Cappuccetto Rosso giapponese

Cappuccetto Rosso giapponese

Fujiwara Kaoru e Nakamura Asumiko sono due tra le più interessanti autrici contemporanee, sia guardando ai disegni che ai temi espressi nei loro lavori. Il fatto che entrambe abbiano adattato e rielaborato a fumetti una fiaba come Cappuccetto Rosso credo sia una felice congiunzione astrale che fornisce la possibilità di analizzare in parallelo le due trasposizioni, mostrando come in realtà siano opere ricche di poetiche personali e suggestioni intime figlie delle menti delle due mangaka.

La versione di Fujiwara

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La versione di Fujiwara è stata originariamente serializzata in Giappone su Feel Young nel 2002, mensile pubblicato da Shōdensha sul quale sono apparse già alcune delle migliori autrici degli ultimi trent’anni, da Okazaki Kyoko ad Anno Moyoco, passando per Nananan Kiriko fino al nuovo talento del josei Wayama Yama, mentre in Italia è apparsa nel volume Il giardino dell’Eden, pubblicato da Star Comics con traduzione di Alice Settembrini.
Fujiwara imposta fin dalle prime pagine una narrazione cupa e un’atmosfera conturbante e a tratti onirica, dove l’inquietudine e la tensione, soprattutto sessuale, emerge grazie al character design e alla recitazione. Infatti, i corpi resi tesissimi da una linea equilibrata e sottile diventano un mezzo per esprimere qualsiasi cosa: è una poetica/politica del corpo quella della Fujiwara, che si rifà tanto al mondo della fotografia e delle riviste di moda (è stata malauguratamente accusata anche di plagio per questo motivo, dovendo sospendere la sua attività di mangaka per diversi anni – paradossalmente, aggiungerei, visto che il photobashing non è un crimine, anzi può essere un modo per comunicare emozioni differenti in o con un stesso medium, come nel suo caso), quanto a un minimalismo più ricercato che naturale. Seguendo questo modus operandi, asciuga i dialoghi e li riduce numericamente, affidandosi ai monologhi interiori (quindi alle didascalie), anche questi mai troppo verbosi, cercando la reazione emotiva spesso azzeccata, ma in altri casi abusata, dell’abbinamento tra pagine completamente nere e singole frasi, volta a enfatizzare il momento o a creare una specie di effetto a doppia faccia: da un lato il coinvolgimento del lettore, dall’altro il suo sconvolgimento emotivo. L’autrice identifica idealmente il corpo come soggetto/oggetto liminale che si muove al confine tra dolore e piacere, concetto presente anche nella raccolta Fetish (in Italia uscita sempre per Star Comics con traduzione di Alice Settembrini). D’altronde si tratta sì di corpi tesi, ma anche fragili, così come le loro menti in bilico tra forte realismo e visioni allucinate. A questo riguardo, mi sembra interessante notare l’uso che Fujiwara fa dei retini. Il loro utilizzo così invasivo può essere letto come un tentativo di filtrare la realtà nella finzione narrativa: quella realtà, in effetti, è imperscrutabile e il lettore è costretto a osservare attentamente per comprendere le motivazioni e i pensieri dietro alle azioni, scandagliando i retini fino a scovare varchi che possano aiutarlo in questo processo. I filtri diventano così il modo per schermare personaggi e lettori e questi ultimi possono solo limitarsi a riflettere sul ruolo e sul potere delle immagini in un mondo fittizio fatto di passione e sofferenza. Questi varchi a volte si aprono sugli stessi balloon di dialogo, facendo intravedere ciò che si cela sotto di loro, eliminando quasi quella funzione “ostacolante” o “coprente” che di solito gli si attribuisce (come spiega bene Thierry Groensteen in Systéme de la bande dessinée). Se si guarda al layout delle pagine, si può osservare la quantità ridotta di vignette, che non variano molto nemmeno nella forma a dispetto di cosa viene raccontato, fattore che favorisce i ritmi dilatati della narrazione, rendendola comunque quadrata a nonostante i già accennati tratti onirici o fantastici. Fujiwara sembra concentrarsi maggiormente sulla scelta delle inquadrature, prediligendo la delineazione di profili e figure a mezzo busto e composizioni molto equilibrate che spesso potrebbero essere perfette come illustrazioni a sé stanti, senza inficiare la sequenzialità propria del fumetto. Le splash page disegnate si inseriscono in questo senso in modo calibrato, conservando la loro forza figurativa, in particolar modo l’ultima di esse, che corrisponde all’ultima pagina del manga, è molto evocativa e significativa per il contesto della storia: il buio che ci circonda è, in fin dei conti, quello che conserviamo nel nostro cuore; la nostra selva oscura personale è anche l’ambiente sociale o culturale in cui viviamo.
Per la storia, l’autrice riprende un’interpretazione già nota della fiaba, ovvero quella secondo cui sarebbe una metafora della maturità sessuale, ma la risemantizza grazie alla sua sensibilità e alle sue tematiche. Inoltre, aggiunge allegorie visive connesse a tutto ciò, come il baco che diventa farfalla, forse leggermente didascalica, oppure il colore rosso, decisamente più intrigante perché simbolo non delle mestruazioni quanto della verginità perduta.

