Gianluca Morozzi, classe 1971, è un autore e sceneggiatore bolognese. Come i grandi scrittori che si rispettino, ha abbandonato gli studi in Giurisprudenza per il più esaltante mestiere di scrivere. Il suo primo libro, Despero, è del 2001 pubblicato da Fernandel. Il successo di vendite arriva tre anni più tardi, con Blackout (Guanda), da cui nel 2007 è stato tratto un film per la regia di Rigoberto Castaneda. Da allora non ha mai smesso di scrivere e oggi ha all’attivo una cinquantina di pubblicazioni come romanziere (thriller/noir in particolare, ma anche supereroistico), sceneggiatore di fumetti (Pandemonio, FactorY e Il Vangelo del coyote) e curatore di saggi (soprattutto antologie di racconti di autori esordienti e volumi legati al mondo della musica). Suona la chitarra nei Street Legal, una tribute band dedicata a Bob Dylan. Ogni domenica è allo stadio per tifare il rossoblu del cuore, il Bologna.
Dopo dieci anni torna alle stampe, in una versione a colori, Il vangelo del coyote. Le due storie che compongono il volume “Skoda e Liù” e “Il professore”, disegnate rispettivamente da Giuseppe Camuncoli e Michele Petrucci, ossessive e violente, hanno ancora oggi la carica per far presa sul lettore. Abbiamo intervistato lo scrittore e sceneggiatore Gianluca Morozzi allora, e oggi c’è ancora qualcosa che vogliamo sapere…
Ciao Gianluca. Per iniziare, da dove nasce l’idea per Il vangelo del coyote?
In parte da un racconto che avevo pubblicato anni fa sull’antologia ParmaNoir vol.II, per la storyline del Professore, e in parte da una casa diroccata che ho visto dalle parti di Scandellara Rock, a Bologna, che mi ha dato delle suggestioni per la location delle torture di Skoda e Liù…
Parliamo del nome del fumetto. Il vangelo del coyote è un omaggio all’Animal Man di Grant Morrison? In che misura?
Dunque: io sono un morrisoniano di ferro, e se mi chiedi qual è la mia run di Batman preferita di dico la sua e non quella di Miller, per dire. Ricordo benissimo quanto mi sconvolse quella storia ai tempi di American Heroes, e quanto mi sconvolse tutto Animan in generale. L’omaggio è riferito al rapporto tra le due storyline, quella delle due ragazze e quella del Professore, che diventa chiaro solo nelle ultime pagine. Come c’erano i due universi in quella storia, quello da cui proveniva Crafty, dominato dalla fisica dei cartoni animati, e quello in cui un camion che ti investe ti sprofonda in un oceano di dolore.
Com’é maturata la collaborazione con Camuncoli e Petrucci?
Beh, una volta approvato da Guanda il progetto del Vangelo (senza che esistesse un soggetto, né una mezza idea) mi sono messo a cercare un disegnatore. Per un caso cosmico, il bassista della tribute band di cui sopra nonché critico letterario Alberto Sebastiani conosce molto bene Giuseppe Camuncoli e ci ha messi in contatto. Ci siamo trovati davanti a una birra vicino piazza Verdi e, forse influenzato dalle varie qualità di fumo provenienti da piazza Verdi, Cammo ha accettato di lavorare con me… precisando pero’ di poter realizzare non più di quaranta tavole, dati i suoi impegni. Siccome una graphic novel di 40 pagine ci sembrava, come dire, un po’ cortina, allora ha suggerito di coinvolgere Michele Petrucci. Ed è nata l’idea delle due storyline parallele…
Come si è sviluppato il lavoro tra voi? Fornivi una sceneggiatura dettagliata o una traccia più generica?
Abbastanza dettagliata, nel senso: tavola per tavola, vignetta per vignetta. Poi, se era fondamentale scrivere: “Skoda è girata di tre quarti mentre dietro la sua spalla spunta una mano di Liù parzialmente in ombra”, lo scrivevo; se invece la vignetta era: “I due personaggi parlano”, lasciavo liberi Cammo e Michele di inventarsi l’inquadratura e tutto quello che volevano.
Il vangelo del coyote è una storia nerissima di adolescenza “cannibale”. Ti riconosci in questo filone narrativo?
