e prolungato di quello che si può definire uno “spioncino”. Questo strumento grafico, utilizzato di rado in altri fumetti dell’autore, viene reso come un cerchio, di dimensione variabile, al cui interno viene collocata l’immagine narrativa – l’effettivo contenuto semantico, se si vuole prendere una prospettiva linguistica – mentre il resto della vignetta, quando esso si presenta, è completamente nera. Questo effetto grafico-visuale, similmente a quando si verifica nel cinema, contribuisce a conferire ulteriore energia visiva alle immagini imprimendole nella testa del fruitore.
Lo spioncino, oltre a essere intimamente legato all’atto del vedere e alla possibilità di osservare senza essere visti, inducendo di conseguenza un sottile feticismo nella pratica stessa, è intimamente legato alla nascita del cinema e alla diffusione della cultura delle immagini. Il kinetoscopio, precursore del proiettore cinematografico inventato da Thomas Edison nel 1888 e sviluppato dal suo collaboratore William Dickson pochi anni più tardi, prevedeva una cassa sulla cui sommità era presente un oculare, che funzionava come una sorta di spioncino. Lo spettatore doveva poggiare l’occhio su di esso, inserire una moneta e girare una manovella per vedere il breve filmato all’interno della cassa. Questa pratica era ovviamente monoculare, nettamente diversa dall’osservare e leggere una vignetta con due occhi dove l’effetto è richiamato solo graficamente. Nonostante ciò, il portato filosofico-concettuale non perde di pregnanza, assumendo nuove e sorprendenti significazioni. Aaron Kerner, nel suo libro Film and the Holocaust: New Perspectives on Dramas, Documentaries, and Experimental Films, evidenzia come spesso, nel cinema, il motivo dello spioncino può essere uno strumento critico per richiamare l’attenzione sullo spettacolo della violenza – per esempio come succede in Strange Circus (2005) di Sono Sion – oppure un modo per integrare la stessa violenza nella narrazione senza interrompere la diegesi2.
Nel caso di Ossa, Umezu, in maniera controintuitiva, tende a non inserire scene particolarmente orrorifiche o violente all’interno degli spioncini, ma invece momenti di riflessione, di dialogo o in cui è necessario enfatizzare gesti significativi. Da un lato, come contraltare, questo effetto permette l’aumentare della forza visiva delle splash page o delle pagine con poche ed estese vignette, che quando appaiono sono doppiamente efficaci e impattanti per le loro immagini (spesso orrorifiche e violente), per il loro livello di accuratezza (altissimo, enfatizzato anche dalla scelta delle inquadrature, che si concentrano spesso sui dettagli, e dall’assenza di dialoghi) e per il loro occupare un’area più ampia a livello spaziale nella pagina rispetto agli spioncini3. Dall’altro lato, consente al lettore di speculare su cosa si celi al di fuori del campo visivo disponibile all’interno dello spioncino, su cosa nasconda il “fuori campo”: sicuramente questo contribuisce a creare quell’atmosfera ansiogena che permea la storia.
Come scritto all’inizio, il layout delle pagine non è complesso. Presenta una struttura semplice evitando soluzioni e tecnicismi in qualche modo esibizionistici, cercando la massima chiarezza in conformità con il contesto editoriale in cui si colloca. Non mancano, come è normale che sia, stilemi strutturali di Umezu, come l’uso di cinque o sei vignette dalla forma quadrata per risolvere sequenze narrative posizionandole solitamente nella parte alta della pagina, oppure l’uso di quattro o cinque vignette orizzontali, che occupano per lunghezza tutta la pagina, creando precise scelte di temporalità che coinvolgono il ritmo della storia e quello di lettura.
Le immagini, in ogni caso, possiedono davvero una linfa vitale propria, anche grazie ad alcuni elementi visivi reiterati che portano con loro specifici temi. Tra questi ci sono i capelli, soprattutto associati alle figure femminili. In Ossa, i capelli di Chie, la protagonista, passano dall’essere pettinati e ben curati poco dopo l’inizio della storia all’essere scomposti e scarmigliati verso la fine, mostrando sintomaticamente il mutamento nel suo carattere e il disvelamento della sua vera, perversa, natura. Il tema dei capelli non è specifico di Umezu, nonostante lo sfrutti in modo preciso anche in altre storie come, per esempio, Sorelle – seppur non valga per Orochi stessa, la vera protagonista di tutti gli eventi, figura quasi ineffabile che spesso, più che risolvere, complica le vicende nelle quali si trova immersa – ma è invece specifico di una certa raffigurazione femminile nelle storie dell’orrore giapponesi. Infatti, i discorsi culturali sui capelli come simbolo di corruzione corporea e di disgregazione della società sono basati su folklore e mitologia. Gary Ebersole nota che, nel Giappone antico, i capelli erano associati sia alla normalità che all’anormalità e che spesso erano legati alla sessualità, al potere riproduttivo e alla comunicazione con i kami (le divinità) e i morti4. Inoltre, aggiunge che esisteva la credenza secondo la quale i lunghi capelli delle giovani donne avessero il potere di attrarre i kami, che fluivano in essi e vi risiedevano temporaneamente5.
Questa fascinazione per i capelli si è quindi diffusa e reiterata negli anni, arrivando a permeare tutta la cultura popolare dedicata all’orrore, al terrore e alla paura. Le più recenti manifestazioni in questo senso sono proliferate nel j-horror, termine ombrello che racchiude diverse espressioni del cinema horror giapponese, che avuto il suo momento d’oro tra i primi anni Novanta e l’inizio del Duemila. Tra i film che più riprendono questo immaginario ci sono Ring (1998) di Nakata Hideo e Ju-on (2000) di Shimizu Takashi. Orochi, quindi, si pone quindi all’interno di un discorso estetico più ampio che coinvolge diversi ambiti e che è stato continuamente rielaborato attraverso le continue influenze a cui è stato esposto il manga come medium.
L’attenzione del lettore, in questa opera, risulta fondamentale e la pratica di osservazione deve essere accompagnata dalla volontà di scavare nelle immagini, senza fermarsi a ciò che si trova in superficie, calcando percorsi non battuti e labirintici. In poche parole: rimuovere la terra e spiare i cadaveri lasciati dal segno di Umezu.
Si ricorda che è il manga è stato serializzato tra il 1969 e il 1970 su Weekly Shōnen Sunday di Shogakukan. ↩
Aaron Kerner, Film and the Holocaust: New Perspectives on Dramas, Documentaries, and Experimental Films, New York, Londra, Bloomsbury, 2011, p. 37. ↩
Elemento questo molto importante e spesso sottovalutato nell’economia di funzionamento di un fumetto. Thierry Groensteen, The System of Comics, trad. di Bart Beaty e Nick Nguyen, Jackson, University Press of Mississippi, 2007, pp. 29-30. ↩
Gary L. Ebersole, “’Long Black Hair Like a Seat Cushion’: Hair Symbolism in Japanese Popular Religion”, in Hair: Its Power and Meaning in Asian Cultures, Alf Hiltebeitel and Barbara D. Miller (a cura di), New York, State of New York University Press, p. 77. ↩
Ebersole, “’Long Black Hair…’”, cit., p. 85. ↩