La versione di Nakamura

La versione di Nakamura, che a differenza di quella di Fujiwara ha un titolo, My skin on my back, è stata originariamente pubblicata su Gothic & Lolita Bible, mook (combinazione di magazine e book) trimestrale attivo dal 2001 al 2017, mentre in Italia è apparsa nel volume Le théâtre de A (Dynit Showcase, traduzione di Federica Lippi), che insieme a Le théâtre de B compone un dittico che raccoglie tutti i fumetti dell’autrice apparsi su Gothic & Lolita Bible. I contenuti del mook sono foto di modelli e modelle in abiti gothic e lolita, accorgimenti per il trucco, presentazioni di accessori, bambole e manga, con cover spesso realizzate da artisti e artiste di talento, come Mihara Mitsukazu o Ikeda Riyoko. L’influenza sul fumetto di Nakamura è decisiva, non solo per storia e ambientazione, ma soprattutto per l’atmosfera e il character design dei personaggi, elementi che probabilmente si sarebbero presentati in maniera differente se il manga fosse stato pubblicato in un’altra rivista.
My skin on my back è una storia brevissima di sole otto pagine, numero decisamente inferiore rispetto alle trentuno di quella della Fujiwara, e infatti Nakamura va dritta al nocciolo della questione, abbinando a un’atmosfera giocosa soffusa di humor nero dialoghi stringati e pochissime didascalie. Si tratta quindi di un ritmo spedito sotteso a un clima divertente, per nulla cupo o pesante, sottolineato anche da frasi metanarrative/metacontestuali come: “Le lolite sono così. Sanno di rose e fragole.”, inserendo così la rielaborazione di Cappuccetto Rosso operata dall’autrice in una struttura postmoderna precisa e chiara.
La parte grafica fa nuovamente da padrona nel regolare il funzionamento narrativo e tematico: il character design viene mutuato proprio dalle tendenze fashion della rivista in cui viene pubblicato il fumetto, tra pizzi e merletti per la protagonista femminile e deliberata eccentricità per quello maschile, e un capo d’abbigliamento diventa il perno su cui ruota completamente la risoluzione finale. L’eleganza quasi impareggiabile del tratto della Nakamura compone corpi sinuosi e forme morbide e arrotondate mostrate con una regia semi-sincopata dove si passa da primissimi piani a figure intere nel tempo di una closure, evidenziando un’abile gestione dello spazio della tavola.
Due elementi risultano essere in comune con la versione di Fujiwara: il debito verso la fotografia e l’illustrazione e l’uso dei retini. Nel primo caso si tratta, come scritto precedentemente, dello studio approfondito di pose e movimenti, anche se bisogna dire che nel caso di Nakamura si nota una maggiore rielaborazione concettuale e una maggiore consapevolezza grafica piuttosto che filosofica, più virata verso la funzione visiva dei corpi invece del loro significato politico in senso lato. Nel secondo caso, l’uso dei retini, nonostante la stessa pregnanza, è completamente diverso rispetto a quello di Fujiwara: Nakamura si spinge a uno smodato uso dei retini per rendere al meglio i pattern e i tessuti dei vestiti indossati dai personaggi, rifacendosi secondo me a un periodo decisamente precedente a livello temporale. Infatti, i retini dei vestiti, vistosi e dalle geometrie elaborate, sembrano proprio essere ispirati ai modelli komon del periodo Edo (1603-1868), ovvero stampi di tessuti finemente decorati utilizzati per abbellire e ornare i kimono, creando così nel manga effetti sorprendenti e di sicuro impatto, che veicolano opportunamente tutto quanto il fumetto vuole comunicare, da dove si colloca editorialmente al senso della sua storia, andando a sostituire il colore rosso presente al principio.

L’equilibrio come chiave di volta

Queste due versioni di Cappuccetto Rosso risultano particolarmente interessanti non solo per similitudini e differenze, ma soprattutto nel loro rielaborare archetipi, maschere e atmosfere con sensibilità autoriale e tematiche personali, inserendosi nel proprio contesto di pubblicazione e riplasmandolo in rapporto a quello che viene scritto e disegnato. Quando autori e autrici lavorano su trasposizioni di opere molto famose, come in questo caso, uno degli errori più frequenti e palesi è quello di perdere la bussola della narrazione, fallendo nel trovare un equilibrio complessivo tra scrittura, disegni e tutto quello che sta nel mezzo. Gli esempi di Fujiwara e Nakamura, invece, brillano proprio per l’equilibrio voluto, cercato e trovato, perle in un mare di adattamenti spesso banalizzanti o poco riusciti per vari motivi, al netto di altre felici eccezioni come, ad esempio, quelle dei Nishioka Kyōdai con Kafka o di Moriizumi Takehito con Murakami Haruki. Si può quindi tranquillamente concludere dicendo che il folto numero di intuizioni e spunti forniti dalle due versioni è sinonimo della loro grande qualità sotto tutti i punti di vista, appigli nascosti ma solidi nella produzione di due ottime autrici contemporanee.