Quando è esploso il pulp e il fenomeno dei Cannibali io l’ho abbastanza divorato. Poi sono passato ad altro, ma tutto quel che ho letto o visto rimane lì, da qualche parte, ad aspettare di trasformarsi in una storia. Come è successo con Skoda e Liù.
Ciò che apprezzo di più nella tua scrittura, e che è presente anche qui, è la capacità di tenere il lettore letteralmente inchiodato alla pagina (mi è capitato spesso con i tuoi thriller, di passare la notte insonne e non chiuderli fino all’ultima pagina). La tensione nella tua scrittura è un dono naturale o una ricerca certosina di meccanismi narrativi?
Io ragiono molto da lettore, quando scrivo. Se una cosa diverte me, penso, divertirà anche il lettore… idem per quanto riguarda il filone drammatico. E poi ho imparato a scrivere cercando di copiare i miei maestri (per primo Stephen King), qualcosa alla fine ho assorbito.
Le due storie che si alternano ne Il vangelo del coyote hanno ritmo e atmosfere diverse. Quanto hanno influito i disegnatori in questo?
Eh, molto. Petrucci e Camuncoli sono due disegnatori dal tratto molto diverso. L’idea iniziale era separare i vari capitoli con delle pagine di intermezzo, ma vista la differenza di segno non c’é stato neppure bisogno di specificare: “Questa è la storyline di Skoda e Liù, questa è quella del Professore“. Si capiva… al di là dei bordi bianchi e dei bordi neri. In generale, la storyline di Cammo è più mossa e dialogata, quella di Michele è più ossessiva e monologante.
Inizialmente era previsto che Skoda e Liù fossero ragazzi. A cosa è dovuta la scelta di cambiare il sesso dei due personaggi? Contavate di ottenere un effetto più crudo e straniante nel lettore mettendo delle ragazze come carnefici?
Intanto è dovuta al caso, ai miei ottocentocinquanta difetti di pronuncia, alla conclamata sordità di Camuncoli e al vino dell’osteria da Vito, a Bologna, dove si è svolta la prima riunione creativa per il Vangelo. Io stavo proponendo le mie idee, stavo dicendo “…e in questa storyline ci saranno due ragazzi che faranno questo e quest’altro“. Cammo ha capito male, ha detto: “Due ragazze che faranno cosa?“. Stavo per correggerlo, quando ho pensato che sarebbe stato molto, ma molto più bello usare due ragazze. E così sono nate le simpatiche Skoda e Liù.
Hai una particolare predilezione per le ragazze con i capelli dai colori punk? Se ne incontrano parecchie nelle tue storie…
Mi piacciono le ragazze con i capelli di qualunque colore, nella vita. Nei romanzi, una ragazza dai capelli blu o rosa o così biondi da sembrare quasi bianchi (questa non è mia, è di Scerbanenco) crea un impatto visivo sul lettore, che la visualizza subito.
Dopo l’edizione 2007 da Guanda esce a dieci anni di distanza la ristampa Mondadori Oscar Ink. La nuova veste grafica a colori è una scelta di voi autori?
L’idea era di rieditare semplicemente un libro di dieci anni prima, ma di farlo rinascere a nuova veste, come formato, come copertina, come colorazione, il tutto in pieno accordo con i curatori di Mondadori Ink. In più, ho sfruttato quello che sembrava un problema per dare un ulteriore tocco migliorativo: dopo dieci anni avevo perso il file definitivo dei testi, per cui ho dovuto praticamente recuperarli baloon dopo baloon, in parte con un file iniziale e in parte con l’edizione Guanda aperta davanti… e a quel punto ne ho approfittato per ritoccare quelle parti, asciugare frasi, togliere ripetizioni. E per cambiare una didascalia fondamentale per capire meglio il finale.
Come avete realizzato la colorazione del volume? È opera degli autori o sono intervenuti altri professionisti?
La parte di Giuseppe Camuncoli è stata colorata da Lorenzo Fornaciari, che ha fatto un lavoro straordinario. Petrucci invece si è colorato da solo, usando la tricromia (nero, azzurro e giallo) per rendere le ombre, non solo quelle fisiche, ma anche quelle interiori dei protagonisti.
Pandemonio, Il vangelo del coyote. Come ti hanno arricchito queste esperienze?
