In ricordo di Sergio Bonelli

In ricordo di Sergio Bonelli

"La nostra categoria non lascia impronte così pesanti da essere ricordati” diceva Sergio Bonelli in questa intervista del 2010. Lui l'impronta l'ha lasciata, talmente profonda da essere imprescindibile.

A nove anni dalla scomparsa di Sergio Bonelli, ho il piacere di ripubblicare questa intervista che il grande editore e sceneggiatore mi concesse nel maggio del 2010. Manca molto Sergio Bonelli. Chi scrive lo considera il più grande sceneggiatore italiano oltre che editore. L’importanza di Sergio Bonelli (che quando scriveva usava lo pseudonimo di Guido Nolitta) come sceneggiatore è lampante soprattutto se pensiamo ai due personaggi da lui creati: Zagor e Mister No. Personaggi fuori dagli schemi, ben prima di Ken Parker, Dylan Dog ecc…
Senza dimenticare anche l’importante contributo dato a Tex, personaggio creato dal padre Gianluigi; anche li Sergio Bonelli diede il suo contributo determinante, basta vedere storie come Il Segno di Cruzado o El Muerto, per molto tempo la più amata dai lettori.
Niente male per un uomo che (come avrete modo di leggere nell’intervista) scriveva nei tempi morti.
Spero che questa conversazione possa farvi conoscere qualche lato inedito di questo vero e proprio Uomo dell’avventura.

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Un giovanissimo Sergio Bonelli con sua madre, Tea Bonelli

Inizio subito chiedendole se, dopo 50 anni di attività nel mondo del fumetto, ha mai pensato di smettere, di dire: Basta! Mollo tutto e via…?
Ci ho pensato più di una volta, sinceramente, e non solo ora ma già trent’anni fa. Ma poi per diversi motivi non l’ho fatto, perché se da un lato c’è la voglia di lasciare, dall’altra c’è la curiosità che ti spinge a fare una nuova serie, a provare una nuovo soggettista, un nuovo disegnatore … e poi c’è da considerare il fatto che senza far niente m’annoierei, non ho altri interessi (oltre quelli usuali come andare al cinema, a teatro, ecc…) come dire, professionali.

Ma comunque un pensiero l’ha fatto?
Beh, ultimamente ci ho pensato di più (ride…), perché comunque è diventato più pesante star dietro a tante testate.

Prova sempre le stesse emozioni quando ha tra le mani una sua nuova testata? Dal momento in cui l’approva, fino a quando non la vede in edicola, cosa prova dentro di se dopo tanti anni?
L’emozione della prima volta si rinnova sempre. Perché ogni volta è una specie di sfida che ti fa capire se hai ancora un contatto col pubblico, se sei ancora in grado di capirlo. Ma c’è anche il dubbio, nel momento in cui intervieni per modificare la serie proposta, magari per meglio adattarla alle esigenze del pubblico. Sinceramente ora sono più insicuro e quindi mi baso sul parere delle persone che lavorano con me.

Presumo che le capiti spesso di parlare di fumetti anche al di fuori dell’ambito lavorativo, ad esempio con qualche amico o collega. Ne ha piene le scatole? O lo fa con lo stesso entusiasmo?
Mi piace molto parlare con chi è esperto, con chi conosce e ama i fumetti come li amo io. Poi quando l’amicizia coincide con la professionalità è ancora meglio. Del resto molti dei miei amici sono gli stessi sceneggiatori e disegnatori con cui lavoro.

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Rapallo 1996: da sinistra il grande illustratore Lele Luzzati, lo sceneggiatore Carlo Chendi, Sergio Bonelli mentre riceve il premio “U giancu”, il sindaco di Rapallo e in disparte il grande Moebius.

