Daniele Manusia è nato nel 1981 a Roma dove vive e lavora. Ha collaborato con GQ, Nuovi Argomenti, minimaetmoralia, Orwell e Rivista Studio. Per VICE ha curato la rubrica Stili di Gioco e ha scritto il libro Cantona. Come è diventato leggenda (Add, 2013). Ha fondato la rivista online di sport e cultura pop Ultimo Uomo, di cui è direttore insieme a Emanuele Atturo.
Manusia è anche un conduttore di podcast di critica e approfondimento calcistico come La Riserva (insieme a Simone Conte e a Emanuele Atturo) e Lobanovski (insieme a Daniele Morrone), entrambi ospitati insieme ad altri podcast sulla piattaforma Fenomeno.eu, anch’essa creata dal giornalista romano.
Proprio in una puntata de La Riserva (la #99), Manusia ha parlato della sua passione e conoscenza del fumetto e, per tale motivo – da fedeli lettori de l’Ultimo Uomo – abbiamo deciso di invitarlo per una chiacchierata.
Ciao Daniele e benvenuto su Lo Spazio Bianco.
Come e quando è avvenuto il tuo incontro con il fumetto? Qual è stato il tuo percorso attraverso questo medium?
Mio padre era un grande appassionato di Tex, leggeva ogni tanto anche Diabolik e mi ha regalato lui L’Eternauta. Quindi non ha avuto problemi, quando da ragazzo mi sono avvicinato ai fumetti Marvel. Ero un grande appassionato degli X-Men. Ricordo che uscivano sempre lo stesso giorno della settimana – forse il mercoledì – ma io andavo all’edicola di via Nomentana già la sera prima, a vedere se per caso l’albo fosse già arrivato. A volte era così, altre volte gli chiedevo di aprire i pacchi per cercare la mia copia la mattina prima di andare a scuola, poi la leggevo sull’autobus e camminando.
A Roma al tempo c’erano poche fumetterie – io ne frequentavo una in viale Ippocrate – e, ogni sabato, era un piccolo viaggio coi mezzi pubblici per raggiungerla. Finita la fissa per gli X-Men, sono passato attraverso Sandman, Jiro Tanigouchi e poi per l’epoca d’oro del fumetto americano e canadese di fine secolo scorso, da cui sono risalito, andando all’indietro, ai fumetti classici (Will Eisner per capirci) e underground statunitensi (Robert Crumb). Per qualche ragione, nessuno mi ha fatto entrare in contatto con il fumetto underground italiano da ragazzo, quindi sono arrivato tardi a Stefano Tamburini e Andrea Pazienza ed è un peccato: gli anni della mia post-adolescenza avrebbero avuto tutto un altro significato.
Quali sono le tue attuali letture a fumetti? Segui ancora il fumetto seriale?
Di seriale non leggo ormai più niente e, sinceramente, sono anche poco informato. Ogni tanto ho preso un numero a caso di qualche testata, ma mi perdo subito. Anzi se avete qualche bel titolo da consigliarmi… (data la passione di Daniele per gli X-Men, il nostro consiglio è quello di ricominciare a seguire la pubblicazione italiana che ospita i mutanti Marvel, dato che a novembre partirà la saga di Jonathan Hickman che ha completamente ridefinito l’universo mutante, rilanciandolo e rinnovandolo completamente – N.d.R.)
Non mi perdo niente di autori come Chris Ware, Charles Burns, Daniel Clowes e Chester Brown. Sono andato in fissa con Here di Richard McGuire quando è uscito, e più rcentemente con My Favourite Thing Is Monsters di Emil Ferris. Ho acquistato l’integrale di NERO del Dottor Pira e seguo tutto quello che pubblica la Coconino. Adesso sto leggendo Sniff: insomma penso di essere un lettore di fumetti piuttosto semplice e forse anche banale.
Perché credi che in Italia non ci sia mai stato (a parte piccoli esempi minori e di breve durata) un fumetto che parlasse di calcio? Come te lo spieghi? Forse perché siamo una “nazione di commissari tecnici”?
Non lo so, il calcio è difficile da raccontare con le immagini, in generale. Anche al cinema gli esempi di film riusciti sono pochissimi (mi viene in mente Zidane, un ritratto del XXI secolo che però è praticamente un film d’arte). In letteratura forse è diverso perché non competi con lo spettacolo visivo che offre il calcio di suo: in un certo senso, ogni libro di calcio riuscito è un libro che non parla di calcio, ma che usa il calcio per parlare d’altro.
Seppur, come detto, la produzione a fumetti italiana con soggetto il calcio sia molto risicata, c’è un autore come Paolo Castaldi che ha dedicato suoi libri rispettivamente a Maradona e a Ibrahimovic. Due storie molto particolari, che appunto, partendo dal calcio, raccontano la società e il mondo. Li hai letti? Come li hai trovati?