Enormemente. Anche perché ho lavorato in modo molto diverso… A Squaz, che non ama essere ingabbiato in sceneggiature rigide, ho fornito un canovaccio di venti pagine con soggetto e dialoghi… e ho guardato ammirato quel che ne tirava fuori. Sul Vangelo, come ho detto, ho lavorato in altro modo. Sono tutti arricchimenti preziosi…
Alcuni fra i tuoi più famosi romanzi sono incentrati su un mondo supereroistico (Colui che gli dei vogliono distruggere, per esempio, ma anche la tua ultima fatica Onda sonica di tragicomiche avventure). Che rapporto hai con i fumetti? Quali leggi e ami di più?
Il mio rapporto con i fumetti ormai è di convivenza difficile, nel senso che ne ho così tanti che mi stanno sfrattando. Ne leggo tanti, da Andrea Pazienza a Love & Rockets, da Scalped a qualunque cosa esca di Batman, ma se devo dirti le tre serie o run che ho amato di più: Hitman di Garth Ennis, Hulk di Peter David, Rat-Man di Ortolani.
Nei tuoi romanzi utilizzi uno stile molto diretto e asciutto. Il tuo amore per i comics ha influenzato il tuo modo di scrivere?
Tutto quel che ho letto e assorbito negli anni ha influenzato il mio modo di scrivere… perché in certi romanzi uso uno stile “stephenkinghiano” e in altri uno molto più circolare e avvolgente che ho appreso da Paolo Nori, per esempio. Leggere fumetti mi è servito molto per i dialoghi (“alla Peter David“, li ha definiti qualcuno… grazie!)
Che difficoltà comporta scrivere per il fumetto?
Scrivere per il fumetto, per chi viene dalla narrativa, per certi versi deresponsabilizza molto. Scrivendo una sceneggiatura non devo stare a pensare alla bella frase, al bel paragrafo, alla bella pagina… devo solo stare attento al dialogo, al ritmo, alla visualizzazione mentale della tavola.Poi, certo, sceneggiare fumetti comporta tutta una serie di regole che io, da neofita, non conosco… per cui in genere chiedo scusa in anticipo ai disegnatori per tutte le castronerie e gli errori tecnici che infilero’ in sceneggiatura.
Quali autori ti hanno influenzato maggiormente e, in generale, da dove trai ispirazione?
Nel campo del fumetto, beh, dico un nome originale: Alan Moore! E un altro nome originale, che suppongo non direbbe mai nessuno: Grant Morrison! Fantasioso, eh? Peter David, pure.
Ispirazione, beh, dalla misteriosa dimensione parallela che sta negli anfratti del mio cervello e che ogni tanto lascia passare qualcosa attraverso una porta molto stretta… (é un modo elegante di dire che non lo so, da dove mi vengono le idee. Da qualche parte, per fortuna, arrivano)
Spesso i fumetti vengono percepiti dal pubblico come un prodotto per bambini o ragazzi e forse per questo vengono ciclicamente accusati di esercitare un’influenza negativa sui più giovani. Dato il contenuto esplicito della tua graphic novel hai avuto problemi in questo senso? Come ti poni nei confronti di queste polemiche?
Qualche problema, sì… ci hanno censurato in tre, due mensili e una radio che avrebbe dovuto intervistarmi. Mi pongo in modo stupito e divertito, dato che, come dice il nostro editore “dopo American Psycho ancora si fanno di queste polemiche?” (potrei dire anche dopo De Sade, senza risalire troppo indietro…)
Parliamo di metafumetto, o se vuoi di metaletteratura, quanto conta per te un personaggio che buca la pagina e sconfina in un altro mondo?
Se fatto bene, moltissimo. Come nel film di Woody Allen che viene citato non a caso nel Vangelo del Coyote, o come in un numero meraviglioso di Astro City di Kurt Busiek.
Hai altre idee per nuovi fumetti?
Idee ne ho per qualunque cosa. Ogni tanto esce fuori l’idea di trasformare Leviatan in una serie a fumetti, poi generalmente la cosa si ferma all’intenzione. Prima o poi succederà. Mi piacerebbe adattare un altro mio romanzo supereroistico, Marlene in the Sky, e poi c’è da continuare la serie di FactorY con Michele Petrucci.
C’é qualche autore/disegnatore in particolare con il quale ti piacerebbe lavorare in futuro?
Non basterebbero sei pagine per elencarli! Anzi, chi vuole collaborare con me mi contatti, io dico di sì a tutti. Se siete ragazze, meglio.
Intervista originaria rilasciata a luglio 2008, integrata via mail a dicembre 2017