Quali sono le storie a fumetti, oltre alle sue naturalmente, che l’hanno emozionata di più e che la emozionano tutt’oggi, quelle che porterebbe con se sempre, ovunque?
Adoro molto le storie di Topolino realizzate da Floyd Gottfredson, perché erano storie avventurose, ricche di suspence, azione e mistero. Oggi leggi Topolino e ti aspetti di trovare la battuta pronta e invece quelle storie di Gottfredson potevi leggerle con la stessa facilità di un battuta, con la stessa passione di un’avventura e con la stessa emozione di un mistero.
Poi… so di fare discorsi da vecchio, ma io rileggo spesso L’uomo Mascherato, so a memoria La regina Loana di Cino e Franco, ripeto, sono manie da vecchiotti lo so…
Poi continuamente mi rileggo Mandrake. E’ buffo che tu me lo chieda perché, proprio l’altro giorno, un ragazzo mi ha regalato Il Mostro del passo Tanov, un albo di Mandrake che a me piace tantissimo.

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La regina Loana una delle storie di Cino e Franco preferite da Sergio Bonelli.

E’ un artista che le piaceva particolarmente?
Mi piacevano molto Hogarth, Foster (anche se un po’ meno di Hogarth), poi Caniff (che rappresentò una vera rivoluzione), Raymond, ecc… E’ evidente che io sia più legato al disegno classico e realistico, meno al fumetto di tipo grottesco come il Dick Tracy di Gould. Poi mi piace tantissimo Giovanni Ticci, per citare qualcuno della mia squadra.

E qualche nuova leva? Ad esempio escono molte graphic novel. Ne legge qualcuna?
Si, le leggo, ma a dire la verità senza entusiasmo, in quanto i disegni richiedono una certa complicità a cui non sono abituato. A volte i disegni sono solo abbozzati, forse perché per gli autori è molto più importante la storia, mentre io, per motivi generazionali, sono più legato ai disegni.

Anni fa, conobbi Aurelio Galleppini (Galep) a Chiavari… Per me rimane l’unico vero erede italiano di Alex Raymond…
Eh, si! In effetti se non gli avessimo messo tanta fretta per Tex, avrebbe dato dei risultati superiori, ma alla fine non ne aveva bisogno, perché già con Occhio Cupo e ancor prima con le storie per Nerbini aveva dimostrato il suo grande talento.

Lo ricordo come una persona generosissima. Mi regalò qualche suo disegno, alcuni albi e soprattutto mi fece vedere tutti i disegni originali per le bellissime copertine di Tex
E lui conservava tutti i suoi disegni tanto che è difficilissimo vederli. Se ne trovi qualcuno in qualche fiera, vuol dire che l’hanno rubato a me, in tipografia.

Parlando sempre di Galleppini, mi divertivano molto i suoi editoriali che scriveva per gli albi di Tex. Quando avvenne la sua scomparsa, lei ricordò di quando lui, giovane, venne a Milano a lavorare per la casa editrice che al tempo era gestita da sua mamma Tea Bonelli. Lei era un ragazzo, immagino…
Beh, era circa il 1948 (anno in cui nacque Tex), io avrò avuto 16 anni e lui 26 o giù di lì…

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Aurelio Galleppini e Sergio Bonelli giovanissimi

Lei ricordava di vederlo sempre chino sul tavolo di lavoro, mentre lavorava a Occhio Cupo, che era ritenuto il personaggio di punta della casa editrice, e nel tempo rimanente a Tex. Che ricordo ha di questo grande artista che lavorava giorno e notte…?
Bisogna tenere conto che tutta quella generazione di artisti usciva da poco dalla guerra e doveva lavorare sodo per potersi comprare i generi di prima necessità, o che ne so un cappotto, una bicicletta o potersi spostare… Quindi tutta quella generazione lavorava duro e tanto.
Aurelio, da principio viveva in casa mia e quindi diventammo ottimi amici. Poi andò ad abitare con un amico di mio zio che faceva il lettering per noi. Al tempo, il lavoro del letterista era strano perché la gente non sapeva come veniva effettuato, se a mano o con i timbri, non come oggi…
Con Aurelio, spesso mangiavamo insieme, andavamo in giro insieme e lui, lavorando tanto ed essendo legato alla sua famiglia, sgobbava per portarla tutta qui dalla Sardegna…

Mi colpivano molto i modellini che lui usava costruirsi come ausilio per i disegni.
Si lui se li costruiva tutti. E costruì anche un grande plastico che rappresentava un paesaggio con i treni elettrici che lo attraversavano.