Ho letto quello su Ibra – Zlatan – e conferma l’idea che è interessante quando con il calcio si prova a parlare d’altro. La storia di Ibrahimovic si presta a letture molto diverse, quella di Castaldi è piuttosto tradizionale e in linea con l’auto-narrazione stessa del giocatore svedese che forse per me era già troppo conosciuta. Comunque non è una lettura solo sportiva e le tavole in cui lui visita il quartiere in cui ha vissuto il giovane Ibrahimovic sono molto vive. Un’operazione di questo tipo si può fare davvero con qualsiasi calciatore, o più in generale, con qualsiasi storia di calcio. Basta pensare a quello che ha fatto David Peace in letteratura per capire le potenzialità infinite di questo sport come sottogenere. Nel fumetto in particolare, esulando un momento dal calcio, mi viene in mente Andre The Giant di Box Brown [link] come esempio di una storia di sport che va oltre il racconto delle vicende sportive nel dettaglio, senza diventare retorico.
Nella produzione giapponese, Oltre a Holly e Benji/Capitan Tsubasa ci sono stati altri manga/anime a tema calcistico: ne hai uno preferito e perché?
In realtà Holly e Benji l’ho guardato solo in tv e con un certo distacco. Non lo so, forse perché già non reggeva il confronto con la complessità del calcio giocato al parco, a scuola o con la squadra.
Se dovessi scegliere un disegnatore per mettere in fumetto un’azione da gol o un gesto tecnico, a chi penseresti?
Per forza di cose devo dire Jack Kirby. Anche se forse preferirei vedere una squadra di mostri di Charles Burns o una partita giocata di notte in un salotto pieno di robaccia come quelli disegnati di Julie Doucet.
L’Ultimo Uomo, il sito che hai creato e di cui sei tutt’ora direttore, si caratterizza per un approccio particolare al calcio e allo sport in generale, un giornalismo che punta sull’approfondimento legato a una ricerca della narrazione e anche della narratività, elemento fondante degli articoli. Un’identità che si ritrova anche in alcuni dei podcast della piattaforma Fenomeno quali Lobanovsky e Trame. Da dove nasce la scelta di questo approccio, molto letteraria (e, perché no, anche un po’ fumettistica) rispetto al modo in cui viene vissuto lo sport, in primis il calcio, nel nostro Paese?
Come dico sempre, l’Ultimo Uomo è diventato quello che è nel tempo (sei anni) grazie all’influenza di molte persone (a cominciare da Timothy Small, che ha avuto l’idea originaria e che oggi dirige Esquire, finendo con quella delle persone con cui lavoro ogni giorno: Emanuele Atturo, Dario Saltari, Marco D’Ottavi, Daniele Morrone, Federico Aqué, e la lista potrebbe allungarsi). Diciamo che la cosa che ci accomuna è che nessuno di noi viene da esperienze tradizionali in scuole di giornalismo o redazioni: ci siamo inventati un metodo nostro e prima di fare qualcosa dobbiamo sempre chiederci “OK, è proprio questo che vogliamo fare? C’è un altro modo in cui preferiremmo farlo?”. Per ispirarci guardiamo a modelli molto diversi tra loro, ad altri ambiti e media, anche al fumetto. Avevo avuto un’idea, per l’ultimo anno di attività di Francesco Totti, una striscia settimanale di avventure di un personaggio di fantasia chiamato Totti, un’idea insomma legata allo stile di un autore specifico che mi piace molto ma che non nomino per pudore (non ho avuto neanche il coraggio di proporgliela). Mi fa piacere che troviate il nostro approccio “fumettistico”, anche se non so bene a cosa vi riferiate.
Ci riferiamo al fatto che anche il fumetto è narrazione (sequenziale, con fusione di parole e immagini), prova a raccontare storie, esattamente come fate sul vostro sito in ogni articolo, tralasciando la cronaca di un evento sportivo e concentrandosi su personaggi e significati.
Proprio il fumetto è un medium che può rivelarsi particolarmente adatto alle biografie in ambito sportivo (ultimamente ne abbiamo recensito una particolarmente evocativa su Michael Jordan). Riesci a immaginare il libro che hai scritto su Eric Cantona, ricco di aneddoti e curiosità sul campione francese, illustrato da qualche autore?
Forse Cantona si presterebbe davvero alla grande a vivere in un fumetto, più che altro per la grandeur che riusciva ad avere – a volte assolutamente senza motivo – in situazioni molto diverse tra loro. Penso a come sarebbe divertente vedere disegnata la scena tra Cantona e Mickey Rourke che parlano in un locale a Parigi e con il primo che dice, in inglese, all’attore che vuole studiare teatro e che nel mondo del calcio sono tutti corrotti. Mi viene in mente lo stile del fumetto francese I segreti del Quai D’Orsay (disegnato da Christophe Blain su testi di Abel Lanzac ed edito in Italia da Coconino Press, N.d.R.).
