Ashita no Joe: il fardello soprannaturale e la nobiltà della sconfitta

Ashita no Joe: il fardello soprannaturale e la nobiltà della sconfitta

Con il passare degli anni Ashita no Joe (in Italia Rocky Joe) è diventato uno di quei manga troppo importanti per non essere letti, grazie ad una trama appassionante e a tavole potentissime.
Ciò che colpisce è il tipo di comunicazione che l’opera instaura con il lettore, infatti il fumetto è intriso di emozioni così viscerali e intense da catapultarlo dentro la storia e fargli provare le stesse sensazioni del protagonista.
Se, fino all’incontro con Tōru Rikiishi, sembra di essere di fronte a una storia divertente, con un personaggio principale arrogante, orgoglioso, sbruffone e selvaggio, ma dal talento cristallino che gli assicurerà successo, gli eventi che sconvolgeranno completamente la vita di Joe cambieranno il tono generale della vicenda.

E’ evidente infatti come, alla morte di Rikiishi, la cupezza e l’oscurità entrino prepotentemente nell’anima di Joe, del lettore e ovviamente anche nelle tavole. Gli spogliatoi dei palazzetti si fanno più bui, gli occhi di Joe si svuotano di quella vitalità sublime che lo accompagnava sempre e, nonostante vinca gli incontri, la sua grinta sembra svanita.

Joe porta sulle spalle un fardello soprannaturale, cioè non solo il peso dei propri sogni e aspirazioni, ma anche quelli del defunto Rikiishi, un uomo che ha messo in gioco la sua vita per un incontro di boxe. Ovviamente non era un incontro qualunque, era la sfida tra due concezioni della vita opposte: l’ordine e il caos, la sistematicità e l’imprevedibilità.
L’ultraterreno si insinua nella vita del protagonista e ne condiziona ogni gesto, ogni pensiero, portandolo fino ai più bassi livelli sportivi e umani, dove il dolore fisico corrisponde a quello della mente, in una spirale depressiva che colpisce i muscoli e la pancia. Il rigetto diventa quindi duplice: letterale sì, ma anche metaforico e spirituale. Per Joe l’imperativo, quasi inconscio, diventa rigurgitare e liberarsi del vecchio male per risorgere, ponendosi come obbiettivo una nuova distruzione: l’annichilimento totale, personale e sportivo, per assurgere a quella vetta del mondo pugilistico che più che una conquista è un peso da cui liberarsi per sempre.

L’ultraterreno non si nota in visioni truculente o apparizioni mistiche, ma si respira nell’aria, aleggia nell’atmosfera e manifesta un’aura che circonda il protagonista, rendendolo lungo il corso della storia nervoso e irrequieto, in un modo diverso rispetto a come ci aveva precedentemente abituato, e a tratti anche appesantito emotivamente, soprattutto nel corso degli ultimi volumi.

Collegato alla tematica del ultraterreno è poi il rapporto puro-impuro, esplorato in maniera sottile. In questo confronto ciò che emerge in modo più evidente sono due punti cardine: il rifiuto della morte e la castità. La morte viene consapevolmente ripudiata da Joe, anche se ne sarà perseguitato inconsciamente lungo tutta la storia, non volendo assolutamente parlare nè di quella di Rikiishi (tanto da non partecipare nemmeno al suo funerale), nè della possibilità di morire egli stesso sul ring, parlando per metafore della propria dipartita, come ad esempio quella della “cenere bianca”.

Allo stesso modo viene respinta la visione dei colpi sul proprio corpo: il protagonista si distrugge costantemente il fisico, sia in allenamento che durante gli incontri, ma rifiuta di guardare allo specchio i segni lasciati dai pugni e dalle botte, tanto che sono numerose le scene in cui gli spettatori o i giornalisti sono esterrefatti di fronte al suo corpo tumefatto mentre lui non sembra affatto preoccuparsene.
La castità è l’altra caratteristica che modella Joe, il quale prima respinge Hayashi Noriko e poi Shiraki Yōko, mantenendo una purezza incontrastata grazie alla (o a causa della) sua ossessione per la boxe e per la rivalsa nei confronti di una società che non l’ha mai capito e che l’avrebbe rifiutato se non si fosse dedicato a quello sport.