Lei per Galleppini realizzò due storie di Tex che mi colpirono particolarmente: una, El Muerto, segnò la mia adolescenza fumettistica. Ma l’altra fu davvero particolare: Il segno di Cruzado.
Quella dei ragazzi indiani…

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I quattro albi che racchiudono una delle storie più belle di Sergio Bonelli: Il segno di Cruzado.

Si! Una storia davvero forte perché, quando la leggi, non sai da che parte stare, sei diviso a metà e non riesci a prendere una posizione. Alla fine resti del tutto neutrale.
Io scrivevo nei tempi morti, quando il lavoro d’ufficio me lo permetteva. Forse per una questione d’imbarazzo, non sapevo se esaltare la conquista o la resistenza degli indiani. Però ho sempre preferito il western crepuscolare, perché già ti fa capire quali saranno i vinti e i vincitori e personalmente sono più dalla parte dei vinti, di quelli che devono sopravvivere. Mio padre (Gianluigi Bonelli), ad esempio, aveva un carattere totalmente diverso dal mio, a lui piaceva la conquista, lo affascinava che ci fosse un vincitore alla fine di ogni storia. Io invece, per diversità di carattere, sono più affascinato dalla tragedia di questo popolo che vive i suoi ultimi anni con la consapevolezza di essere destinato a scomparire.

Infatti colpisce più Il segno di Cruzado rispetto a un’altra grande storia di Tex, Sangue Navajo scritta da suo padre Gianluigi. Uno legge la storia ed è portato a stare dalla parte degli indiani, poi si vede quel gruppo d’indigeni impazzito seminare morte e dentro il lettore è come se si scatenasse una crisi di coscienza. E’ davvero un capolavoro, una delle mie storie preferite e una delle più belle di Tex in assoluto, perché ti lascia l’amaro in bocca…
Infatti! E facevo fatica (così come molti altri) a continuare Tex proprio per questo motivo.
Mio padre invece non aveva dubbi da che parte stare. A parte la bella intuizione di quando Tex sposa Lilith, la giovane indiana navajo, che rappresentò una svolta importante tanto da precedere anche un film come L’amante Indiana. Lui amava dire che erano i personaggi che agivano da soli e che gli trasmettevano le varie sensazioni da inserire nella storia.
Dal canto mio io non avevo la sicurezza di essere bravo. Lui, da grande professionista qual era, invece sì.

Parlando di Tex, l’eroe doveva inizialmente chiamarsi Tex Killer. Galleppini mi disse che fu lui a consigliare suo papà a cambiare Killer in Willer. Come andarono realmente le cose?
C’è da dire che mio padre era un sostenitore della forza fisica e della violenza. Lui amava leggere i romanzi gialli, ben prima della guerra, autori del calibro di Edgar Wallace, S. S. Van Dine, Mickey Spillane, Peter Cheyney, perché erano quei romanzi in cui era presente una certa dose di violenza. E da lì che lui prese, forse, quel linguaggio che poi usò per Tex, un linguaggio duro e asciutto tanto che il ranger non piaceva inizialmente ai ragazzini. C’è anche da dire che lui conosceva bene l’inglese, l’aveva imparato da autodidatta (aveva tradotto anche dei romanzi di Jack London) e quindi gli venne naturale chiamarlo Killer, che era una parola della quale, nel 1948, nessuno conosceva il significato. La casa editrice al tempo veniva gestita da mia madre Tea che non sapeva una parola d’inglese, come me del resto, e qualcuno, ma non si sa bene chi, le ha fatto notare il significato della parola Killer. E lei optò per cambiarlo…

E fu Galleppini a suggerire Killer?
È un mistero. Ci sono cose che si sono perse nella memoria. È come il logo di Tex. Mia madre dice che è stata lei a idearlo. Mio padre dice che è stato lui, o chi dice che è stato quell’altro… Io di certo non sono stato [ride].

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Tre, (dei trenta) degli albi tra i preferiti di Sergio Bonelli che compongono la bellissima collana Un Uomo un’avventura.