Restiamo su fumetto e letteratura. Sappiamo che ti appassionano entrambi, ci piacerebbe un approfondimento sullo scambio che hai avuto con Simone Conte e Emanuele Atturo durante una puntata de La Riserva. Che dignità ha il fumetto? Che cosa rispondi a chi ne parla sempre con tono canzonatorio (vedi le recenti dichiarazioni di politici e giornalisti su Topolino, per esempio)?
Non ricordo bene cosa ho detto in quella puntata e premetto che mi contraddico spesso. Anzi magari mi contraddirò proprio per via di quello che ci siamo detti quella volta, perché poi io vado via ma continuo a pensare alle cose che ci siamo detti con Emanuele e Simone. In quel caso se non sbaglio parlavamo proprio della polemica cinematografica o forse del Leone d’Oro al Joker. In ogni caso, io sul fumetto trasportato al cinema sono più dubbioso. Per dire, non ho visto neanche tutti i film degli X-Men, e chissà se mi sarebbero piaciuti se fossero usciti quando ero ragazzo, o se invece mi avrebbero allontanato dai fumetti. Sinceramente penso che ai film che nascono dai fumetti manchi tutta la dimensione riflessiva e psicologica del medium originario (parlo soprattutto dei cinecomics Marvel e DC, non ho visto 5 è il numero perfetto di Igort, né Joker). La cosa bella delle pagine è che non si girano da sole, posso restare a guardare una tavola quanto tempo mi pare.
Il discorso sul fumetto come forma d’arte è diverso, dopo quella puntata ricordo che molti ascoltatori ci avevano scritto di fumetti che gli avevano cambiato la vita e che per loro equivalevano a opere in prosa di Lev Tolstoj. Evitando paragoni tra medium diversi, anche io ho in mente alcuni fumetti che hanno toccato corde profondissime o che hanno cambiato il mio modo di vedere il mondo. Penso ad esempio che Chris Ware abbia avuto un’influenza sulla mia visione pari (anche se, per certi versi, opposta) a quella di Cy Twombly (pittore statunitense, N.d.R.). Io ho studiato arte e questa continua ad avere una grande importanza per me. Il fumetto per me è un ibrido che prende un po’ dall’arte, un po’ dalla letteratura, un po’ da se stesso, dai suoi codici e dalla sua storia che ormai è piuttosto grande.
Chi canzona Topolino è rimasto fuori dal tempo. Insomma, non devo essere io a dire che non esiste più divisione tra cultura alta e bassa e che se si vuole capire la contemporaneità bisogna partire proprio dai prodotti culturali popolari. Non per niente sono tutti personaggi ignoranti quelli che hanno rilasciato quelle dichiarazioni, secondo me neanche ci pensano a quello che dicono, non si rendono conto. Che poi non serve neanche arrivare a parlare dell’importanza che hanno ancora oggi prodotti come Ranxerox, basta guardare quanto del mainstream più ricco e di successo viene dal mondo del fumetto. Non puoi canzonare Topolino e al tempo stesso rispettare Avengers: Endgame solo perché è il film che ha più incassato della storia.
Va detto anche che un certo complesso di inferiorità persiste in quel mondo che definirei ex-nerd.
Ma non sarei sicuro di aver risposto completamente alla domanda se non aggiungessi che quando io leggevo, da ragazzo, non è che venissi molto capito, a parte da mio padre. Anche tra i miei amici erano in pochissimi a condividere le mie fisse e penso di aver imparato in quegli anni a fregarmene del giudizio degli altri. Proprio per questo però non capisco il bisogno di convincere tutti. Non ho mai chiesto il permesso a nessuno per leggere fumetti e se per questo non sono maturo secondo qualcuno, va bene così. Io sono contento di avere la casa piena di fumetti, così come di libri, e non vedo l’ora che mia figlia inizi a tirarli fuori e leggerli.
Facciamo un parallelo tra fumetti e sport. Tutti noi abbiamo dei calciatori (o giocatori di altri sport) preferiti, ai quali ci affezioniamo istintivamente, quasi senza motivo. Cosa che non esclude l’ammirazione verso i grandissimi. Per esempio, c’è chi ha adorato Gustavo Poyet nella Premier o Scot Pollard nella NBA. Per similitudine, c’è qualche fumetto che ami particolarmente, ma che non è così celebrato come i “soliti” nomi?