Sappiamo inoltre come verso la conclusione del manga si scopra che Joe è affetto dalla punch-drunk syndrome, ovvero una lesione cerebrale cronica causata dall’aver preso un eccessivo numero di pugni, conseguenti nel suo caso alla tecnica sconsiderata. La sua tecnica, ovvero la ricerca di volta in volta del colpo perfetto sperimentato e allenato specificatamente, e l’enorme resistenza, gli consentono di ricevere tantissimi colpi senza vacillare, ma appunto proprio questi, a lungo andare, porteranno alla malattia. Dopo la morte di Rikiishi però, l’elevato numero di escoriazioni, abrasioni, sbucciature che dopo ogni incontro e a volte anche dopo gli allenamenti affollano il corpo di Joe assumono un ulteriore significato, diventando la reificazione dell’autopunizione che Joe si infligge per avere portato alla morte il suo sfidante. Bisogna tra l’altro notare come la morte di Rikiishi spezzi apparentemente un legame che i due si portavano dietro fin dal riformatorio, una sorta di ostilità onorevole. Questo legame però Yabuki continua a mantenere attivo e si rifa inevitabilmente al tema dell’ultraterreno precedentemente discusso.

Si può notare come la parabola di Yabuki sia assimilabile a quella degli eroi nobili ma sconfitti di cui Ivan Morris, uno dei più importanti studiosi del Giappone, ha cantato le lodi nell’ormai classico La nobiltà della sconfitta. Joe è in fin dei conti un moderno Minamoto no Yoshitsune, per il suo carattere ribelle e selvaggio, per le sue vittorie in gioventù e per la sconfitta consapevole e anticipata, in una rassegnata accettazione della fine. La sua etica però è rintracciabile più avanti a livello storico, rispetto al periodo Heian (794-1185) in cui si colloca Yoshitsune: quella di Joe è un’etica marziale del periodo Sengoku (1467-1603), l’epoca degli Stati Combattenti, e di quello Tokugawa (1603-1868). Il suo codice di vita gli impone una severa disciplina e lo spirito ribollente del samurai vive dentro di lui, conferendo un enorme valore all’onore e alla reputazione. Segue inconsapevolmente l’Hagakure, in particolar modo nello scontro finale con Jose Mendoza, dove per combattere si ritiene già morto in partenza, assimilando uno dei concetti chiave del libro di Yamamoto Tsunetomo.

Come per i samurai, la violenza è un mezzo per raggiungere i propri scopi, ma nel contesto culturale, sociale ed economico in cui si svolge la storia l’unico modo per sfogare la rabbia e la costante presenza di vuoto interiore è una violenza incanalata in uno dei pochi sport che la ammette, ovvero la boxe. Mostrare il proprio valore sopra un ring rialzato, sotto gli occhi del pubblico e dei riflettori è facilmente equiparabile alla ricerca della gloria sul campo di battaglia da parte dei samurai, che si curavano di essere ben visti quando dovevano compiere un’azione di guerra, affrontare un nemico oppure morire per propria mano squarciandosi il ventre. Inoltre, non è un caso che venga messo in evidenza il fatto che i guantoni siano l’anima del pugile, proprio come la spada era l’anima dei samurai. Gli autori lo chiariscono in un vignetta memorabile, in cui Joe, distrutto, tiene in mano guantoni intrisi di sangue e sudore: priva dello sfondo, la vignetta enfatizza l’atemporalità della scena, sottolineandone il valore attraverso il contrasto tra il braccio bianco e purissimo del protagonista e i guantoni neri.

Quelle appena discusse sono alcune chiavi di lettura che ho cercato di proporre per fornire una nuova visione dell’opera e per favorire una (ri-)lettura sotto un diverso punto di vista.