Parliamo di Un uomo un’avventura, una delle collane del fumetto italiano più belle di sempre. Penso ad albi come L’uomo di Iwo Jima di Gino D’antonio, L’uomo di Tsushima di Bonvi, L’uomo delle Filippine di Ivo Milazzo, ecc… io poi ne ho amato uno particolarmente, L’uomo di Chicago di Giancarlo Alessandrini… Qual è il suo preferito? Quello a cui è più legato?
Io sono un grande appassionato di guerre coloniali e pertanto ho amato molto L’uomo dello Zululand, che Gino D’Antonio creò su mia richiesta. Ho centinaia di libri sulle guerre coloniali e avendo questa passione mi sono piaciuti molto anche L’uomo del Nilo di Sergio Toppi, L’uomo della Legione di Dino Battaglia. D’altronde tutta la collana è stata realizzata per compiacere me, le mie tematiche preferite, come le guerre coloniali, i gangster negli anni ’30. Un uomo un’avventura è nata per puro divertimento e per lavorare con quei disegnatori con cui non potevo lavorare al tempo perché lavoravano per il mercato inglese, che pagava parcelle che io non avrei mai potuto pagare a quei tempi. Ma tramite l’agenzia di Roy D’Ami, riuscì ad avere molti di questi meravigliosi artisti che si prestarono volentieri a questo piccolo gioco. Quindi ecco il bellissimo albo che realizzò Attilio Micheluzzi, L’uomo del Tanganika, poi a Hugo Pratt, sapendo della sua passione per i cangaceiros gli proposi una storia simile e nacque L’uomo della Somalia. Poi realizzò anche L’uomo del Grande Nord e L’uomo dei Caraibi. Anni dopo, per farmi dispetto, realizzò Cato Zulù per la Rizzoli. Era da tempo che gli chiedevo una storia simile. Ma a lui piaceva parecchio scherzare con me, stuzzicarmi. Spesso veniva in redazione, andavamo al cinema, passavamo intere serate a parlare di viaggi, lui era molto più esperto delle isole del pacifico, mentre io ero più per l’Africa e l’Amazzonia.

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Sergio Bonelli e Hugo Pratt.

L’ultimo film per cui ha provato una grande emozione?
Ultimamente vado poco al cinema, perché i film che fanno ora non mi entusiasmano. Giudico un film che mi piace, in base a quante volte lo rivedo in un anno. Amo i film di guerra, quindi conosco a memoria Orizzonti di Gloria di Kubrick, poi tra i western amo Nessuna pietà per Ulzana di Robert Aldrich e La notte dell’agguato di Robert Mulligan.

E il suo western preferito? Il mio (che poi è anche in assoluto il mio film preferito) è Un dollaro d’onore di Howard Hawks.
Invece a me non piace tanto, perché non amo l’ambientazione urbana e preferisco i grandi spazi e credo si capisca dai fumetti che facciamo. Infatti non credo di aver mai scritto delle storie d’ambientazione urbana e di questo molti disegnatori che hanno lavorato con me mi hanno ringraziato.

E L’uomo che uccise Liberty Valance di John Ford? Questo meraviglioso triangolo d’amore…
Beh, quello sì, quando mi capita lo rivedo volentieri, ma ti dirò che non sono mai stato un grande ammiratore di Ford (al contrario di mio padre che era un fordiano convinto), a eccezione di Sentieri selvaggi, perché in quel film c’è proprio il senso dello spazio, del cambiamento delle stagioni. È un film davvero bello.

E tra gli ultimi western? Penso a un film bellissimo di e con Kevin Costner, Terra di confine.
Quello m’è piaciuto molto. Soprattutto la sparatoria finale, molto veritiera, infatti fa vedere come si sparavano a distanza ravvicinata senza centrare il bersaglio, cosa che avveniva nei vecchi film.

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La notte dell’agguato e Nessuna pietà per Ulzana, due tra i film western prediletti da Sergio Bonelli.