Sì, ognuno crea dei legami affettivi privilegiati con autori che magari ad altri sembrano banali, ma con i calciatori è una pratica meno accettata se parli a un pubblico più grande della tua cerchia di amici. In questo forse il calcio dovrebbe imparare dal mondo delle arti, anche lì è una questione di gusti e sfumature. Con i fumetti per me molto è dipeso dal periodo in cui sono entrato in contatto con un particolare prodotto artistico. Su di me hanno avuto un grande impatto alcune pagine di Harvey Peaker (The Quitter), che forse non è conosciutissimo, non Italia almeno. O anche Julie Doucet che ha smesso di disegnare e non la conoscono in molti ma per me è una delle migliori autrici in assoluto.
Ci hai raccontato della tua passione per autori di fumetti statunitensi – come Adrian Tomine e Chris Ware – che fanno parte di una certa scena lontana dal fumetto di massa più conosciuto che arriva dagli USA come quello supereroico. Come li hai scoperti e che cosa ti affascina del loro lavoro?
Non ricordo da dove ho iniziato, me ne deve aver parlato un amico. Una volta capito che, dietro un singolo autore c’era un mondo intero, poi ho voluto completarlo. Più o meno, faccio così per tutto quello che mi piace, sono piuttosto ossessivo quando mi ci metto. Del filone Ware, Tomine, Clowes mi interessa come stanno evolvendo la forma-racconto. Non so perché ma sono sempre stato attirato dai racconti. Al liceo ho letto tutto Cechov in un’edizione Garzanti vecchia che avevamo in casa, poi, quando avevo diciotto anni, Minimum Fax ha pubblicato Raymond Carver che mi ha aperto la porta del minimalismo. Quasi tutti gli scrittori che preferisco scrivono racconti, anche se atipici (Lydia Davis, David Means, Nana Kwame Adjei-Brenyah che ha scritto il mio libro preferito del 2019, Friday Black). Se dovessi scegliere i miei dieci racconti preferiti penso che l’ultimo di Killing and Dying di Tomine ci finirebbe, e almeno un volume della serie Acme Novelty di Ware. Non è per forza il minimalismo che mi interessa o la brevità che mi interessa – Tomine ad esempio si è allontanato dal realismo anoressico dei primi lavori e gioca di più con gli stili e i codici – ma la profondità a cui riescono ad arrivare con le parole e le immagini. Certo mi piacciono anche gli autori che creano e ricreano mondi e atmosfere (Gipi ad esempio, o Paesaggio Dopo La Battaglia di Lambé, o Brecht Evans), che raccontano grandi storie, più da romanzo (Will Eisner, Alan Moore). Ma continuo a preferire quando al centro c’è la psicologia dei personaggi, i conflitti etici ed emotivi.
Hai raccontato che tua moglie fa parte del mondo delle autoproduzioni e del fumetto underground, una scena che attraverso di lei hai scoperto anche tu: che cosa ti affascina di quella realtà? Quali sono gli autori che segui?
Mia moglie è un’illustratrice, Emma Verdet, che con alcuni amici e colleghi creò qualche anno fa una rivista a fumetti annuale e antologica, che si chiamava Crisma, in cui hanno pubblicato anche autori piuttosto conosciuti. Lei ovviamente mi aggiorna e mi fa scoprire moltissime cose: quando viaggiamo ed entriamo in fumetterie straniere lei va subito nel reparto delle fanzine autoprodotte, io guardo il tavolo delle novità. E devo dire che è un peccato che in Italia siano poco, o forse male, diffuse. O magari è colpa mia, che a parte l’immersione annuale al Forte Prenestino nel periodo di Crack! non mi interesso. Ho saputo che sta aprendo una libreria di fumetti indipendente proprio nel mio quartiere, chissà… Per rispondere alla prima domanda: quello che mi affascina è il fatto che non ci sia mediazione tra chi fa e chi legge. Quindi la libertà, ma anche l’amatorialità. Anzi, a me non piace l’estetica del prodotto perfetto e nei fumetti e nelle fanzine mi piace anche quando si spinge sull’imperfezione, sulla deperebilità del materiale, sul linguaggio involuto e frammentario. Dall’autoproduzione poi vengono molti autori di qualità (Tomine, tanto per fare sempre gli stessi nomi), quindi c’è anche la sensazione di scoperta, il pensiero che chissà, magari sei capitato su un grande autore ai primi passi.
Chiudiamo con una domanda secca: nomina un giocatore, una partita di calcio e un fumetto che ti hanno emozionato e di cui conservi un vivido ricordo nella tua memoria.
Daniele De Rossi, Italia-Francia del Mondiale 2006, My New York Diary (Julie Doucet).
Grazie infinite, Daniele.
Intervista realizzata via mail nel mese di ottobre 2019