Torniamo ai fumetti. Ci sono artisti bonelliani come Galep, Giovanni Ticci, Roberto Diso che godono di giusta fama. Altri che rischiano di cadere nel dimenticatoio. Penso a un artista che io amavo moltissimo, e che ha lavorato quasi esclusivamente per lei: Vincenzo Monti.
Certo. C’è da dire che Vincenzo era un uomo modestissimo. Lavorava in una tipografia e faceva dei lavori davvero pesanti tanto che, quando mi presentò i suoi primi disegni e ti parlo di tantissimi anni fa (non eravamo nemmeno in questa sede), io temevo che non avrebbe mai imparato, proprio perché quel tipo di lavoro implicava un massiccio uso delle mani. Io lo incoraggiai molto e lo diedi in prestito a un mio amico editore, Renzo Barbieri, che si occupava di pubblicazioni erotiche. Lui, nel frattempo, continuava a farmi vedere i suoi disegni e col passare del tempo migliorò parecchio soprattutto quando prese a modello Ticci. Credo che per lui fu la giusta strada da seguire per arrivare a un suo stile.

In effetti era considerato un ticciano ma in realtà io trovavo il suo tratto molto personale. Non aveva il senso dell’azione e la tridimensionalità di Ticci, ma aveva un bel bianco e nero e le sue cover della collana Tutto West erano bellissime.
Si è vero, tanto che giorni fa sfogliavo uno degli albi che usciva con repubblica e facevo notare ai miei collaboratori come il suo tratto, con quel bianco e nero netto, ben si sposava con il colore.

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Una bellissima illustrazione di Vincenzo Monti, artista tra i più bravi e sottovalutati della “scuderia” Bonelli.

Un artista davvero sottovalutato.
Ieri è morto Frank Frazetta e nessuno qui sa chi sia e parliamo di un gigante dell’illustrazione. Gino D’Antonio è morto da tre anni e nessuno se ne ricorda più. La nostra categoria non lascia impronte così pesanti da essere ricordati.

E’ vero! Pensiamo a che gran genio era Roy D’Ami.
Lui, avendo fatto la guerra, volontario inAfrica, finì prigioniero degli inglesi ed ebbe la fortuna (nella sfortuna) di leggere e guardare tutti quei comics d’oltreoceano (probabilmente passati da qualche sorvegliante inglese). Infatti D’ami disegnava all’americana perché già conosceva Milton Caniff mentre noi non sapevamo neanche chi fosse. Aveva poi, a differenza di Caniff, uno spiccato senso dell’umorismo che riversava nei suoi disegni.

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Sergio Bonelli in viaggio nel Sud America.

In una comic convention a Milano, definì la collana Storia del West di Gino D’Antonio una delle serie più belle da lei pubblicate.
Non ho dubbi su questo.

E’ una serie che amo molto anch’io. Poi D’Antonio aveva questa capacità di mischiare realtà e finzione.
Ho sempre ammirato e invidiato questa sua grande capacità. Poi aveva un equilibrio davvero invidiabile. Mentre, parlando sempre di storia del west, quando Rino Albertarelli disegnò, su mia richiesta, delle monografie sugli eroi del west (I Protagonisti), ottenne più un risultato scolastico che al lungo tempo un po’ stufava.

Com’è la sua giornata lavorativa? È cambiata nel tempo?
Inevitabilmente è cambiata con l’età. Sembra incredibile ma dieci anni fa non ero così immerso nel lavoro come oggi. Prima uscivo tutte le sere a cena, mentre ora al cinema preferisco andarci di pomeriggio perché la sera preferisco stare con gli amici. Poi la mia giornata, da mezzogiorno alle tre, era spezzata dal fatto che ero iscritto a un circolo in cui giocavo a tennis, cosa che oggi non faccio più perché rimango spesso in redazione.Vado a colazione con dei ragazzi qui dentro, spesso vengono alcuni nostri disegnatori per parlare un po’ di lavoro o per fare quattro chiacchiere. Non vengo mai presto in ufficio la mattina, ma sono sempre uno degli ultimi ad andarmene, poi questo ufficio è organizzato un po’ come se fosse una seconda casa.

Che musica ascolta?
Ascolto molto jazz, principalmente. Poi ascolto molta musica brasiliana e anche la nostra musica degli anni ’70 e ’80. Sono scarso in musica classica, non ho mai avuto il coraggio di affrontarla per bene, anche se ho delle opere di Puccini o di Verdi, quattro o cinque in tutto, a cui non rinuncerei mai.

Torniamo ancora ai fumetti. C’è un artista che le sarebbe piaciuto avere nella sua scuderia, anche come semplice guest star, tipo nel TEXONE annuale?
Più di uno. Quando mi sono ripromesso di proporre ai lettori i migliori artisti internazionali, spesso da quest’ultimi ho avuto risposte negative. Per esempio quando ho avuto la possibilità di lavorare con Ortiz, non l’ho avuto nel momento magico, quando avrei voluto ma solo più tardi. Ho dei rimpianti di non aver lavorato con Moebius, lui era molto gentile e mi rispondeva sempre di no, accompagnato da un bel sorriso.

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Tre stelle del fumetto mondiale. Da sinistra: Alberto Breccia, Guido Crepax e Sergio Bonelli.

E Alberto Breccia?
Con Breccia ci stimavamo molto, ma solo oggi forse, potrei proporre uno stile come quello di Alberto, inquietante, particolare. Forse avrei potuto lavorare con il figlio Enrique che già aveva un tratto più vicino al nostro modo di fare fumetti. Poi anche quel belga bravissimo, Hermann. Abbiamo mangiato non so quante volte insieme ma la sua risposta a una mia proposta di collaborazione è sempre stata negativa.

C’è qualcosa che si è pentito di aver pubblicato?
Beh, onestamente ci sono quattro o cinque cose che avrei potuto risparmiare ai miei lettori. Ma alla fine è talmente difficile dire di no all’entusiasmo di uno che ti propone una sua creazione. In questo sono molto sensibile. Poi in fondo sono sempre curioso e anche da un’esperienza economicamente negativa si può sempre imparare.

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Demian e Volto Nascosto, tra le ultime mini serie preferite da Bonelli.

Siamo alla fine della conversazione. Lei è ancora al timone di questa grande azienda, non la gestisce come una multinazionale, lei ha cura dei suoi dipendenti. Intendiamoci, la Sergio Bonelli Editore è un’azienda che fa degli albi affinché vi siano dei buoni introiti ma fa anche delle mini serie che comunque non credo diano soddisfazioni economiche come Tex o Dylan Dog. Cosa la spinge a provare queste nuove soluzioni?
La curiosità. Sono curioso di mettermi alla prova per vedere se vivendo in questo tempo io riesco ancora a capire la gente che mi circonda. Mi sento molto coinvolto sempre in prima persona. Da qui non esce una pagina che io non abbia visionato almeno tre volte. Non saprei fare diversamente. Voglio essere in grado di difendere quello che faccio e di difendere chi lavora con me. Se di un mio albo si parla male, voglio poter capire se offendermi e intervenire. Le giornate passano talmente veloci e quello che la gente ancora non ha capito è quanto sia difficile fare i fumetti. Quindi uno dei miei punti d’onore è quello di far capire che un disegnatore ci mette 2 giorni a fare una pagina.

Delle ultime sue miniserie, quale l’ha emozionata di più? Quale aveva dei temi a lei molto cari?
Mi è piaciuto molto quella sull’Africa, Volto Nascosto. Sia per l’argomento, di cui nessuno sa niente e poi perché mi piace tantissimo dal punto di vista paesaggistico e dei costumi. Poi, come ti ho detto, sono un appassionato di guerre dell’800 coloniali. Mi è piaciuto all’inizio Demian, perché vi ho ritrovato quell’atmosfera marsigliese degli anni 50 tipica dei film con Jean Gabin, insomma di quando andavo molto al cinema.

Grazie.

Alla fine dell’intervista, Sergio Bonelli mi guida in un piccolo giro nella sua casa editrice per farmi vedere tutti i disegni originali della sua collezione. Sul muro della redazione, vi sono tavole originali della Golden age americana di artisti del calibro di Caniff, Raymond, Gould, Al Capp, ecc.. nonché molte meraviglie del fumetto italiano.

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Papà Gianluigi, la mamma Tea e il loro figlio Sergio ritratti da Fernando Tacconi.

Intervista condotta di persona a Maggio del 2010.

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